Rinunciamo anche all'aria

 

La nostra lotta dietro le sbarre: rinunciamo anche all’aria

 

La Repubblica, 17 settembre 2002


Domenica, 15 settembre. Aria piccola. (Ci diamo due arie, una piccola, detta grande, e una più piccola, detta piccola: a turno, con la sezione giudiziaria). Non fa più troppo caldo, ma c’è il sole. Parecchi passeggiano - cioè vanno su e giù, 22 passi all’andata e 22 al ritorno - in calzoncini e ciabatte. A volte capitano eventi: cinque rondini che inseguono una farfallina, un geco scivolato giù dal tetto e fermo sul muro come un tatuaggio spaventato, ai bordi dell’aria grande perfino un albero, un ailanto: fuori è un micidiale infestante, qui dentro un lussuoso intruso clandestino, scampato all’esclusione regolamentare di donne bambini cani gerani aironi aquiloni.
Insomma, alcuni stanno accoccolati a terra (sedili non ce n’è), zitti a occhi chiusi, o giocando a carte, per lo più a macchie etniche: maghrebini, bosniaci, albanesi, napoletani, toscani. Alcuni sfusi, un nigeriano, un mantovano. Gli arabi giocano con carte consunte, a ronda, una specie di scopa mista col rubamazzo; gli italiani con carte più nuove, a tresette e briscola, molto parlati.
L’aria c’è due volte, dalle 9 alle 11, e dall’una alle tre. Poi un’apertura supplementare in una stanza comune. Diciassette ore al giorno chiusi nelle celle: questo è un carcere cosiddetto aperto.
Quando entrai in galera, sei anni fa, o sessanta, non mi ricordo, c’erano 200 detenuti circa, ora ce ne sono 320, e diminuiti gli agenti. E questo è un carcere non grande, e che mette dell’impegno in cure ed educazione. Altrove si va molto peggio. Ora il cortile si riempie: scendono quelli che hanno guardato il Gran Premio di Monza. Da sette giorni si fa lo sciopero del carrello, cioè del vitto, pane compreso, che viene distribuito con un carrello, donde la dizione.

Non è un digiuno, perché si consuma il cibo comprato in carcere o portato dai famigliari. Ammesso che si abbiano famigliari o euro. Gli stranieri, e molti italiani, non ne hanno. Dunque lo sciopero del vitto, anticamera dello sciopero della fame, gli equivale già per molti. Bisogna che chi può aiuti chi non ha. Bisogna che chi non ha ammetta di non avere - spesso se ne vergogna, per orgoglio. Bisogna che chi non vuole partecipare lo faccia senza subire pressioni. Anche in un posto così semplificato - poche persone, di un solo sesso, e ridotte all’ecce homo - le cose sono complicate.

Sapete che il sogno degli psicologi è di condurre i loro esperimenti in laboratori che riproducano la segregazione e il meccanismo carceriere-prigioniero, Grande Fratello compreso. Ma certi psicologi fraintendono, perché pensano che la sperimentazione in situazione estrema, la galera, addirittura il lager, sia rivelatrice per eccesso di ciò che giace dentro individui normali in condizioni normali: il che è vero solo un po’, ed è molto più vero l’opposto, che situazioni forzate e perverse pervertono le persone e le storcono a tradire se stesse e il proprio prossimo. (Considerazione che vale anche per la discussione sui volonterosi carnefici dei fanatismi totalitari).

