Noi, a TV spenta in carcere

 

Noi, a TV spenta in carcere

 

La Repubblica, 25 settembre 2002

 

Per una settimana nessun naso di detenuto si è affacciato all’aria. Domenica 21, pomeriggio, finisce lo sciopero e usciamo cautamente, perché si è scatenato fin dalla notte uno spettacolare nubifragio. Adesso si alternano scrosci e sole, "Con questo tempo quasi sposa il lupo", dice Mohammed. Prendiamo le ultime decisioni sulla settimana nuova. Qualcuno, in disaccordo, manca. Ma i più sono convinti. Il giovane Bouskri fa un ultimo tentativo: "Per favore, piuttosto lo sciopero della fame totale, ma la televisione no!

C’è una risata generale, ma l’implorazione è la migliore spiegazione della decisione che abbiamo preso: una settimana di sciopero della televisione. Non si vive di solo pane, e qualcuno sacrificherebbe il pane piuttosto che la televisione.

Il ministro Castelli, non so per quale equivoco, aveva deplorato che regolamenti penitenziari troppo lussuosi pretendano "i televisori a colori". Ma ce li abbiamo, i televisori a colori! Ci sono i televisori nelle celle da una trentina d’anni, e da parecchi anni quelli a colori, con l’eccezione di qualche chiazza attardata chissà per quale incuria o truffa. (Alcuni detenuti, pare, fanno parte del campione Auditel).

I televisori non sono più un lusso da nessuna parte, nelle baracche senza fogna e senza pane di certe periferie, o sulle roulotte scalcagnate di certi clochard. In carcere la televisione è il principale mezzo di informazione, e di educazione linguistica e culturale. E naturalmente è un espediente sedativo irrinunciabile, più degli psicofarmaci di cui si fa ampia e inevitabile somministrazione.

E pensate a un altro aspetto, quello della coabitazione forzata e paragonatelo alla vostra esperienza domestica, se l’avete, o alla bella rivendicazione in cui Virginia Woolf additava il cuore della libertà femminile, "una stanza tutta per sé".

"Siamo in tre in una cella infima - dice Edin - parliamo lingue diverse, e non andiamo d’accordo. Se di sera, quando siamo chiusi uno addosso all’altro, per cucinarci qualcosa, per andare al bagno, per stare in branda, non avessimo la televisione da guardare, scoppieremmo". C’è anche l’altra faccia: i litigi e i risentimenti che lo spazio compresso e impudico rende esplosivi, e il pretesto più frequente dell’esplosione sono le divergenze sul programma televisivo da guardare. Sapete l’antico motto dei monasteri: "Pax multa in cella, foris autem plurima bella".

In cella regna la pace, fuori infuriano le guerre. La galera è una clausura alla rovescia: innumerevoli guerre insidiano lo spazio soffocato della cella, e fuori aspetta il sogno della vera vita - il suo manifesto pubblicitario è la televisione.

Protesta uno: "Abbiamo fatto lo sciopero del carrello per una settimana, e l’Amministrazione non ci ha rimesso niente. Non siamo andati all’aria per una settimana, e tutt’al più hanno risparmiato sugli agenti. Adesso mettiamo fuori i televisori, e a loro non farà né caldo né freddo".

Un po’ è vero: si tratta di vedere se a noi interessa danneggiare qualcuno, o spiegare le nostre ragioni, e mostrare di tasca nostra che le prendiamo sul serio. I lavoratori in sciopero incrociano le braccia per i propri diritti e il proprio salario, e fanno pagare cara ai padroni la loro avarizia o la loro prepotenza.

