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Un sereno confronto nel solco della Costituzione

di Giovanni Salvi, Vicepresidente dell’Associazione Nazionale Magistrati

 

(Guida al diritto, 11 agosto 2001)

 

Il discorso del ministro Castelli alla commissione Giustizia della Camera è ricco di spunti interessanti, molti dei quali condivisibili: valutazioni di professionalità dei magistrati più rigorose, una progressione economica svincolata dalle qualifiche, temporaneità negli incarichi direttivi, sono tutti impegni che da tempo l’ANM va sollecitando. Su altri aspetti occorrerà invece confrontarsi sulla traduzione delle prospettive generali in ipotesi concrete.

Ad esempio, sarebbe molto preoccupante per il sistema costituzionale d’equilibrio dei poteri un’interpretazione men che rigorosa della riforma che vorrebbe “stabilire un miglior raccordo fra l’esercizio autonomo della funzione giudiziaria e le esigenze del popolo”.

Nulla da osservare se si tratterà solo di una maggiore attenzione da parte del Parlamento per la sensibilità dell’opinione pubblica, al momento delle scelte di politica criminale che solo a quell’organo competono. Con un’avvertenza. Anche in questo campo, il Parlamento non è senza vincoli, giacche anch’esso deve rispettare la gerarchia di valori che la Costituzione impone. Ad esempio, quale gerarchia individuerebbe un legislatore che, di fatto, depenalizzasse il falso in bilancio e lo punisse, nelle ipotesi più gravi, con una. pena. di quattro anni e contestualmente punisse il clandestino con la stessa pena? Non si tratterebbe di diritto penale minimo, come pure sembra indicare il ministro Castelli, ma di diritto mite con i forti e feroce con i deboli.

La giustizia civile ha dato importanti segni di ripresa. Per la prima volta dopo molti anni il numero delle cause definite è superiore a quello delle cause sopravvenute. A questi risultati positivi ha contributo indubbiamente, tra l’altro, la riforma dei primi anni ‘90, che ha valorizzato il ruolo del giudice nel contrastare le dilazioni del processo. Ciò nonostante il ministro accoglie le tesi più estreme, ormai abbandonate anche dalla maggioranza dell’Avvocatura associata, e individua nella centralità del ruolo del giudice la causa principale dei ritardi dei processi civili.

Questa impostazione, oltre a essere contraddetta dai fatti, rischia di far perdere di vista le cause reali dell’intasamento del sistema della giustizia civile rendendo, di conseguenza, arduo predisporre rimedi efficaci. Non è certo “delegando alle parti l’attività istruttoria” che si porrà rimedio alla serializzazione o moltiplicazione delle controversie, alle resistenze in giudizio giustificate solo dall’aspettativa del ritardo nell’esecuzione, alle impugnazioni pretestuose, al pessimo funzionamento dei meccanismi già esistenti di risoluzione anticipata delle controversie (si pensi alla sostanziale vanificazione della conciliazione obbligatoria nelle controversie di lavoro, per l’inadeguatezza delle strutture a ciò deputate).

Le esperienze dei Paesi che hanno in passato adottato un modello in cui è enfatizzato il ruolo delle parti, ci dicono ora che questo sistema ha portato non già ad un’accelerazione dei tempi, ma esattamente al contrario: ritardi irragionevoli, accompagnati da spese sproporzionate, eccessive e non prevedibili, unitamente a una degenerazione del costume giudiziario, fino a vedere il processo come “un campo di battaglia senza regole” (Access to Justice, Interim Report, Lord Chancellor’s Department).

Si osservi, infine, che attribuire alle parti la scelta insindacabile dei tempi del processo non ci mette al riparo da sanzioni internazionali per l’eccessiva durata delle cause, giacche la giurisprudenza di Strasburgo ha più volte sottolineato che lo Stato deve comunque prevedere strumenti idonei a contrastare l’inerzia o l’attività dilatoria delle parti private.

È certamente possibile, senza stravolgimenti di fondo, valorizzare l’attività compiuta dalle parti fuori e prima del processo. Vi è quindi un terreno di confronto possibile, per il quale occorrerà però attendere proposte concrete, sulle quali misurarsi senza pregiudizi, ivi compreso quello di una generalizzata sfiducia per le regole e per chi è deputato a farle rispettare. Il rispetto delle regole è in realtà il punto principale anche del funzionamento del processo penale. La ragionevole durata del processo non potrà mai essere ottenuta se non si accetterà questa elementare premessa. Ciò implica ad esempio che gli istituti di garanzia non possono essere piegati a strumenti di dilazione.

