"Percorsi di confronto tra operatori dell’amministrazione e del privato sociale" promosso dalla Regione Emilia Romagna

Interviste agli operatori, a cura di Marino Occhipinti

In relazione alle domande - al fine di far emergere la complessità dei punti di vista dei diversi attori che promuovono e sono parte attiva del progetto "Percorsi di confronto tra operatori dell’amministrazione penitenziaria e del privato sociale: agenti di polizia penitenziaria, educatori e volontari", promosso dalla Regione Emilia Romagna (Assessorato alle politiche sociali) e gestito dal CSV di Modena, in collaborazione con Centri servizi per il volontariato, OOVV/giustizia della Regione Emilia Romagna, Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria- si è scelto di rispondere con un coro composto da più voci. In particolare, sono presenti i contributi di Lucia Berardi (referente della Regione), Anna Cilento (referente del Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria) Paola Cigarini (referente del volontariato, referente per il Progetto delle OOVV giustizia della Regione), Emma Melloni e Donatella Piccioni (formatrici, Studio Egla di Forlì).

La cornice progettuale entro la quale reinserire le diverse voci è rappresentata da alcuni punti fermi:

Il progetto prevedeva come attività principali: 1 ricerca e 3 corsi di formazione congiunta fra operatori ed educatori penitenziari, volontari

Il progetto ha come punto di forza il coinvolgimento di più attori (Organizzazioni di volontariato, Regione; PRAP; Sindacato, Centri di servizio per il volontariato), che hanno avuto un ruolo attivo sin dalle prime fasi di ridefinizione dell’idea progettuale messa a punto dalla Regione.

La presenza dei diversi attori costituisce una premessa a nostro avviso fondamentale per portare avanti i processi attivati dal progetto

La struttura di governo del progetto è articolata in diversi gruppi di lavoro misti con funzioni diverse, che vanno in particolare vanno dal monitoraggio e verifica delle attività svolte, alla definizione dei contenuti alla realizzazione delle attività. I gruppi operativi sono stati attivati anche sui territori interprovinciali.

Il Centro di Servizi di Modena, in virtù della specializzazione regionale sulla formazione, è l’ente che ha il compito di gestire l’intero progetto.

Per eventuali informazioni: Cinzia Migani, Coordinatrice del progetto per l’ente gestore, Centro per il servizio del volontariato di Modena; cinzia.migani@volontariamo.it).

Il contributo di Lucia Berardi (referente Regione Emilia Romagna)

Come prima cosa vorrei ringraziarvi per darmi la possibilità di rivolgermi direttamente a un pubblico di detenuti. Io sono Lucia Berardi, sono funzionaria della Regione Emilia-Romagna e in tale veste mi occupo da otto anni di tematiche penitenziarie.

Queste mie risposte alla Vostra intervista sono state supervisionate e approvate dall’Assessore Regionale alle Politiche Sociali.

Quando è nato e come si è sviluppato il progetto "Percorsi di confronto tra operatori dell’amministrazione e del privato sociale: agenti di Polizia Penitenziaria, educatori e volontari"?.

Il progetto "Percorsi di confronto tra operatori dell’amministrazione e del privato sociale: agenti di Polizia Penitenziaria, educatori e volontari" nasce più o meno ai tempi in cui nella Regione Emilia Romagna si ragionava per ridefinire il Protocollo d’Intesa che regola i rapporti fra Regione ed Enti Locali e Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, istituendo luoghi e modalità di progettazione concertata per gli interventi e le attività che gli enti locali pongono in essere a favore dei detenuti e negli istituti penitenziari della Regione.

Il "Protocollo d’Intesa fra Ministero della Giustizia e Regione Emilia-Romagna per il coordinamento degli interventi rivolti ai minori imputati di reato e agli adulti sottoposti a misure penali restrittive della libertà" viene siglato il 5 marzo del 1998.

Esso individua, fra gli elementi su cui lavorare, la creazione delle migliori condizioni perché la rete di persone che, a vario titolo e da varia provenienza istituzionale e non, operano in e per i carceri, possa collaborare in modo proficuo.

