Rassegna stampa 28 agosto

 

Suicidio e dignità in carcere, articolo di Fiorenzo Grollino

 

L’Opinione on line, 28 agosto 2004

 

Un suicidio eccellente nel supercarcere di Sulmona a ferragosto, riapre il problema, mai risolto, delle carceri in Italia e delle manette facili. Camillo Valentini, ingegnere cinquantenne, libero professionista, sindaco di Roccaraso, accusato di concussione, è stato arrestato il 14 agosto ed il giorno dopo ha messo in atto l’insano gesto di suicidarsi. Il sindaco della "Cortina del Sud" era indagato davanti al tribunale di Sulmona per fatti precedenti alla sua sindacatura, riguardante un immobile, la cui costruzione aveva provocato una frana, ed il Valentini, nella sua qualità di sindaco, si stava adoperando per il suo risanamento, come riferisce l’avv. Carlo Rienzi, presidente del Codacons, l’associazione dei consumatori, che lo assisteva in questa vicenda.

La società proprietaria di questo immobile, per motivi di interesse, resisteva all’azione amministrativa. Questi i fatti, che hanno portato inopinatamente in carcere il sindaco. La vicenda è significativa sotto diversi aspetti, tutti di grande interesse, perché questa morte, che il parroco di Roccaraso attribuisce, a torto o a ragione, alla "società cosiddetta civile, con le sue incomprensibili alchimie", riapre problemi di grande attualità, come quello dell’applicazione del codice di procedura penale in materia di restrizione della libertà personale dell’indagato e della reale applicazione delle misure alternative previste dalla legge Gozzini; quello della denuncia delle forze civili e politiche più sensibili al problema della dignità umana.

La morte di Valentini riapre il dibattito tra forze politiche, di governo, di associazioni e di gruppi spontanei, che si battono per dare maggiore dignità ai detenuti. Era scontato che un fatto tanto eclatante quanto eccezionale avrebbe provocato la discesa in campo di istituzioni, partiti ed associazioni. Si sono mossi: il ministro della Giustizia Roberto Castelli; i componenti laici del Consiglio superiore della magistratura; alti rappresentanti dei due rami del Parlamento italiano.

È stata disposta un’ispezione sull’istituto di pena sulmonese, dentro le cui mura i suicidi sono all’ordine del giorno, non solo di detenuti, ma della stessa direttrice del carcere. Tutte iniziative doverose, ma certamente non determinanti per risolvere il problema del pianeta carceri, superaffollati, insufficienti ed in condizioni di vera indecenza. I detenuti, si apprende da diverse fonti, si preparano alla campagna d’autunno per strappare quell’amnistia e quell’indulto, promessi da tutti, e che nei fatti non si sono mai verificati; così come l’edilizia carceraria è ferma e quanto esiste è in condizioni di grave precarietà. Se non che, adesso scendono in campo quelle stesse forze politiche di maggioranza e di opposizione, che non hanno mantenuto le promesse, a suo tempo fatte, e oggi hanno l’ardire di sostenere di essersi impegnate nell’interesse del mondo delle carceri.

Lo stesso ministro della Giustizia, anziché impegnarsi solennemente per risolvere questi gravi problemi, che collocano il nostro paese, in questo settore, tra gli ultimi dell’Unione Europea, trova il modo di affermare che le proteste dei detenuti "sono ribellioni pilotate da visite sospette di alcuni parlamentari". Di peggio non si poteva sentire. Il suo riferimento è anche nei confronti di alcune forze politiche, tra queste i radicali, che si sono sempre battuti per rendere più civile questo paese e che certamente non meritano una censura improntata a tanta leggerezza e disattenzione per i problemi veri e reali del mondo delle carceri.

È stato un suicidio eccellente, dopo i tanti della tangentopoli milanese, a porre sul tappeto il problema della corretta applicazione della norma processuale regolatrice della libertà personale dell’indagato. Ancora una volta la sua applicazione è stata disattesa ed improntata alla massima leggerezza, si è fatto pessimo uso di una disposizione che è soprattutto a tutela della persona indagata. È inaudito che l’ordine di custodia cautelare sia stato emesso quando ancora, a quanto risulta, non erano state acclarate le responsabilità degli indagati, le indagini preliminari erano in corso e lo stesso Valentini, a quanto riferiscono i parenti, da tempo chiedeva inutilmente ai magistrati di essere sentito.