È impensabile, quindi, che non si ponga mano rapidamente a tutti gli aspetti (processuali e sostanziali) che consentono invece questa strumentalizzazione delle garanzie e che già l’ANM sottolineò nella Conferenza nazionale del febbraio 2000, intitolata appunto alla ragionevole durata del processo: dal legittimo impedimento del difensore e dell’imputato, fino ad aspetti più radicali, concernenti la coerenza sistematica di alcuni istituti. Penso, ad esempio, all’appello cartolare e senza limitazioni effettive dopo un costoso processo orale di primo grado, o all’irragionevolezza del deposito degli atti al termine delle indagini preliminari (che comporta mesi di stasi del procedimento, anche con detenuti) quando vi è un’udienza preliminare che ormai consente le più ampie integrazioni probatorie e la più estesa regola di giudizio in favore dell’imputato.

È poi indilazionabile affrontare con coraggio il tema della difesa d’ufficio. Si è qui creato un vero paradosso: l’intero sistema della difesa d’ufficio è ormai rimesso ai Consigli dell’ordine. Eppure il costo finale è addebitato o all’imputato o alla collettività, senza alcuno strumento di controllo sulla trasparenza e correttezza della nomina del difensore, delle spese da questi sostenute, dell’idoneità a svolgere il mandato.

Solo una parte di questi problemi è affrontata dal ministro, il quale sembra vedere anche in questo campo nel ruolo del magistrato il principale ostacolo alla celerità dei processi, tanto da prevedere la “fissazione di termini certi e tassativi per gli atti egli adempimenti processuali”. Davvero non si comprende cosa questo significhi, aldilà di quanto già oggi previsto.

Questo approccio sembra sotteso anche al delicato capitolo dei rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria. Su questo molto vi sarebbe da dire, ad esempio a partire dall’uso strumentale che si è fatto in passato di supposti (e inesistenti) divieti di investigazione per la PG, per scaricare il peso dei procedimenti cosiddetti bagatellari sul PM.

Anche su questo si può dunque discutere seriamente. Partendo però dalla consapevolezza dell’importanza fondamentale nel processo accusatorio, nello specifico contesto italiano, del controllo da parte del PM delle investigazioni, non solo per finalità di garanzia (che mai andrebbero dimenticate) ma soprattutto per finalizzare correttamente le indagini al buon esito del dibattimento.

D’altra parte, non si può contemporaneamente sottolineare l’importanza della specializzazione del ruolo del PM e poi ridurlo radicalmente. Va apprezzato l’approccio del ministro al tema, assai delicato, della separazione delle carriere o delle funzioni, tra giudici e PM. Anche in questo campo, tuttavia, occorre confrontarsi sulle proposte concrete, per verificare che non si tratti di una separazione di fatto, alla quale non si potrebbe che ribadire la più netta contrarietà.

Alcune asperità dell’abbozzo di proposta potrebbero stemperarsi nel confronto. Ad esempio, più che una rigida incompatibilità su base distrettuale, potrebbero prevedersi incompatibilità connesse con le effettive funzioni svolte, rendendole più o meno ampie a seconda dell’effettiva lesione della terzietà del giudice. Sul Consiglio superiore della magistratura il discorso non è diverso. È molto importante la conferma dell’attuale proporzione tra magistrati ed eletti dal Parlamento. li sistema elettorale è invece tema sul quale non potrà non discutersi in concreto, giacche piccole modifiche possono determinare grandi mutamenti. È però importante che si parta dalla comune convinzione che non si voglia ripristinare un sistema di notabilato, finalizzato a mortificare il pluralismo nella magistratura. I danni di un’impostazione di questo genere sarebbero gravissimi, non già per la magistratura ma per il Paese. Avverto invece con preoccupazione nel discorso del ministro una pregiudiziale avversione per il pluralismo, il quale non può vivere senza la sua naturale espressione: l’organizzazione dei magistrati secondo le diverse concezioni di ciascuno sulla giurisdizione, sul ruolo del magistrato, sull’organizzazione degli uffici, in definitiva sulle diverse concezioni politiche, in senso alto, della giustizia.

E su cos’altro dovrebbero confrontarsi tra loro i magistrati nell’elezione dei loro rappresentanti? Questa sottovalutazione del pluralismo e delle sue manifestazioni organizzative (le “correnti”) mi sembra però avere radici ancora più profonde, laddove - nel rivendicare giustamente la necessità che ciascuno rispetti il ruolo assegnatogli dalla Costituzione - si polemizza con l’invasione di campo da parte della magistratura.

Questo richiamo non può mai essere disgiunto dalla sottolineatura del ruolo fondamentale che la magistratura ha avuto negli anni passati nel perseguire non già fenomeni, ma migliaia di fatti di corruzione e di reati strumentali (a partire dal falso in bilancio), e soprattutto del ruolo sempre crescente che necessariamente la giurisdizione rivendica a fronte della crescita della consapevolezza da parte di ciascun cittadino dei propri diritti e della possibilità di vederseli riconosciuti, da parte di un giudice autonomo e indipendente.

 

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