Fra queste condizioni viene evidenziata la necessità di dotare di elementi culturali comuni gli operatori di varia provenienza, e un apposito capitolo evidenzia questa necessità e si propone la creazione di momenti formativi comuni.

Per elementi culturali comuni si intende qualcosa di più ampio che la semplice trasmissione di informazioni, si intende la reciproca "contaminazione", la condivisione, per quanto possibile, di modi di lavorare e di pensare il proprio lavoro. Questo viene ritenuto importante per consolidare la rete interistituzionale e sociale che lavora sulle tematiche carcerarie.

Tutti i seminari formativi comuni che la Regione ha messo a punto per questa rete di operatori ha pertanto contemplato elementi che coltivassero la relazione e la comunicazione interpersonale all’interno dell’istituzione. Questo è stato ritenuto utile ad esempio per la formazione degli operatori nell’ambito della mediazione culturale e dei progetti regionali in materia: e cioè della rete di sportelli informativi che i comuni hanno aperto per i detenuti immigrati in tutti i carceri della Regione. Inoltre prima di mettere a punto il progetto è stata fatta, tramite questionari, un’inchiesta presso i volontari dalla quale è emerso che molti avevano già avuto formazione sugli aspetti giuridici e istituzionali dell’organizzazione penitenziaria.

Quali motivazioni vi hanno spinto ad impegnarvi in questo lungo lavoro e quali sono stati gli enti ed i soggetti coinvolti?

La Regione e gli Enti Locali emiliano romagnoli sono tradizionalmente molto coinvolti dai problemi che riguardano l’esclusione sociale in tutte le sue forme, e nello studio e messa a punto di tutte le iniziative utili a creare le condizioni per l’inclusione. Quindi non è stato necessario "cercare" gli enti da coinvolgere, poiché l’iniziativa è partita dall’Ente Regione. Grazie ai consolidati rapporti che la Regione e gli Enti Locali hanno con il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria, è stata trovata fattiva collaborazione da parte del Provveditorato.

Le istituzioni della Regione hanno inoltre in grande considerazione l’intervento e il supporto che la società civile, in questo caso nella figura dei volontari, fornisce alle istituzioni ed ai servizi da queste prodotti. Fra i soggetti che lavorano all’interno dei carceri i volontari sono la figura che, per assenza di carattere istituzionale e per l’assenza di chiare, scritte, concrete e condivise norme che regolino e tutelino il loro operare, è più "fragile". Questo vale nonostante esistano ottimi documenti ministeriali che trattano l’argomento, nonostante sia stato già da tempo siglato un Protocollo d’Intesa fra Ministero della Giustizia e Volontariato Giustizia, e nonostante in Regione si stia da tempo lavorando per arrivare alla firma di un Protocollo analogo di carattere regionale.

Oltre ad essere l’elemento più "fragile", il volontariato penitenziario ha per propria natura una cultura, intesa nell’ampio senso di modo di operare e di pensare il proprio operato, ancor più distante dall’insieme degli operatori degli enti locali e dell’amministrazione penitenziaria, come verrà ampiamente illustrato dalle risposte a questa intervista curate dalle formatrici. Questo ci ha suggerito l’importanza ancora maggiore della condivisione "culturale" e dell’arricchimento di strumenti comunicativi.

Pertanto nel 2000 viene messo a punto questo progetto. Dato il carattere innovativo del progetto, che è il primo progetto di questo tipo fatto in Italia, esso viene illustrato per un parere, prima della sua partenza, alla Commissione per i Rapporti con le Regioni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. La Commissione approva l’iniziativa e fa una traccia per un’analoga iniziativa di carattere nazionale, che però ancora non ha visto, a quanto ci consta, la luce.

Il progetto si concretizza poi nel 2001 attraverso la delibera di Giunta regionale n. 1509/01 con la quale si affida al Centro Servizi per il volontariato di Modena la gestione del progetto e i lavori preparatori, e nel 2002 con il primo modulo formativo. Oggi stiamo concludendo il terzo ed ultimo modulo.