A questo riguardo il prof. Antonio Baldassarre, presidente emerito della Corte Costituzionale, sottolinea che la legge inglese offre più garanzie all’indagato, in quanto "poche ore dopo l’arresto un giudice, indipendente da accusa e difesa, decide se confermare o no la misura restrittiva". Se non che i giudici italiani, nonostante il tanto conclamato garantismo del nostro sistema e gli abusi consumati in questa specifica materia, per i quali sono stati versati fiumi di inchiostro e tante battaglie sono state combattute, e la stessa Corte suprema di cassazione ha avuto modo di censurare tanti provvedimenti restrittivi, continuano imperterriti nei loro abusi e soprusi con le conseguenze che sono purtroppo sotto gli occhi di tutti.

Un ministro giustamente si chiede: "chi censura gli abusi dei giudici?". La domanda non è retorica, perché, essi violano costantemente la disposizione di cui all’art. 273 del codice di procedura penale, che stabilisce: "nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza". Questi gravi indizi di colpevolezza riguardano ben precise fattispecie processuali, elencate nell’art. 274 dello stesso codice, il quale stabilisce che le misure cautelari, la custodia in carcere e gli arresti domiciliari, possono essere disposti nei seguenti casi:

a) quando sussistono inderogabili esigenze attinenti alle indagini, relative ai fatti per i quali si procede, in relazione a situazioni di concreto pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova; b) quando l’imputato si è dato alla fuga o sussiste concreto pericolo che egli si dia alla fuga; c) quando sussiste il concreto pericolo che questi commetta gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata o della stessa specie di quello per cui si procede.

Come si vede esistono limiti ben precisi alla custodia cautelare, ma nel primo caso vi sono anche dei varchi che spesso il magistrato utilizza per raggiungere più facilmente, anche se illegittimamente, l’obiettivo di supportare l’indagine preliminare con la confessione dell’indagato. In questo caso si può verificare che il magistrato inquirente strumentalizzi la restrizione della libertà personale per ottenere dall’indagato la confessione dei fatti che gli vengono contestati e che talvolta non ha commesso, o che, se li ha commessi, sussistono motivi che possono scriminarli.

Si sa che la custodia in carcere o gli arresti domiciliari fiaccano la volontà e quindi rendono la persona propensa a confessioni, che spesso si sono rilevate false, pur di ottenere la liberazione.

Anche se vi è una corrente di pensiero che sostiene la necessità di non modificare la disposizione in esame, pur tuttavia, constatato l’abuso di provvedimenti immotivati, s’appalesa opportuno e necessario ridefinire con estremo rigore l’ipotesi di cui al primo dei casi elencati dal citato art. 274. E ciò perché il successivo art. 277 sancisce che: "le modalità di esecuzione delle misure devono salvaguardare i diritti della persona ad esse sottoposte". Casi, come quello dello sventurato sindaco Valentini, sono destinati a ripetersi, se il legislatore non provvederà a modificare la citata disposizione.

Opera: drammatico sciopero della fame e allarme sanitario

 

Agenzia Radicale, 28 agosto 2004

 

Lorenzo Barbanera, 45 anni, affetto da gravi patologie e in particolare da una gravissima piastrinopenia (1000 piastrine invece delle normali 150-200 mila), detenuto nella Casa di Reclusione di Opera in attesa di giudizio (dopo aver scontato due anni per altro reato) ha intrapreso dal 22 luglio scorso una durissima azione nonviolenta di sciopero della fame, aggravato da cinque giorni di sciopero della sete dal 13 al 18 agosto.

Il Direttore del Carcere, dott. Alberto Fragomeni, dice che ha prescrizioni di farmaci molto sofisticati, anche salvavita, per 2 mila Euro al mese, ma dall’inizio dello sciopero gli sono stati sospesi. Lorenzo è tenuto sotto controllo continuo solo dal compagno di cella a parte la misurazione della pressione e la pesatura quotidiana : è dimagrito tantissimo, non si regge in piedi e in caso di necessità viene spostato con una sedia a rotelle. Il 23 agosto gli hanno negato il colloquio con la moglie perché intrasportabile".

Al 31° giorno di sciopero della fame, la sera del 25 agosto, Lorenzo Barbanera, su accorato appello della moglie al Gruppo radicale della Regione, è stato visitato dal Consigliere Lucio Bertè, che ha preso atto delle sue drammatiche condizioni di salute e di detenzione impegnandosi a rendere noti all’opinione pubblica e a chi di dovere i motivi del suo sciopero. Il Consigliere Bertè ha dichiarato: "Innanzi tutto Lorenzo Barbanera intende sollecitare l’attenzione dell’opinione pubblica e l’intervento delle autorità amministrative e di governo sul proprio caso, in quanto emblematico dell’intollerabile degrado ambientale e sanitario in cui sono costretti tantissimi cittadini detenuti affetti da patologie al limite della compatibilità con il regime di detenzione prescritto per i normali detenuti europei, ma certamente incompatibili con le vergognose condizioni di "carcerazione reale", molto al di sotto di quelle minime previste, e a maggior ragione per i cittadini detenuti gravemente malati".