Ora ci mettiamo in cerchio, e parliamo di come continuare nella protesta indetta da Rebibbia e altre carceri maggiori. Poiché non si tratta né di una vertenza sindacale, che supponga una trattativa, né di una spallata, che ammetta un oltranzismo, ma di dare durata e calma a una testimonianza, si decide di passare a una settimana di sciopero dell’aria.
L’espressione è appropriata, fa immaginare una gente che boccheggia, una specie di apnea fisica e spirituale. Non si esca all’aria, né piccola né grande, per una settimana. Non si vada a camminare su e giù come le pantere spelate allo zoo, né ad appoggiarsi al muro con gli occhi chiusi, né a giocare a pallone, né a star seduti e guardare il cielo sopra di noi. Sacrificio da poco, direte: beh, provateci. La galera è appunto un luogo estremo, dal quale sono abolite le cose di mezzo che fanno la vera vita, quelle di cui neanche ci si accorge più. In galera tutto è nulla, perché si è animali incattiviti e mutilati di tutto, e però i dettagli minimi si prendono un peso abnorme.
Ciascun detenuto è un Robinson che fa tesoro delle poche cianfrusaglie strappate al naufragio. L’aria non è una condizione data: è una concessione regolamentare e revocabile. L’aria del giorno - quella della notte è vietata per sempre. Come potreste saperlo, del resto? Il ministro della Giustizia immagina cose strane, fin dagli esordii, fin dalla visita notturna a Bolzaneto, quando vide persone già malmenate tenute a braccia e gambe larghe e faccia al muro, e gli fu spiegato che era perché i fermati maschi non molestassero le fermate femmine. E poco fa l’idea che il Regolamento penitenziario - mai applicato, del resto: se no avrei finalmente un interruttore della luce nel mio sgabuzzino - disegni carceri come hotel a cinque stelle.
Dice il ministro: "Io conosco bene i penitenziari". Ma su! Non ne ha un’idea. E come potrebbe averla? Lamenta che non si sia apprezzato che i detenuti di San Vittore fossero 2200 e siano 1400. Sia pure: ma in quale scatola di sardine sono andati a stiparsi gli 800 sfollati? Mentre Castelli rivendicava lo sfollamento di San Vittore, alle Vallette di Torino si chiudeva due giorni per tutto esaurito, e gli arrestati finivano in camere di sicurezza di polizia e carabinieri, misura d’emergenza come quelle che si prendono durante un terremoto o un’alluvione e vietata per legge.
 