Ci rimettono il salario e guadagnano in dignità e solidarietà. (La stessa cosa succede in carcere con lo sciopero dei lavoranti: che sono pochi e mal pagati e trattati). Piano piano lo sciopero della fame, disprezzato a lungo come una stravaganza religiosa e rinunciataria, ha preso per i diritti civili e per la dignità personale un’importanza paragonabile a quella dello sciopero del lavoro. Nello sciopero della fame la rinuncia nel proprio corpo è anche un affinamento di sé una purificazione, una disintossicazione. Importa meno il danno materiale inflitto alla controparte: è a una conversione dell’opinione che si mira, senza escluderne i propri stessi avversari. Anche lo sciopero della fame può sconfinare in qualcosa di truce, una tentazione di morte, o di fatuo, una dieta cosmetica.

Dove altre vie sembrano precluse, lo sciopero della fame è una vocazione quasi forzata: e non avete idea di come sia endemica nelle carceri, benché non nell’oltranza lugubre delle galere irlandesi e ora turche. (Però si sarebbe sconvolti, se si sapesse quanti anche da noi finiscono col morirne). Anche i nuovi scioperi di consumatori hanno un doppio significato. Mirano ad arginare la prepotenza di chi fissa prezzi e qualità delle merci; ma implicano anche una scontentezza, una sensazione d’essere, col nome di consumatori, consumati.

Poi c’è la televisione, molto idolatrata, e un po’ demonizzata. In carcere - niente auto, niente telefoni, né Internet, e nemmeno una normale lampadina - la televisione è ancora più sovrana.

Fuori, tiene chiusi in casa gli umani liberi; dentro i chiusi senza libertà non hanno altra finestra sul mondo. Sono i prigionieri della caverna di Platone, che guardano lo spettacolo d’ombre sul muro. Rinunciare a quello schermo d’ombre vuol dire riseppellirsi in un sepolcro per vivi. Come il simulacro d’aria dell’ora di passeggio, la televisione concede un simulacro di vista lunga in uno spazio che taglia corto lo sguardo.

Tutto ciò è messo in causa in galera dallo sciopero della televisione. Non è mai stato fatto, probabilmente. Forse, piccola vanteria, questa protesta di detenuti anticipa i liberi, fra i quali lo sciopero della televisione avrà un grande futuro. O la dieta, se volete: quel giorno alla settimana di digiuno televisivo che il cancelliere Schmidt si augurò, che qualche bravo vescovo si augura, al posto del pesce del venerdì. Succederà. E magari si scoprirà una felicità, come per le domeniche a piedi. Noi, qui, non ci aspettiamo nessuna felicità. Piuttosto una testimonianza risorgimentale, come lo sciopero del fumo nelle strade di Milano.

Sia detto anche per quel gran numero di stranieri, che del nostro Risorgimento non sanno niente - né noi dei loro - ma hanno, a dargliene l’occasione, una voglia di dignità. Lunedì mattina, qui dentro, è morto un giovane di trent’anni, toscano, uno dei mille e mille tossicodipendenti che riempiono le carceri. Di morte naturale, ma vita e morte in carcere sono innaturali. La lotta delle prigioni continua, ma le notizie si affidano a tamtam fortuiti, nocche battute sui muri. L’informazione pubblica aspetta l’incidente: dichiarazioni spinte di un ministro, violenze.

Ci sono giornali delle carceri, che a volte superano la testimonianza umana e sono capaci di una seria discussione critica - cito la bella rivista del carcere padovano, "Ristretti orizzonti", di cui è appena uscito un numero importante - ma scontano spesso l’autocensura, e sempre l’intempestività. Peccato, perché le notizie sono avvincenti: infatti delle galere vere si tace, ma tre o quattro film e telefilm per sera su galere finte non si negano a nessuno. Ecco.

Magari, ora che noi abbiamo messo le televisori in magazzino, i telegiornali parleranno dello sciopero dei detenuti. Abbiamo preso le nostre misure di conforto: che ogni cella abbia la sua radiolina e le sue pile, che ognuno, cristiano o musulmano o che altro - ci ha pensato la nostra suora - abbia la sua personale copia della Famiglia Cristiana; e anche un buon libro da leggere, un mazzo di carte napoletane, di quelle consentite. E i suoi pensieri.

 

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