Tanto più che la legge italiana tutela alla pari - sulla carta - il diritto alla salute dei cittadini detenuti e di quelli liberi. Lorenzo non è ricoverato al Centro Clinico (dove non vuole più tornare dopo aver denunciato un sanitario per omissione di soccorso per un episodio in cui ha rischiato di morire dissanguato) e nemmeno in infermeria, o in locali "sanitarizzati", ma in una sezione per "detenuti comuni", dove sono mescolati sani e malati, le celle sono chiuse per 21 ore al giorno, e l’assistenza è fornita da normali agenti della Polizia penitenziaria e non dal personale sanitario.

"I detenuti malati, trattati come detenuti qualunque, sono soggetti spesso a misure disciplinari che non tengono conto delle loro patologie: Lorenzo è stato messo in isolamento durante una crisi di epistassi per la quale ha inondato di sangue la cella, rischiando la morte, e restando in isolamento per dieci giorni". Dunque il detenuto Lorenzo Barbanera chiede che le Istituzioni rientrino nella legalità, e come misura minima per concludere la sua azione ha chiesto al Direttore di essere almeno spostato in una sezione che preveda l’apertura delle celle nelle ore diurne. Questa misura - a detta del Direttore - dovrebbe scattare proprio oggi.

Lucio Bertè ha infine dichiarato : "Lorenzo ha aderito alla mia proposta di sospendere subito lo sciopero della fame, sul mio impegno di segnalazione del problema agli organi d’informazione e in vista del trasferimento annunciato, riservandosi però di riprendere lo sciopero in caso di inadempienza della Amministrazione sulla sua richiesta minima di avere la cella aperta.

Avevo già sollevato il problema di Opera alla fine del 2003, con una diffida al Sindaco Albertini affinché intervenisse con una ordinanza sugli aspetti sanitari e abitativi del carcere, in qualità di ufficiale di Governo responsabile delle condizioni igienico-sanitarie in cui vivono i residenti sul territorio del suo Comune e - in assenza di misure alternative alla custodia in carcere ordinate dal Magistrato di Sorveglianza - affinché ordinasse il trasferimento dei malati gravi negli Ospedali civili.

Data l’inerzia del Sindaco, passerò alla denuncia alla Procura della Repubblica per omissione. La mia diffida aveva fatto scattare da parte dell’Assessore regionale Carlo Borsani l’ordine alle ASL di sopralluoghi per aggiornare la situazione sanitaria di tutte le carceri lombarde. Alla riapertura dei lavori del Consiglio regionale chiederò formalmente un sopralluogo minuzioso del carcere di Opera da parte della III Commissione Sanità, e non della Commissione speciale Carceri istituita su iniziativa dei radicali, ma che, disertata com’è sistematicamente dai partiti di maggioranza, sembra fatta per espellere i problemi dei cittadini detenuti dal dibattito politico ordinario".

Viterbo: la beffa del trattamento rieducativo…

 

Liberazione, 28 agosto 2004

 

"Area trattamentale", è una parola molto complessa nel suo insieme, che dovrebbe assicurare a tutti i detenuti un minimo di garanzia nel trattamento rieducativo del detenuto. Nel nostro istituto, purtroppo, questa garanzia è del tutto inesistente, in quanto i vari progetti di un’area trattamentale dovrebbero essere seguiti, prima di tutto dal responsabile della stessa area trattamentale, e in seguito dai vari educatori, psicologi e quant’altro. Seguendo ovviamente gli sviluppi e la creatività di ogni singolo detenuto, nei vari corsi scolastici, nella scuola dell’obbligo, nelle scuole medie, e se ci sono nei vari campi di liceo, nonché nei corsi di informatica che dopo la scuola dell’obbligo, a mio parere è indispensabile, nella formazione di una persona per avere almeno un minimo di esperienza, in un qualsiasi posto di lavoro, anche perché oggi come oggi tutto o quasi è basato sui computer e sull’informatica. Lasciando da parte per il momento quest’argomento principale ed essenziale, vogliamo parlare di altri corsi?!

