"Non solo carcere"

   

"Non solo carcere"

di Renato Frisanco, della Fi.Vol

 

Qual è la portata qualitativa del volontariato della giustizia?

La ricerca sulle organizzazioni di volontariato impegnate nel settore della Giustizia, realizzata per iniziativa della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, ha conseguito i suoi due scopi principali:

quello di identificare l’universo delle forze solidaristiche che attuano interventi specifici nei confronti della popolazione soggetta a provvedimenti penali.

quello di analizzare il fenomeno, attraverso un disegno di indagine a due livelli:

  1. uno, più descrittivo e analitico, attraverso una rilevazione nazionale con un questionario strutturato e compilato da 191 organizzazioni;

  2. l’altro, più Qualitativo e valutativo, attraverso la metodica degli studi di caso con cui si sono esaminate dieci esperienze significative per un percorso condotto ed emblematiche per le "buone pratiche" nel settore della Giustizia.

La ricerca dimostra anzitutto che una parte significativa di società civile è presente nel campo della giustizia, non più con singoli volontari dispersi nelle strutture, ma con le attrezzate organizzazioni di militanti - il cui impegno è richiesto ormai dalle stesse strutture penitenziarie - e fornisce un contributo significativo al processo riformatore iniziato 25 anni fa e ancora in cerca di una convincente attuazione.

Si tratta di un fenomeno cospicuo per quantità - dalle 350 organizzazioni di volontariato in campo (una parte allo scopo di ospitare detenuti in semilibertà o in affidamento), alle risorse che mobilita: umane (8.500 unità) ed economiche (svariate decine di miliardi), alle persone penalmente sanzionate che sostiene, accompagna e inserisce nel contesto sociale da cui provengono con progetti personalizzati (oltre 13 mila).

Ma è un fenomeno soprattutto rilevante per la qualità dell’intervento: per quello che realizza, per l’innovazione che apporta e per i valori che afferma.

È un volontariato che ha come parole d’ordine "progetto" - termine passato anche nel nuovo Regolamento penitenziario - "responsabilizzazione" degli utenti, inserimento sociale e lavorativo, sensibilizzazione dell’opinione pubblica.

È un soggetto, il volontariato o l’associazionismo solidaristico, che dimostra:

di saper lavorare in carcere ma anche "fuori";

di intervenire sul singolo soggetto ma anche sul contesto in cui è inserito: la famiglia, le istituzioni penitenziarie e la comunità dei cittadini;

di rispondere al bisogno immediato ma senza perdere di vista la globalità dei problemi e il destino sociale delle persone;

di intervenire con specifiche prestazioni ma anche sui percorsi e i processi;

di operare come singola associazione ma al tempo stesso di saper fare rete con altre;

di mettere in campo l’impegno dei propri attivisti ma senza rinunciare a promuovere risorse di valore aggiunto (professionisti, formatori, consulenti che operano gratuitamente o con spirito di volontariato).

Siamo di fronte ad un fenomeno che rivela al suo interno, sostanzialmente tre modelli, tre modi di "essere" e di "operare" del volontariato nelle/con le strutture penitenziarie, che differenziano molto le realtà esaminate:

  1. il volontariato delle piccole dimensione e dalle "mani nude" che opera da molto tempo nelle strutture detentive in sinergia con i cappellani del carcere, che si prefigge di portare conforto e umanizzazione con pochi volontari molto motivati a pochi detenuti, senza scalfire minimamente l’organizzazione carceraria, ne creare una effettiva collaborazione sul piano operativo con gli operatori penitenziari. È il volontariato del!a testimonianza (e della fede) che produce effetti positivi attraverso un sostegno morale, psicologico e di piccola assistenza materiale ai detenuti, permettendo loro di reagire alla reclusione con una interiorizzazione positiva di valori di senso e aspettative utili per il ritorno in società. Il rischio di questi gruppi è quello di isolarsi nella propria nicchia operativa risentendo del clima di chiusura e rigidità del sistema complessivo;

  2. il volontariato dei progetti finalizzati ,n carcere. Esso programma interventi che impattano sull’ambiente carcere, o su una parte o componente di persone in stato di detenzione e che richiedono negoziazione e una legittimazione delle strutture penitenziarie oltre che una dinamica costante con gli operatori della giustizia, anche attraverso riunioni periodiche. Si tratta per lo più di specifici interventi di formazione dei detenuti, come possono essere il recupero scolastico o l’alfabetizzazione dei meno secolarizzati, l’allestimento e gestione di una biblioteca, le prestazioni strutturate di informazione e consulenza per l’orientamento al lavoro, la realizzazione di appositi corsi per l’acquisizione di abilità manuali o di competenze teoriche pre-professionalizzanti per piccoli gruppi di detenuti, l’organizzazione di attività sportive, culturali e teatrali, anche in forma di intrattenimento oltre che di animazione dei detenuti. Il rischio che queste unità incorrono è quello di supplire in permanenza alle carenze delle istituzioni penitenziarie vivendo in una situazione di sperimentazione continuata senza che si strutturino interventi a regime realizzati dalle istituzioni stesse;

