Figlie innocenti di mafia

 

Le figlie anoressiche dei boss smascherati

 

 

La Repubblica, 26 aprile 2004

 

L. non è riuscita ad aprire più bocca per sei mesi, dopo avere assistito all’arresto del padre, anche M. è rimasta letteralmente impietrita davanti ai poliziotti. Anoressia, bulimia, depressione a vari stadi, crisi d´identità e stravolgimenti tali da cambiare il fisico e i connotati del volto.

Eccole, sdraiate nel lettino dello psicoterapeuta, le figlie innocenti di mafia, per le quali si compie la tragedia "edipica", spesso rimarcata dalle immagini televisive, di un padre arrestato, ammazzato, di una "scoperta", tanto improvvisa quanto dirompente in un sistema familiare quale quello mafioso che appariva così rassicurante, granitico, troppo monolitico per essere reale.

Dopo le mogli, i figli maschi, i genitori, gli zii, i nonni, la psicologia analizza il ruolo delle figlie femmine nella famiglia mafiosa, finite sotto la lente degli studiosi che da dieci anni a Palermo, guidati dal professor Girolamo Lo Verso, hanno avviato un filone di ricerche, apprezzato in Europa e negli Stati Uniti, sugli aspetti legati alla psiche dei mafiosi e sull’interpretazione profonda dei loro comportamenti.

Ad aprire la strada una tesi di Francesca Abate che ha esaminato queste figure partendo dai racconti e dai test a cui sono state sottoposte tre figlie di mafiosi di un piccolo comune della provincia di Trapani. Accantonati i possibili e facili pregiudizi si è materializzato l´universo sensibile di piccole donne che soffrono il crollo di una figura paterna creduta buona, imbattibile, in grado di proteggerle da tutto e da tutti. Il momento dell’arresto spesso coincide con la scoperta di una verità pesante, al punto da essere rifiutata contro ogni evidenza. È il dramma del dover prendere consapevolezza che il genitore è un efferato assassino e allo stesso tempo essere prese dall’angoscia di perdere il fondamentale appoggio, morale e materiale, che fino a quel momento il padre ha garantito.

Spesso le ragazze reagiscono in modo drammatico. È l´aspetto fragile delle tante facce spietate di Cosa nostra. Nonostante le accuse dei giudici, le sentenze, le prove a carico dei padri, queste donne continuano quasi sempre ad averne un´immagine idealizzata. L. ricorda così quella brutta mattina: «Dormivo nel lettone con i miei genitori. Suonarono alle 5,30 del mattino. Era la polizia. Prima ci dissero che si trattava di una semplice perquisizione. Poi, un poliziotto disse a mio padre: "È il caso che si vada a vestire, c´è un mandato di arresto per lei"».

E tra le lacrime rievoca: «A quel punto scoppiai a piangere e incominciai a tremare. Un agente mi è venuto incontro, si è seduto accanto a me sul letto per consolarmi, io gli dicevo "mio padre è il più buono del mondo", lui rispondeva: "Non ti preoccupare se è innocente presto ritornerà a casa"». Solo grazie a una psicoterapia L. ha ripreso a comunicare con gli altri, ma ci sono voluti sei mesi di analisi.

Mentre ammanettavano il marito per portarlo in carcere, la madre le chiamava, ma M. e la sorella continuavano a restare «bloccate, ferme, immobili, scioccate. Non avevamo capito quello che era successo».

Per V. la scoperta è stata anche più traumatica. All’inizio era troppo piccola per capire e la detenzione del genitore le era stata tenuta nascosta. Aveva undici anni quando un giorno le capitò di leggere gli atti processuali, lasciati distrattamente dalla madre sul tavolo del soggiorno. Fu uno choc apprendere le gravi accuse rivolte dai magistrati al genitore. Solo un primo tentennamento. «All’inizio - dice - ho pensato che le aveva fatte veramente, poi mi sono convinta che era impossibile. Non ce lo vedevo come persona».

L’arresto o la morte di un genitore, di cui apprendono spesso dalla televisione, rappresenta per queste ragazze il crollo di ogni punto di riferimento e di certezza, una frantumazione dell’identità. Di fronte a una situazione del genere, con il rischio di impazzire, di perdere al bussola, queste ragazze non vogliono, forse non possono vedere la realtà delle cose. Come è capitato in una famiglia mafiosa dell’agrigentino, dove l’arresto del padre provoca in due figlie forti disturbi alimentari, mentre una terza s´è messa in testa che «deve prendere il posto di papà».

Andare a trovare il padre in carcere è un altro momento difficile da sopportare e da elaborare per una ragazzina: «Mi ricordo - dice L. - che quando dovevo entrare diventavo fortissima, tiravo un sospiro, entravo e stavo per un’ora con il sorriso. Volevo apparire quello che non ero a casa? Poi quando si chiudeva il portone e i detenuti uscivano, scoppiavo immancabilmente in lacrime».

«Queste figlie - afferma Girolamo Lo Verso - si trovano in bilico tra l´appartenenza e la dissociazione dal monolitismo mafioso. È arduo trovare lo spazio per un’identità propria, scegliere il cambiamento. Il risultato, a cui approdano sempre più frequentemente, è chiedere un aiuto psicologico. Siamo, dunque, in un mondo permeato da sofferenza, incertezza e confusione, in due parole davanti al disagio psichico».

 

 

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