Si qui c’è il corso di cuoio, però è un corso "fantasma", in quanto sono più le volte che non viene, che quelle che dovrebbe assicurare il regolare svolgimento del corso, perché già in se stesso il corso è di breve durata, in più chi di dovere neanche viene, quindi una persona che ha tuta le buona volontà di imparare qualcosa di nuovo e magari di produttivo per se stesso e logicamente anche per apprendere un minimo di esperienza sulla lavorazione del cuoio, si trova solamente a fare la fila la mattina davanti ai cancelli per 30 - 40 minuti, per poi sentirsi dire dall’agente che il corso non c’è perché per l’ennesima volta il professore non é venuto. Devo dire che c’è anche il corso di "apicoltura", che funziona bene con lo svolgimento regolare delle lezioni e qualcosa di serio di impara, anche se non trovo giusto che tutto il miele raccolto e lavorato sia stipato nel magazzino per poi essere buttato. Anche avendo fatto una richiesta al direttore di poter comprare il miele, invece di doverlo buttare come sarà tra un po di tempo, ma non abbiamo avuto neanche risposta.

Ora si sta svolgendo un corso di cucina "aiuto cuoco" e su questo non posso esprimermi perché è in fase di svolgimento da poco. Però avendo più o meno sintetizzato sui relativi corsi potrete arrivare alle seguenti conclusioni: molti i corsi che risultano attivi, però alcuni sono "fantasmi" e altri non coordinati in modo serio e di conseguenza non sono utili a nessuno e controproducenti in maniera che non si impari niente e in più non sono neanche utili in materia di reinserimento e di relazioni sul comportamento della persona, avendo solo sprecato tempo senza usarlo in modo costruttivo e razionale e in più non avendo potuto dimostrare un senso di reinserimento personale potendo dimostrare la voglia e le capacità di ogni singola persona.

Vorrei sprecare anche due parole sulla cosiddetta sala "hobby" e sala "computer", in pratica dovrebbe ospitare i detenuti che soldi permettendo, possono usarla sia per lavori artigianali, sia per studiare col computer, in pratica alcune persone fanno barche, vasi con la creta, e poi c’è la sala computer che è occupata da solo una persona, però qui l’apprendimento dell’informatica è un terno all’otto, perché non si autorizza ad avere un computer, se non solo dimostrando che ci si lavorava già, e chi invece si vuole imparare? Beh non c’è niente da fare e anche questo non è giusto e controproducente per chi vuole seriamente imparare un qualcosa che potrà essere utile sia per se stesso che per il campo lavorativo. Ci sono svariate persone che già da altri istituti erano autorizzati a poter tenere il computer per motivi di studio, me compreso, però qui non conta niente, e io penso che sia più utile imparare e lavorare 5 - 6 ore al giorno al computer, piuttosto che non fare niente e sprecare il tempo, senza essere impegnati in qualcosa di istruttivo e perché no, anche di appagante".

 

Lettera firmata, carcere di Viterbo

Rieti: 240 mila euro per le categorie svantaggiate

 

Il Messaggero, 28 agosto 2004

 

Il Reatino avrà 240 mila euro per l’attivazione di corsi di formazione professionale a favore delle categorie svantaggiate. I corsi partiranno entro settembre e saranno 99 in tutto il Lazio con uno stanziamento regionale pari a 8 milioni di euro. Si tratta di interventi del Programma operativo regionale che riguardano l’inserimento lavorativo e il reinserimento dei gruppi svantaggiati, nello specifico disabili fisici e psichici, immigrati extracomunitari, detenuti, sieropositivi, tossicodipendenti, minoranze etniche, nuove fasce di povertà. Dopo che è stata approvata la graduatoria degli enti - Comuni, università, enti di formazione e imprese cooperative - che presenteranno i progetti formativi, sono stati ripartiti i contributi per le cinque province del Lazio. Il finanziamento stanziato risulta così suddiviso: per la provincia di Rieti 238.777,64 euro; a Latina 828.055,00 euro; a Frosinone 796.219,05; a Viterbo 550.850 euro; alla provincia di Roma 5.584.881,75 euro.

"Le azioni formative previste - ha sottolineato l’assessore regionale alla Scuola e Formazione, Giorgio Simeoni - riguarderanno figure professionali al passo con le esigenze dell’attuale sistema sociale e occupazionale, investendo metodologie innovative e ancora poco utilizzate come il telelavoro, ma anche settori qualificanti come l’informatica, i servizi educativi sociali e sanitari, la floricoltura. Il lavoro avviato dall’amministrazione regionale - ha concluso Simeoni - si sostanzia quindi di provvedimenti concreti, come la formazione che, in particolare, rappresenta una materia di fondamentale importanza per accrescere il livello professionale delle risorse umane e migliorare l’occupabilità nel territorio".