Nel Progetto sono coinvolti il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, senza il quale non sarebbe stato possibile, i Centri Servizi per il Volontariato delle 9 province della Regione, che hanno svolto i compiti di pubblicizzazione e organizzativi, tutte le Associazioni di Volontariato Giustizia che operano sul territorio regionale, i volontari stessi, che sono stati inizialmente coinvolti nella compilazione di un questionario preliminare atto a saggiarne le principali esigenze, infine lo Studio Egla con compiti tecnici.

A volte nei rapporti tra istituzione carcere e volontariato sembra esserci più contrapposizione che collaborazione: quali accorgimenti potrebbero portare ad unire gli sforzi, affinché si miri a quegli obbiettivi comuni che in definitiva sono il reinserimento e la risocializzazione dei detenuti?

Sui rapporti fra carcere e volontari la mia esperienza mi ha portato a notare spesso un atteggiamento ambivalente da parte del carcere: da un lato il volontario è utile perché porta i maglioni, dall’altro è vissuto come un’indebita ingerenza in un mondo che viene percepito più "sicuro" quando è impermeabile.

Inoltre spesso la presenza della società in carcere porta atti lavorativi in più: apri la cella, chiama il detenuto per il colloquio col volontario, chiudi la cella, riaprila, richiama, accompagna, riaccompagna… queste sono mansioni che il personale, avendo una percezione del proprio lavoro estremamente pesante, vive come una fatica in più. A mio parere il lavoro di agente è estremamente pesante, ma non dal punto di vista del movimento che implica, quanto dal punto di vista delle relazioni: è sicuramente molto stressante vivere ogni giorno in mezzo a gente che ti vede come "il carceriere", e d’altronde quello è il tuo ruolo immediato, anche se non è l’agente che chiude in carcere, che emette la sentenza. Quello che serve, lo ripeto, è lavorare su questi sentimenti, prenderli in considerazione, produrre negli agenti una migliore capacità di relazionarsi. Credo che questo, e non il training sull’uso delle armi, li farebbe sentire più "sicuri", anche della propria incolumità, poiché è di questo che si tratta, anche. Il mio parere è che il lavoro degli agenti è un lavoro che ha molto a che fare con la relazione, ma questo viene considerato troppo poco nei loro corsi di formazione. Quindi credo che queste modalità di formazione possano essere molto utili.

Un progetto ambizioso come il vostro comporta certamente un notevole impegno in termini di risorse umane ed economiche: siete riusciti ad ottenere il contributo di enti istituzionali?

Per quanto riguarda le risorse economiche, abbiamo investito in questi moduli formativi 74.886,25 euro attraverso i fondi della legge regionale sul volontariato, che hanno coperto tutte le spese, dall’onorario alle formatrici ai rimborsi dei viaggi e dei pasti ai volontari partecipanti. Il progetto è stato coordinato dal punto di vista amministrativo e organizzativo dal Centro di Servizi per il Volontariato di Modena.

Per quanto riguarda le risorse umane, un funzionario regionale ha lavorato al progetto nelle varie fasi, hanno lavorato funzionari dei centri di servizi per il volontariato, funzionari dell’amministrazione penitenziaria, ma nessuno in modo esclusivo. Hanno lavorato le formatrici, e naturalmente le persone coinvolte. Concretamente sono stati realizzati: una ricerca volta a tarare i contenuti, 6 incontri di presentazione dell’iniziativa ai volontari in diverse province della Regione, 3 corsi (l’ultimo è in corso) interprovinciali aperti di volta in volta a 10 volontari e 12 operatori (agenti ed educatori) dell’Amministrazione Penitenziaria e due seminari di restituzioni dei corsi aperti ai presidenti delle OOVV, direttori, comandanti dei carceri, nonché presidenti dei CSV dei territori coinvolti. Si prevede, infine, di realizzare il seminario di chiusura del terzo corso a dicembre e un momento pubblico per presentare le azioni messe a punto con il progetto.