  3. il volontariato che ha una visione "olistica", cioè globale e interconnessa, del problema e delle sue soluzioni. che opera in più ambiti e territori, capace di fare ponte con la società, che si occupa di detenuti ma non trascura la post-detenzione, che ha rapporti con la direzione del carcere ma anche con il Centro di Servizio sociale per le persone affidategli in misura alternativa o sostitutiva alla detenzione. E che non trascura il proprio intervento sulla popolazione con apposite e rituali manifestazioni ed eventi di sensibilizzazione sui temi e problemi della carcerazione e del reinserimento sociale dei detenuti. È questo un volontariato che opera in convenzione con le istituzioni pubbliche ed è maggiormente collegato con le forze vive del territorio e con gli stessi imprenditori per facilitare occasioni di inserimento lavorativo dei detenuti. Sa mobilitare più risorse, è dotato di un organico misto, dove accanto ad un nutrito gruppo di volontari attivi vi sono obiettori di coscienza, soci o sostenitori e personale specializzato e remunerato così come familiari ed ex-detenuti, come ulteriore e preziosa risorsa per motivazione e conoscenza dei problemi su cui l’organizzazione si cimenta. È questo tipo di volontariato che rappresenta la versione più sviluppata di un intervento solidaristico nel settore della giustizia, per che è in grado di unire il carcere al territorio, di sperimentare nuove soluzioni in quest’ultimo ambito, di fare cultura di accoglienza e di accompagnare gli ex-detenuti verso il pieno inserimento. Con garanzia di continuità e di qualità.

È un fenomeno, quello esaminato, attraversato dalla generale consapevolezza che non basta più lavorare In carcere, anche se non lo si può nemmeno abbandonare, che occorre spostarsi sul territorio ma pensa di poterlo fare meglio partendo dal carcere. Il volontariato sta portando il proprio contributo all’analisi critica della "centralità del carcere" che non è più un oggetto intangibile e di per se efficace e per tutti giusto.

Ma anche per il volontariato è difficile fare a meno del carcere perché è nato lì, ha trovato lì la sua prima legittimazione così come, nella nicchia del carcere ha verificato la propria marginalità e la difficoltà a dialogare su questo tema con il resto della società civile sentendosi esso stesso ai margini del sistema.

Le esperienze esaminate nell’indagine qualitativa (gli "studi di caso") dimostrano palesemente che le mIsure alternative sono praticabIli e potrebbero essere maggiormente applicate. La maggioranza piuttosto netta di organizzazioni esaminate - il 65.4% - si occupa di persone che usufruiscono di misure alternative alla detenzione. Il volontariato porta oggi un contributo fondamentale nel settore proprio interpretando in positivo la domanda di sicurezza delle comunità di appartenenza, vale a dire dimostrando che le migliori garanzie alla società si danno non escludendo la persona sanzionata ma aiutandola a diventare un "cittadino".

Tuttavia nonostante che le misure alternative vengano applicate in numero crescente negli ultimi anni, non sono ancora in grado di scalfire nella misura auspicabile la pena detentiva e quindi di mettere in discussione il carcere che vede addirittura aumentare la propria popolazione.

Perché questo avvenga occorre riconvertire la spesa, riducendo quella destinata agli istituti penitenziari in modo programmato con l’aumento di quella impegnata nell’attuazione delle misure in libertà.

Così come appare necessario ridurre la discrezionalità complessiva nel sistema che coinvolge tutti i decisori delle politiche penitenziarie e che fa delle nostre carceri realtà molto diverse, ma non in quanto rappresentano circuiti differenziati e luoghi dove si realizzano progetti mirati di trattamento.

Pure il volontariato risente di questa discrezionalità, non essendo riconosciuto e valorizzato dovunque e allo stesso modo, anche all’interno di uno stesso istituto penitenziario. Esso opera bene laddove trova istituti penitenziari e Centri di servizio sociale sensibili e interessati all’innovazione e al contributo complementare, nel rispetto dei reciproci ruoli. Ma trova semaforo verde solo nelle aree sperimentali o nei settori a custodia attenuata o nei piccoli istituti penitenziari.

 

Cosa fanno in concreto le organizzazioni di volontariato impegnate nel settore?