Frosinone: bello quel carcere… meglio non aprirlo

 

Libero, 28 agosto 2004

 

Non è uno scoop, purtroppo. È la solita storia di un’Italia con il vizietto dello spreco dei soldi. Ci troviamo Arce (nel centro della Ciociaria) dove sorge un piccolo carcere moderno, funzionale e mai aperto. La struttura fa parte delle sessantacinque case mandamentali per le quali si era decisa la soppressione con la legge 265/ 99 (art. 34). Strutture costate fior di milioni di euro (miliardi delle vecchie lire). Un problema per il quale l’Amministrazione comunale di Arce s’è fatta carico attraverso un lungo rapporto epistolare con il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero di Grazia e Giustizia.

"Ma non abbiamo mai ricevuto una risposta alle nostre sollecitazioni di apertura del carcere. Nemmeno un sopralluogo", spiega Luigi Germani, storico sindaco arcese (ex democristiano di ferro), oggi vicesindaco. Con lui varchiamo la porta carraia del carcere. Ad aspettarci ci sono mura alte una dozzina di metri e larghe almeno centosessanta centimetri. Non fosse per quel muro e per le grate alle finestre, nemmeno ci si accorgerebbe di entrare in un penitenziario. La struttura è su due piani (dotata di regolari e moderni impianti elettrico e termico).

Una volta dentro, ci si ritrova davanti ad un locale adibito a parlatorio, altri per vari uffici e due piccoli cortili per l’ora d’aria dei reclusi.

Salendo le scale, al secondo piano ci sono due piccole sezioni. La prima con sette celle (destinata agli uomini); la seconda con cinque celle. Locali che sono in grado di ospitare circa ventisei detenuti. "Proprio questo - spiega Germani - ha comportato la soppressione del carcere con quel decreto che cancellava le strutture con meno di trentacinque reclusi. Ma di spazio da recuperare, eventualmente, ce n’è". Una struttura la cui costruzione, secondo la ricostruzione degli amministratori, è iniziata nel 1966 con un primo finanziamento (parliamo in lire così ci capiamo meglio) di quarantuno milioni; terminata alla fine degli anni ‘80 con un altro finanziamento da un miliardo e mezzo circa. Poi, invece dell’inaugurazione, è stato chiuso il portone e mai più riaperto. Se poi sentiamo parlare di sovraffollamento delle carceri e di presunte esigenze di costruirne delle nuove", sbotta l’assessore Germani che come Sindaco e semplice amministratore sulla vicenda è sempre stato in prima linea. " Addirittura - continua Germani - nel 1989 il Ministero di Grazia e Giustizia ci invitava a comunicare i nominativi dei rappresentanti della nostra amministrazione in seno alla Commissione che doveva provvedere all’espletamento del concorso per l’assunzione del personale. Fui indicato io ma non ho mai ricevuto nessuna comunicazione".

Negli anni Novanta cominciano una serie di lettere di proteste. "Questo comune - scriveva Germani, in qualità di Sindaco, al Ministero competente - non può dissentire dalle decisioni adottate circa la soppressione del nuovo carcere soprattutto perché i cittadini non capiscono le ragioni per le quali sono stati fatti recenti e notevoli investimenti finanziari su una struttura che non sarebbe stata poi utilizzata e che, tra l’altro, non è possibile utilizzare per nessun altro scopo". Ma ai solleciti per rivedere la decisione di soppressione del carcere non ci sarebbe mai stata risposta. "No, no - continua l’assessore - Nessuno ci ha mai contattato, a parte le comunicazioni relative alla stessa soppressione. Eppure si tratta di una struttura che potrebbe tornare utile nell’ottica del sovraffollamento delle carceri. Penso anche ad una sezione femminile, per ovviare al trasferimento nel penitenziario romani di Rebibbia. Ma abbiamo soprattutto l’obbligo di dare una risposta ed un significato alla spesa dei soldi dei contribuenti. Per questo continuiamo a chiedere l’apertura della struttura. Ci farebbe piacere vedere un coinvolgimento dei rappresentanti politici locali in seno alla Regione e al Parlamento". Starebbe proprio qui, in un intervento politico, la possibile soluzione del problema. Germani ne è convinto e con una considerazione, lancia anche una sfida: "Dottò - spiega - finita l’era Andreotti, purtroppo, per la Ciociaria è cominciato il periodo buio".

Francia: una legge per "morire con dignità"

 

Corriere della Sera, 28 agosto 2004

 

Una legge per "morire con dignità, non per fare morire". Il ministro della Sanità francese ha annunciato ieri la presentazione in Parlamento "entro la fine del 2004" di un provvedimento che garantirà a ogni malato incurabile "il diritto di scegliere la propria morte". "Ogni anno 150 mila persone vengono staccate dalle macchine che le tengono in vita artificialmente in assenza di qualsiasi quadro giuridico - ha spiegato il ministro Philippe Douste-Blazy -.