Il Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, i comandanti e i direttori degli istituti penitenziari sono stati coinvolti nei momenti più allargati del percorso.

A fronte delle risorse spese, un dato negativo è stata la scarsa presenza del personale penitenziario, per i quali si è previsto un numero troppo basso e se ne è avuto un numero ancora più basso come presenza effettiva, a causa delle carenze di personale dell’Amministrazione Penitenziaria, che per questo dedica alle attività formative del personale un tempo scarso. A causa di ciò abbiamo assistito persino al paradosso che il carcere della Regione dal quale con maggior urgenza emergono problemi relazionali, non ha potuto inviare gli agenti agli incontri formativi per motivi di carenza di personale. (.. anche se in tempi diversi tutte le direzioni hanno inviato operatori, magari in numero inferiore a quello previsto, al corso)

Avete incontrato molte difficoltà, anche di tipo burocratico, dal momento che del carcere – e dei problemi ad esso connessi – pare interessare a pochi?

Le difficoltà burocratiche talvolta vengono superate dalla volontà politica degli amministratori, e in questo caso le difficoltà non ci sono state, come ho detto. Secondo la logica di questo Assessorato il carcere è importante non solo in quanto specchio della civiltà del Paese che lo ospita, ma anche, da un punto di vista lungimirante, perché una "buona" detenzione ha più probabilità che una "cattiva", di rilasciare delle persone più in grado di essere utili alla società. L’unica difficoltà è stata la partecipazione degli agenti, carente dal punto di vista numerico.

Qual è il suo pensiero su quelle che vengono comunemente definite "attività trattamentali"?

Questa è una domanda da mille punti, ma va al nocciolo di molti problemi e contraddizioni che si vivono in carcere. Il mio parere personale è che qualunque tipo di intervento di quelli che vengono definiti col vocabolo quanto mai antiquato e persino inesatto dal punto di vista lessicale "trattamentali" comprenda un vizio a priori poiché viene trascurato l’aspetto, imprenscindibile, della "alleanza", della cosiddetta "compliance", fra operatore e soggetto in "trattamento".

Il "trattamento" punta implicitamente ad ottenere un cambiamento in alcuni aspetti psicologici e/o comportamentali della persona. È evidente a chiunque abbia anche una superficiale infarinatura di psicologia che per ottenerlo è necessaria una compartecipazione della persona stessa, pertanto la prima cosa necessaria è la consapevolezza della persona che il "trattamento" sia utile. In assenza di questa alleanza non si ottiene risultato.

Ottenere questa alleanza è già un fattore difficilissimo e forse quasi impossibile poiché nessuno va in carcere di propria spontanea volontà e pertanto il "trattamento" viene giocoforza vissuto come imposto (e quindi risulta inefficace). A dispetto di questa oggettiva difficoltà inoltre non è frequente che gli operatori "trattamentali" si occupino di costruire questa alleanza, pur considerando che la consapevolezza della necessità personale di un cambiamento sarebbe per alcuni un "trattamento" assolutamente sufficiente.

Il "trattamento" viene affidato quindi agli elementi esterni, al lavoro, al reinserimento sociale o familiare, che sono gli unici elementi disponibili, ma permangono nei carceri elementi che generano confusione al riguardo: la presenza degli psicologi, che di per sé sarebbe utilissima, pretende di costruire un’indagine "personologica" (altra parola mostro: perché nel mondo penitenziario non entrano le innovazioni scientifiche neanche dopo decenni?), servendosi anche di personale del "trattamento" al quale nessuna formazione viene fornita al riguardo delle nuove teorie della personalità individuale (anche perché se qualcuno al Ministero della Giustizia si fosse preso la briga di verificarle avrebbe scoperto che sono molto controverse). Questa presenza psicologica in carcere è inoltre ridicola dato l’insignificante numero degli psicologi impegnati.