Per le carceri, alluvione e terremoto sono perenni. Il ministro chiede che si apprezzi l’accordo con l’Albania per il rimpatrio di detenuti in nuove galere di quel paese. Se non sbaglio, si tratterà, a pieno regime, di 700 persone. I carcerati sono 57.000, e quasi il doppio quelli che entrano ed escono in un anno senza contare i 20.000 sottoposti a detenzione domiciliare e altre misure. Il sovraffollamento è enorme: ma anche qui si rischia l’equivoco. Il sovraffollamento non è il problema: è una sua micidiale aggravante. E’, per intenderci, il problema che un ingegnere si troverebbe di fronte se dovesse ricostruire un edificio inabitabile.
Qualunque progetto, qualunque prima pietra, dovrebbe passare prima per lo sgombero delle macerie. Senza ridurre la ressa di detenuti, non si troveranno spazio fisico né denari bastanti non dirò alla ricostruzione, ma alle riparazioni di fortuna. Già i soldi mancano, a spese di farmaci, di salari di chi lavora (degli stessi agenti e operatori).
La pubblica opinione sarà incuriosita di sapere che amnistie e indulti, espedienti poco meno che annuali fino a dodici anni fa, finirono del tutto perché il Parlamento votò una legge: sarebbero occorsi d’allora in poi i due terzi dei voti per qualunque provvedimento di clemenza. Maggioranza davvero introvabile, e iperbolica, dato che perfino per cambiare la Costituzione basta la maggioranza semplice. Istruttiva la circostanza di quella legge draconiana: un modo per farsi perdonare un’ultima amnistia appena varata, per reati di peculiare pertinenza dei partiti di allora.
C’è la sovrappopolazione della galera. Poi c’è la galera. Lontano come sono dalla concezione del mondo leghista, avevo tuttavia preso sul serio il Bossi che qualche anno fa neanche tanti - metteva in conto di essere condannato e si diceva deciso ad andare in galera. Ancora ieri l’altro sentivo scandire alle sorgenti del Po lo slogan: "Libertà". "Libertà - diranno - ma non per i delinquenti". Ma in galera, e nelle sezioni giudiziarie, le peggiori, ci sono migliaia di persone innocenti che non sono state giudicate, e che saranno assolte.
(Ce ne sono anche di giudicate e innocenti: per esempio io). E gli altri, sono persone che pagano, spesso esosamente, un debito, non bambolotti puntaspillo. E come lo pagano. Stare in gabbia è, per ogni animale vivente, terribile. Più terribile quando, come la maggioranza dei ragazzi che riempiono le carceri di oggi, abbiate due o quattro tipi di epatite, o siate hiv-positivi, oppure, come molti fra gli anziani, siate diabetici e cardiopatici, o invalidi o handicappati. Quando vediate ogni giorno teste sbattute nei muri, ferraglia ingoiata, per paura, per un’offesa, per anestetizzarsi, o chissà perché. Ebbi davanti un giovane arabo, tremante e piangente, che per un suo terrore si era tagliato fino a sanguinare copiosamente.
Degli agenti cercavano di calmarlo, qualcuno gli diede un fazzoletto di carta per tamponare intanto le ferite. La carta intrisa di sangue gli cadde sul pavimento, lui la raccolse; gli dissi di non usarla più, che si era sporcata. Mi guardò e, con un’espressione che non dimentico, si infilò in bocca quello straccio di carta insanguinata e lo masticò e ingoiò. Così si sta in galera, sovraffollamento o no. E tutt’al più si sta come chi è buttato via, a giacere, inebetiti, spoliati, snervati. I detenuti stanno sull’orlo di un burrone: e siccome non c’è una finestra senza sbarre dalla quale buttarsi giù, tanti s’impiccano a pochi centimetri dal suolo.
E il ministro pensa di conoscere i penitenziari. Neanch’io li conosco. Si è chiesto che cosa significhi qui dentro una frase sugli hotel a cinque stelle, una frase sui deputati di sinistra che "creano il malcontento dei detenuti"? Il malcontento? Io sono ben poco indulgente con i governi di centrosinistra, quanto a giustizia e carceri. Di là a paventare che i deputati fomentino rivolte! Pietro Folena, persona piuttosto d’ordine, segue le carceri, e specialmente le romane, da anni. E i detenuti di Rebibbia che hanno proposto da mesi (con gli obiettivi del Giubileo!) queste manifestazioni, hanno auspicato dall’inizio che parlamentari di ogni schieramento volessero visitare le carceri, per proteggere e conoscere le buone ragioni della lotta, e la sua determinazione pacifica e anzi legalitaria.
Mi spiacerebbe che a un riflesso chiuso e risentito cedessero i radicali, che hanno i migliori titoli da vantare per l’attenzione assidua e coraggiosa alle carceri. Essi temono che la sinistra, o associazioni come la Caritas, l’Arci, il gruppo Abele, Antigone, vogliano "mettere il cappello" sulla protesta dei detenuti. Ma proprio i radicali sono stati i più ingiustamente esposti all’accusa di strumentalizzare la disperazione dei detenuti. Ben venga, chiunque, a mettere il cappello su questa feccia vilipesa. Ben fosse venuta, la grande manifestazione di San Giovanni, a metterci su un berrettino caldo. (C’è stata bensì la fedele presenza di Franca Rame e Dario Fo e don Ciotti a Regina Coeli).
Insomma, qui a Pisa stiamo in seconda fila, dietro le carceri maggiori che hanno promosso una lotta tanto più degna perché non si fa illusioni. Da domani faremo a meno dell’aria. Tutti d’accordo, benché abbiano una faccia mogia. L’aria dei cortili non rende liberi, ma almeno allarga un po’ i polmoni. Rientriamo, consolati dalle ultime notizie. Il Pisa ha vinto due a zero fuori casa, e soprattutto le azzurre della pallavolo sono campionesse del mondo. Qualcosa riuscirà anche a noi, indoor.

 

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