I medici che si prendono questa responsabilità in genere rispettano la deontologia professionale che vieta l’accanimento terapeutico, ma rischiano la condanna per omicidio premeditato. Un’ipocrisia inaccettabile".

L’eutanasia resta illegale, non viene depenalizzata. Il codice penale non viene modificato, ma quello deontologico sarà riordinato. "Un malato terminale potrà scegliere - anche per il dopo, quando non sarebbe più in grado di farlo - tra un ciclo di chemioterapia in più e le cure palliative, la morfina". Una situazione simile a quella italiana, dove l’eutanasia è proibita ma alcuni disegni di legge alla Camera e al Senato dovrebbero presto essere riuniti in un testo unico che autorizzi il testamento biologico e la scelta delle cure.

La decisione del governo francese arriva dopo l’ondata emotiva scatenata l’anno scorso dal caso di Vincent Humbert. Il vigile del fuoco 22enne, rimasto tetraplegico, cieco e muto dopo un incidente stradale, che chiedeva da mesi di morire. Il 24 settembre 2003, tre anni esatti dopo l’incidente, la madre Marie gli ha fatto un’iniezione di barbiturici. La sofferenza non era ancora abbastanza, Vincent è entrato in coma ma non è morto. Due giorni dopo Frédéric Chaussoy, direttore della rianimazione dell’ospedale di Berck, gli ha iniettato una doppia dose di cloruro di potassio, letale.

La commozione che attraversò la Francia ha portato alla formazione della commissione parlamentare di Jean Léonetti, che il 30 giugno ha presentato il suo rapporto. Ieri il ministro Douste-Blazy ha annunciato al Figaro che la proposta di legge recepirà sostanzialmente quel lavoro. "Sono anch’io un medico - ha detto il ministro -. E ogni medico si è trovato davanti a malati in fin di vita, molto sofferenti magari per metastasi alle ossa. Quando il paziente chiede più morfina, è troppo difficile e inumano rifiutarla. Finora chi somministrava la dose a rischio, quella che toglie il dolore ma può anche causare la morte del malato, veniva punito. Con la nuova legge invece il diritto del paziente a rifiutare cure inutili sarà rinforzato, eviteremo l’accanimento terapeutico e l’ipocrisia nei confronti dei medici, che però non avranno mai la facoltà di dare la morte".

Questo è il passaggio decisivo. Il progetto francese ha il merito di "superare l’ipocrisia", e va verso quella che in Italia viene tollerata come "eutanasia passiva" (la "morte con dignità" e il "no alle cure irragionevoli" evocati dal ministro Douste-Blazy). Resta il no netto all’eutanasia attiva ammessa, in Europa, solo in Olanda e in Belgio.

Ma che fare se domani capitasse un nuovo caso Humbert? La madre di Vincent è accusata di "somministrazione di sostanze tossiche" e rischia 5 anni di carcere. Il dottor Chaussoy, imputato per "avvelenamento con premeditazione", rischia l’ergastolo. Se anche la legge fosse stata già in vigore nel settembre scorso, la loro posizione non cambierebbe. "Il progetto del ministro non riguarda le persone come Vincent, intrappolate nei loro corpi ma che non sono in fin di vita - ha detto la signora Humbert -. Dobbiamo andare più avanti". "Douste-Blazy parla di fatto di depenalizzazione - ha aggiunto il dottor Chaussoy -, è un passo avanti piccolo ma certo. Eppure, non risolve affatto il problema di chi chiede di morire perché soffre troppo". Paradossalmente, il caso Humbert è sfociato in un progetto di legge, che lo ignora.

In Italia, l’eutanasia attiva somministrata dal dottor Chaussoy verrebbe punita con una condanna da 5 a 15 anni di carcere per "omicidio del consenziente". E’ vietato anche il suicidio assistito (il paziente si toglie la vita usando farmaci forniti dal medico), giudicato "istigazione al suicidio" e punito con 5-12 anni. E’ tollerata "l’interruzione del trattamento terapeutico", chiamata - "impropriamente", secondo il ministero - eutanasia passiva. I testi in discussione in Parlamento introdurranno il "testamento biologico", un documento che contiene le volontà espresse dal malato (quando è ancora in grado di intendere e di volere) sulle cure da seguire e, soprattutto, da evitare.