Quanto agli agenti esteriori del "trattamento" e quindi dell’auspicabile cambiamento, anche su questi sarebbe meglio stendere un pietoso velo se consideriamo che il lavoro penitenziario è come il famoso ago nel pagliaio.

Infine il buon mantenimento dei rapporti familiari è ostacolato dall’inadempienza dell’Amministrazione a quelle leggi che prevedono spazi per l’affettività in carcere, dai tempi e luoghi scarsi e spesso squallidi dedicati ai rapporti con le famiglie, e dai frequenti trasferimenti dovuti al sovraffollamento.

Venute a cadere pertanto le speranze su un "trattamento" che punti ad un cambiamento interiore e quelle che puntano ad un cambiamento attraverso il lavoro, il dopo carcere è un percorso che, come giustamente notate, riporta quasi sempre in carcere, mancando le premesse interne e materiali per un cambiamento delle condizioni che vi hanno portato la prima volta.

Infine occorre anche dire che non tutti hanno bisogno del "trattamento", se pensiamo ad alcuni ospiti delle galere: come si fa a dire che Sofri ad esempio ne abbia necessità? Quanti sono nelle sue condizioni?

In quale misura, con quali opere di sostegno il volontariato può farsi carico di queste problematiche?

I volontari possono certamente operare nella direzione di aiutare i detenuti a cambiare le condizioni che li hanno portati in carcere, ed essendo meno riconoscibili come l’istituzione che tiene in carcere, hanno molte più possibilità di costruire alleanze e motivazioni intrinseche al cambiamento. Essi possono anche, e lo fanno, lavorare sugli aspetti socio-lavorativi del trattamento.

Un’ultima domanda: ho notato che nel vostro progetto avete lavorato veramente ad ampio raggio, coinvolgendo direttori di istituto, comandanti ed agenti della Polizia Penitenziaria, educatori, volontari…, ma non i detenuti, i diretti interessati. Ma davvero non si potevano coinvolgere, così da avere il loro punto di vista ed il loro supporto?

Il mio personale parere sull’opportunità di coinvolgere i detenuti nel percorso è che la loro presenza sarebbe senz’altro opportuna perché il tema "relazioni e comunicazione" in carcere vede i detenuti soggetto maggioritario e obiettivamente destinatario ultimo di ogni intervento in carcere, ma impossibile in una fase in cui le culture di appartenenza dei vari tipi di operatori sono ancora troppo distanti per essere affrontate insieme anche al soggetto "detenuti". Stiamo comunque studiando la cosa per il futuro, speriamo non lontano.

Il contributo di Anna Cilento, referente Provveditorato
regionale dell’Amministrazione Penitenziaria

Sono Anna Cilento, direttore di area pedagogica dell'amministrazione penitenziaria, dal 2000 responsabile dell'ufficio del trattamento intramurale del PRAP dell’Emilia Romagna. Precedentemente ho svolto attività di educatore presso la C.C. di Bologna per 10 anni e 1 anno circa presso la Casa di Reclusione di Padova.

Nella mia attività ho sempre ritenuto fondamentale l'apporto del volontariato in ambito penitenziario, considerandolo una componente fondamentale sia per un processo di crescita del detenuto, sia nel rapporto con la società esterna, indispensabile per un percorso di reinserimento
sociale. Ho sempre pensato che, a fronte di tale importanza, il più delle volte non si è in grado, per problemi di organizzazione del lavoro e di carenza di personale, di dare adeguata risposta di integrazione e coordinamento agli operatori volontari che offrono il proprio tempo e competenze. Tutto ciò porta ovviamente ad uno spreco di energie, se non in alcuni casi, a momenti di incomprensione e conflitto. Quando la regione Emilia-Romagna ci propose di attuare il progetto lo accogliemmo con interesse e ampia disponibilità e oggi che siamo arrivati quasi alla conclusione siamo ulteriormente convinti della sua utilità.

A volte nei rapporti tra istituzione carcere e volontariato sembra esserci più contrapposizione che collaborazione: quali accorgimenti potrebbero portare ad unire gli sforzi, affinché si miri a quegli obbiettivi comuni che in definitiva sono il reinserimento e la risocializzazione dei detenuti?