Cominciamo dal lavoro sul territorio: operare di più nel territorio vuoi dire anche realizzare più interventi e sostenere le due grandi sfide di oggi facilitare l’applicazione delle misure alternative e sostitutive al carcere (funzione di "territorializzazione" del carcere") e favorire e accompagnare l’inserimento lavorativo delle persone penalmente sanzionate, che è anche la vera centralità rispetto al dettato costituzionale (art. 27) della finalità di riabilitazione sociale della pena (su questo obiettivo sono diversamente impegnate 48 unità su 100). Così la nuova frontiera dell’integrazione pubblico - volontariato si gioca proprio sul tema dell’inserimento nel mondo del lavoro rispetto a cui il volontariato tenta di aprire una pista, di sperimentare forme e modalità compatibili con il sistema sanzionatorio, di sollecitare progetti e interventi, pur sapendo che il suo impegno non è sufficiente; serve anche il pubblico, nelle sue articolazioni istituzionali, l’impresa sociale, l’impresa profit, la società civile intera.

Duplice appare al riguardo dell’inserimento lavorativo la direzione di impegno del volontariato: la promozione di cooperative di produzione e lavoro, soprattutto per il primo avvio al lavoro, e la mobilitazione del tessuto produttivo nelle loro comunità di insediamento, ottenendo anche risultati importanti presso artigiani e imprenditori, come nei casi studiati di Livorno, di Biella e di Genova (per i minori "messi alla prova"). È un inserimento lavorativo spesso affiancato da programmi formativi, da un servizio di orientamento e di sostegno al lavoro ormai sperimentato in diverse realtà e assunto come obiettivo anche dai progetti realizzati con fondi europei (come " Andrea" nella realtà di Rebibbia, "Arcipelagus" a Livorno, entrambi della componente solidaristica dell’ARCI) che hanno permesso di fare uscire dal carcere i primi gruppi di persone.

Si tratta di progetti che, in mancanza di una loro generalizzazione diffusa, dove vengono realizzati suscitano legittime aspettative da parte dei detenuti con il rischio di attribuire alle stesse organizzazioni di volontariato un’importanza superiore a quella reale e frustrando altresì le attese non corrisposte.

Il volontariato è altresì l’unica realtà che si fa carico delle famiglie dei reclusi (ed ex) con interventi progettuali, di sostegno, cura dei figli, ripristino di rapporti intrafamiliari, e che persegue il coinvolgimento degli stessi familiari nella vita associativa dove praticano l’auto-aiuto e possono diventare risorsa solidaristica importante.

Il volontariato è da sempre una risorsa irrinunciabile per una serie di attività in carcere: da quelle di tipo assistenziale (la povertà segue i detenuti in carcere) e di sostegno morale - psicologico (la solitudine è un’afflizione aggiunta) - dove spiccano gli operatori dei gruppi ispirati dalla Caritas - all’intervento culturale (pressoché dovunque la possibilità di lettura in carcere dipende dal lavoro dei volontari per allestire e dotare le biblioteche interne) e ricreativo - sportivo (l’UISP al riguardo si avvale dal ‘93 di un’apposita convenzione con il Ministero di Grazia e Giustizia).

Ed è linfa vitale per il carcere, nella misura in cui rompe tabù come, ad esempio, l’impossibilità di superare la routine con una progettualità specifica, e per la testimonianza contaminante rispetto ai valori della dignità della persona, della relazionalità; ma anche per la convinzione che ci possa essere per ogni persona detenuta un percorso di riabilitazione sociale a partire da un progetto di vita responsabilmente assunto.

Per molti detenuti poi, entrare in contatto con il volontariato costituisce la migliore garanzia di un recupero di diritti mai acquisiti, per che la popolazione che vi affluisce è sicuramente tra le più svantaggiate socialmente, culturalmente ed economicamente, come il grande numero di tossicodipendenti e di immigrati extracomunitari attesta (ormai oltre la metà dei detenuti), mentre il tasso dei reclusi "senza lavoro" (disoccupati o inoccupati) è tre volte più elevato di quello nazionale, e 4 su 10 non hanno raggiunto il livello di scolarizzazione dell’obbligo.

Nella crescita e differenziazione delle attività, servizi, progetti del volontariato vi è anche una certa attenzione a fare prevenzione sui soggetti a rischio (sui territori a rischio), sui minori che sono alla deriva nei quartieri più problematici delle aree urbane, nella consapevolezza, esplicitata da un’organizzazione foggiana, che aiutare il giovane significhi "non trovarlo domani detenuto".

Infine, le esperienze più mature non rinunciano ad un’azione di sensibilizzazione della comunità al problema, a partire dalle scuole, con un rapporto costante con i mass - media locali, con conferenze e seminari, allo scopo di lavorare sui pregiudizi e le rappresentazioni sociali, sul senso di insicurezza e di paura della popolazione. E tale lavoro si sta estendendo, sia pure in modo non ancora sistematico, ai servizi di riconciliazione tra vittima e autore di reati, di prevenzione dei conflitti sociali tra individui e gruppi dello stesso quartiere e con il coinvolgimento della cittadinanza in iniziative di solidarietà su persone e su casi concreti.