Arrivano dal carcere le t-shirt più alla moda

 

Ansa, 28 agosto 2004

 

L’estate 2004 verrà senz’altro ricordata per il fenomeno delle t-shirt "made in jail", che letteralmente significa fatte in carcere. Infatti, sarà capitato un po’ a tutti, di frequentare il locale del momento e scoprire con meraviglia un’orda di giovani che indossano con relativa serenità t-shirt che in altri tempi avrebbero fatto gridare allo scandalo: "Colombia narcotraffico", "Cocaina", "Pablo Escobar 1949-1993", "Narcotrafficante".

Una voglia di trasgressione che è presente in ognuno di noi e, che, al momento opportuno si manifesta attraverso l’esibizione di queste magliette dai toni alquanto sarcastici.

Come in una riuscita operazione di comunicazione, orchestrata dalla più geniale mente criminale, con delle innocue t-shirt si tende ad ironizzare sulla vita del carcere e a ridare dignità a chi ha debiti con la giustizia.

Una trovata così originale, non poteva che essere concepita in una casa di reclusione, è precisamente a Barcellona (Spagna), da un narcotrafficante colombiano, condannato nel 1991 a 20 anni di carcere per spaccio di droga e traffico di armi. Il neo stilista un po’ per noia, un po’ per pentimento, come si legge nel suo sito Internet, ha creato una linea dal nome abbastanza provocatorio "De Puta Madre", facilmente traducibile in "figlio di puttana".

In una prima fase queste magliette decorate a mano dal detenuto e da un suo compagno di cella uscivano dal carcere in maniera clandestina; poi una volta fuori, il neo stilista ha trovato un produttore con cui ha lanciato la sua collezione in giro per il mondo.

Anche gli inquilini delle carceri italiane hanno pensato bene di dedicarsi alla moda, ma decisamente con toni più delicati, è il caso della Cooperativa Seriarte Ecologica, fondata nel 1988, nata con lo scopo di reinserire i detenuti nel mondo del lavoro.

La cooperativa si autofinanzia, mantenendosi proprio attraverso la vendita delle t-shirt sia attraverso negozi specializzati sia in occasione di grandi manifestazioni come le feste dell’Unità, l’Estate romana e Arezzo Wave.

La collezione acquistabile anche su Internet: www.madeinjail.com, si caratterizza per assortimento ed originalità, attraverso slogan dal sapore ironico come: "Beato chi crede nella giustizia perché verrà giustiziato", "Bevo solo quando guido", "University of crime", "Il carcere nuoce gravemente alla salute"; insomma messaggi brevi ma diretti al cuore che regalano un sorriso e illuminano di una nuova luce chi avendo sbagliando, trova adesso nella moda l’occasione del riscatto per tornare ad una vita normale.

Sinappe: "amnistia e indulto non servono a nulla"

 

Giornale di Brescia, 28 agosto 2004

 

Amnistia o indulto? Il Sinappe non crede che la soluzione del problema legato alla condizione carceraria sia legato alla soluzione di questo "dubbio amletico". Il Sindacato nazionale autonomo di polizia penitenziaria, si legge in un comunicato diffuso in queste ore, ritiene che due siano le certezze: il sovraffollamento delle carceri e la carenza dell’organico di polizia penitenziaria e di tutti i ruoli tecnici e amministrativi.

"La stima effettuata dall’allora ministro Fassino e cristallizzata in un decreto assunto senza il consenso delle organizzazioni sindacali - dichiara il Sinappe - fotografa una situazione del tutto distante dalla realtà e fissa un numero di uomini palesemente insufficiente alle molteplici esigenze del Corpo di Polizia penitenziaria". E ancora: "Il poliziotto penitenziario - prosegue il comunicato - è il primo infermiere, assistente sociale, psicologo, educatore, è colui che compie migliaia di gesti eroici senza fare notizia".

Detto questo, il sindacato torna sui provvedimenti "svuota carcere". "Non crediamo che l’estinzione della pena o quella del reato - dice il Sinappe - risolvano il problema: è sufficiente considerare che su 10 detenuti 8 tornano in carcere per convincersi di questo fatto". Le proposte d’intervento del sindacato sono sostanzialmente due: "Bisognerebbe creare nuove strutture e ammordernare quelle esistenti - spiega il Sinappe - e mettere anche mano ad una riforma complessiva del sistema penale.

Proseguire sulla direzione intrapresa dal ministro Castelli". Queste le medicine indicate per la cura del grande malato, ma anche per il miglioramento della condizione degli operatori. "Il problema dell’affollamento delle carceri - dice il sindacato - si ripercuote immancabilmente sul lavoro dei poliziotti penitenziari. Quando si parla di tali argomenti, dolendosi giustamente delle condizioni dei detenuti, ci si è mai chiesti cosa significa entrare in una cella da solo con 10 o più detenuti? Che garanzie per un poliziotto che da solo gestisce una sezione con un centinaio di detenuti?".