Credo che una strada potrebbe essere quella di organizzare corsi di preparazione specifica per gli operatori volontari che desiderano prestare la loro opera in carcere, per conoscere meglio la complessa realtà carceraria, il mandato istituzionale di chi ci lavora, le difficoltà, l’organizzazione ecc.

È vero anche il contrario; sarebbero pertanto necessari e utili incontri in cui anche il personale che opera in carcere sia sensibilizzato all’opera del volontariato, all’importanza dell’apporto di questa attività per l’istituzione. Inoltre chi occupa posti di responsabilità, sia nel carcere che nell’organizzazione di volontariato, dovrebbe concordare un programma e farne partecipi, e quindi coinvolgerli, gli operatori che poi dovranno attuarlo.

Qual è il suo pensiero su quelle che vengono comunemente definite "attività trattamentali"?

La domanda è troppo generica. Proverò ugualmente a rispondere. Non credo sia messa in dubbio la valenza positiva delle attività trattamentali. Il problema è che non è possibile per tutti fruirne. Le opportunità lavorative in carcere sono minime oltre a trattarsi il più delle volte di lavoro non qualificato. Anche le altre attività non possono essere utilizzate da tutti contemporaneamente.

Un altro problema grosso è che quando si cerca di organizzare attività qualificate, per esempio i corsi di formazione professionale, ci si scontra con la difficoltà di trovare detenuti rispondenti ad una serie di requisiti, necessari per la partecipazione (pena definitiva, sicurezza di frequenza per un certo periodo ecc), soprattutto nelle Case Circondariali. Il problema quindi è l’attuazione delle attività: realizzarle per tutti per tutto l’arco della detenzione, o per un periodo consistente, è nella realtà attuale impossibile.

Non ci sono stati problemi particolari né resistenze all’attuazione del progetto da nessuna delle componenti, né a livello di responsabili né di operatori. A mio avviso l’unico vero punto critico è dovuto alla carenza di personale e alla conseguente impossibilità di coinvolgere un numero più cospicuo, e quindi più significativo di operatori. La difficoltà quindi è stata quella di reperire personale per la partecipazione: in alcuni Istituti, per esempio, non è stata possibile la frequenza dell’unico educatore in servizio!

Un’ultima domanda: ho notato che nel vostro progetto avete lavorato veramente ad ampio raggio, coinvolgendo direttori di istituto, comandanti ed agenti della Polizia Penitenziaria, educatori, volontari…, ma non i detenuti, i diretti interessati. Ma davvero non si potevano coinvolgere, così da avere il loro punto di vista ed il loro supporto?

È vero che i detenuti rappresentano l’utenza, ma le criticità e gli obiettivi erano già chiari. Il progetto è scaturito dalla necessità di confrontarsi, di mettere in contatto professionalità diverse con l’obiettivo di conoscersi e provare a ricondurre le proprie specifiche competenze a quegli obiettivi comuni, che sono già individuati dalle normative. Non sono convinta che i detenuti avrebbero potuto dare un apporto, almeno in questa fase del progetto.

Il contributo di Paola Cigarini (volontaria, referente per il Progetto delle Organizzazioni Volontariato-Giustizia della Regione Emilia Romagna)

A volte nei rapporti tra istituzione carcere e volontariato sembra esserci più contrapposizione che collaborazione: quali accorgimenti potrebbero portare ad unire gli sforzi, affinché si miri a quegli obbiettivi comuni che in definitiva sono il reinserimento e la risocializzazione dei detenuti?

Se all’interno di ogni istituto penitenziario sono comprese e condivise le finalità e l’intervento del volontariato, se prevale uno spirito di collaborazione nel rispetto ognuno del proprio ruolo, si riescono sempre a trovare modi e tempi che tengono conto delle esigenze di tutti.