Le organizzazioni di volontariato sono diffusamente consapevoli della necessità di una loro maggiore proiezione sul territorio e per questo auspicano maggiori risorse economiche e umane e si appellano agli enti locali per disporre di spazi di ospitalità; in non pochi casi stanno attrezzandosi sul piano della struttura organizzativa e delle competenze. Talvolta di lacerandosi alloro interno per l’emergere ora dell’anima associativa, quella dei valori e della testimonianza ovvero dell’"essere" della organizzazione, ora dell’anima efficientista, quest’ultima protesa al "fare" e talvolta più orientata al modello dell’impresa sociale che alla gratuità pura.

Il volontariato della giustizia dimostra di essere sulla buona strada anche nel fare propri strumenti elettivi di crescita e partecipazione non ancora sufficientemente affermati nel mondo della solidarietà organizzata: il collegamento in coordinamenti, consulte con le altre organizzazioni, il raccordo con realtà di terzo settore e il mix di forze spesso creato da queste organizzazioni in grado di attivare insieme sui progetti quote di associazionismo, di volontariato e di cooperazione sociale, e ancora, l’importanza accordata al lavorare per progetti, alla formazione e il rapporto intenso con le istituzioni pubbliche, in primis il Comune, i servizi sociali e sanitari e le istituzioni penitenziarie. Si tratta di rapporti che tendono a consolidarsi, per ora prevale la collaborazione rispetto alla convenzione: gli accordi formali coinvolgono circa un terzo delle organizzazioni. Altre caratteristiche lo differenziano dal complesso del fenomeno solidaristico nazionale è l’essere meno legato alle grandi sigle di appartenenza e più locale, più espressione della comunità nonché la sua preminente componente di ispirazione cattolica che lo anima fin dalle origini per quanto sia in atto una tendenza a secolarizzarsi.

 

Qual è lo stato dei rapporti con le istituzioni penitenziarie?

L’indagine fa emergere come il volontariato che opera in carcere sia quasi dovunque accettato e apprezzato per che considerato una risorsa importante. Con le realtà della giustizia quello che oggi sembra contare di più sono i risultati in termini di relazione più che di realizzazione comune (in attesa di trovare intese e progetti condivisi per una maggiore estensione ed efficacia delle attività).

Se il volontariato è presente e attivo nelle strutture della giustizia non è però ancora per lo più considerato o trattato alla pari dagli operatori pubblici. Se di fatto la "pari dignità" è dichiarata da un insieme di norme non è diventata ancora prassi, non si è tradotta in concertazione di programmi e progetti, in operatività concreta, in comune impegno nella formazione. Non sembra ancora esservi da parte di tutte le istituzioni

penitenziarie la volontà di inserire il lavoro del volontariato dentro un "progetto carcere" o un "progetto giustizia" - laddove vi è la volontà o la cultura a realizzarlo - e quindi a considerare tale lavoro in termini strategici in vista di un miglioramento complessivo dell’offerta nel penale.

Talvolta anche per i limiti del volontariato, quando si pone come soggetto salvifico, non sufficientemente coordinato, battitore libero, come quando propone e progetta dall’esterno del carcere senza prima sensibilizzare le direzioni, coinvolgere gli operatori, discutere con loro finalità, procedure e risultati attesi.

Ma anche per i limiti delle istituzioni penitenziarie che sono invece quelli tradizionali, non ancora del tutto superati, quali: l’autoreferenzialità; la chiusura autarchica, talvolta la paura del nuovo e dell’innovazione che chi entra può portare all’interno delle strutture o delle équipes, con la percezione di un aggravio di compiti da parte degli operatori tecnici (troppo pochi gli psicologi, gli educatori) e, soprattutto di quelli di sorveglianza (quasi in rapporto di 1 a 1 con i detenuti, un primato, in un’analisi comparata delle varie situazioni europee). I tecnici sono i principali interlocutori dei volontari, il cui contributo crescerebbe presumibilmente di quantità e qualità se fossero in maggior numero. Gli agenti di polizia penitenziaria sono invece spesso, e non a caso, destinatari di interventi da parte delle organizzazioni di volontariato come se costituissero una seconda utenza.

In definitiva, cominciano ad essere numerose e significative le collaborazioni positive tra gruppi e associazioni di volontariato ed istituzioni penitenziarie, tuttavia non sono ancora condotte in modo permanente ed organizzato. Vale adire che non vi è ancora, in generale, una disponibilità da parte dei soggetti pubblici e del volontariato a lavorare per progetti in stretta integrazione tra loro. Ed è questa la sfida che aspetta fin da oggi gli attori interessati e che la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia si pone come primo obiettivo.

 

 

 

Precedente Home Su Successiva