Brescia: sciopero della fame a Canton Mombello

 

Giornale di Brescia, 28 agosto 2004

 

Prosegue la protesta dei detenuti di Canton Mombello. La struttura, inaugurata nel 1914, è al collasso; Brescia si trova al terzo posto in Italia nella non invidiabile classifica dell’affollamento delle prigioni. Oltre a questo, a causa dei tagli di bilancio, nei mesi scorsi sono venuti a mancare farmaci indispensabili per la salute di molti detenuti, così come si è registrata una carenza di personale sanitario.

Condizioni umanamente insopportabili, a cui Fondazione Asm ha sopperito con un proprio contributo mentre il Ministero di Grazia e Giustizia, inspiegabilmente, ha continuato a tacere, nonostante più volte avesse ricevuto numreose segnalazioni al riguardo. Ciò che maggiormente preoccupa i detenuti è che le possibilità di rieducazione e reinserimento lavorativo, così come sancito dall’articolo 27 della Costituzione Italiana, restino tali solo sulla carta, mentre in realtà non trovano riscontro: "Gli intenti dell’articolo 27 per adesso sono solo mere appendici utopiche - è l’amara constatazione dei detenuti a Brescia - e si rende necessaria l’attuazione delle norme contenute nelle leggi Gozzini e Simeone, in modo da limitare l’arbitrarietà decisionale, e deve essere propagandato agli imprenditori il vantaggio economico e sociale offerto dalla legge Smuraglia in merito all’assunzione di detenuti".

A ciò si aggiunge una situazione di generale difficoltà nei rapporti umani e di invivibilità all’interno delle carceri: "La promiscuità ha raggiunto, come è ormai fin troppo noto, livelli insostenibili; le condizioni igienico sanitarie - insistono i detenuti - sono inumane e la lentezza nei procedimenti penali sommata ad altri innumerevoli fattori aberranti, che chiunque con una semplice visita può constatare, sono indegne per qualunque paese si ritenga civile ed affievoliscono, inaridendola, la speranza di qualsiasi spirito di ravvedimento".

Uno sfogo deciso, una chiara presa di posizione. E I detenuti hanno deciso non solo di alzare la voce, ma anche di rendersi protagonisti di una protesta che, si augurano, possa sensibilizzare l’opinione pubblica ma soprattutto le istituzioni riguardo le loro condizioni. Una protesta "pacifica", come sottolineato dagli stessi detenuti, che si concretizzerà in due specifiche azioni: la prima, prevista per la giornata di domani, sarà uno sciopero della fame; la seconda partirà il 18 ottobre e vedrà a livello nazionale la partecipazione coordinata di tutti i detenuti di tutti gli istituti penitenziari, che a turno opereranno lo sciopero della fame e lo sciopero dei lavoranti. Da queste iniziative verranno escluse le persone provate da malattie e sarà garantito il normale svolgimento delle attività scolastiche.

Rimini: servono più agenti per il carcere

 

Corriere della Romagna, 28 agosto 2004

 

È la "sovrappopolazione" il problema più serio del carcere di Rimini. Per le condizioni dei detenuti certo, che però non vi restano di solito per più di due - tre giorni a fila. Ma soprattutto per gli agenti di custodia, che devono compilare un mucchio così di documenti, indipendentemente dalla permanenza più o meno lunga di un detenuto ai Casetti.

Questa la situazione della Casa circondariale rilevata ieri mattina dall’onorevole Filippo Berselli (sottosegretario alla Difesa nonché sindaco di Montefiore) in una visita che ha effettuato alla struttura."Si tratta di un carcere risalente agli anni ‘70 - commenta -: un po’ datato ma ancora buono. Solo che era stata modulata per 120 detenuti, mentre ora in estate ne ospita 250 - 260, e in inverno si ferma ai 150 - 180".

Ma oltre a questo, "La pianta organica degli agenti di custodia è di 167 persone, mentre in servizio ce ne sono 110. Mi hanno detto che ne servirebbero almeno altri 30. E per questo mi adopererò presso il Ministero dell’Interno".

Berselli ha visitato anche gli alloggiamenti degli agenti stessi, "E li ho trovati sufficientemente confortevoli. Tra l’altro il 60 per cento di loro ha trovato casa fuori dai Casetti. Il problema principale è quello dei carichi di lavoro". Sui quali Berselli si darà da fare.

 

 

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