Le difficoltà nascono se l’azione del volontariato (ma non solo) è vissuta da qualcuno come un "peso", una intromissione, un disturbo. In questo caso non bastano degli "accorgimenti" che il volontariato può e deve mettere in atto quotidianamente, servono volontà precise a tutti i livelli

Qual è il suo pensiero su quelle che vengono comunemente definite "attività trattamentali"?

Molto è stato detto e scritto su rieducazione e trattamento. Parole "magiche", parole "vuote", "pietose bugie". A me preme stare sull’oggi e il carcere oggi inquieta e interroga il volontario che incontra sempre più frequentemente una persona per la quale l’unico "trattamento" possibile è il carcere "chiuso" fino alla fine della pena (stranieri, tossicodipendenti recidivi, detenuti con il 41 bis, detenuti con problemi psichiatrici). In più, oggi, viene dalla opinione pubblica una domanda forte di penalità che chiede al carcere di controllare, governare processi sociali veri e propri e l’opinione pubblica condiziona le scelte politiche a livello nazionale e locale.

Prevale una cultura di esclusione che crede di ottenere controllo e sicurezza escludendo e non includendo i soggetti deboli; atteggiamento questo che rende sempre più difficile se non impossibile la cultura del trattamento e del reinserimento sociale. Se a questo aggiungiamo i tempi lenti della giustizia, che costringono in carcere "in attesa di definitivo" tante persone e aggiungiamo lo scarso numero di persone deputate per legge al trattamento della persona in carcere…

Raramente le attività sviluppate negli istituti sono sufficientemente incisive al recupero della persona, finalizzate al reinserimento sociale, e anche quando ciò avviene rimane comunque un altro scoglio quasi insuperabile, quello del dopo-carcere. Non a caso molti detenuti, una volta scarcerati, sono persone sole, di fatto emarginate, escluse dal contesto sociale…: cosa suggerisce affinché il dopo-carcere non sia solamente un percorso quasi obbligato che nel 70 % dei casi riporta nuovamente alla detenzione?

Il dato sulla recidiva è davvero preoccupante e segnale inequivocabile di un fallimento della risposta carcere come strumento di rieducazione e reinserimento per diverse categorie di detenuti, ma fallimento non solo dell’istituzione carcere. Un carcere e un territorio che non si incontrano, che non creano sinergie, fanno fallire il trattamento e creano recidiva. Una società chiusa al diverso, impaurita produce recidiva.

Un’economia che non crea occupazione per tutti e una politica che mette gli enti locali nella condizione di ridurre le risorse economiche destinate all’attivazione di percorsi che accompagnano, per un certo periodo, alcuni detenuti/internati nel mondo del lavoro o nella ricerca di un alloggio, crea recidiva. Un’economia mondiale diseguale che costringe le persone ad emigrare alla ricerca di una possibilità di vita decente, crea recidiva. Scusate se ho capovolto un po’ la vostra domanda, ma è bene stare con i piedi per terra. È la nostra esperienza che ci fa vedere come dietro ogni persona che torna in carcere c’è una responsabilità mancata, certo anche quella del soggetto detenuto, ma è andando all’origine di ogni recidiva che potremmo vedere diminuito quel 70% attuale.

In quale misura, con quali opere di sostegno il volontariato può farsi carico di queste problematiche?

Credo che al volontariato sia chiesto di vedere anche "oltre" il carcere. Collocare il proprio intervento in quel contesto di cui parlavo prima significa avere anche un ruolo nella società di stimolo e sollecitazione verso le istituzioni perché tengano fede al loro ruolo. Significa avere - senza assumere delega impropria - una disponibilità a collaborare con umiltà e servizio alla costruzione di politiche sociali tese all’inclusione; significa fare crescere nella società occasioni di informazione, sensibilizzazione sui problemi dell’istituzione carceraria e delle persone che vi operano e/o che lì vivono una parte importante della loro vita. Informazione e sensibilizzazione sul senso della pena oggi e sul valore del reinserimento delle persone altrimenti ai margini, come strumento per produrre sicurezza e comunità solidale.

Vanno benissimo volontari che si occupano delle cose spicciole - dei colloqui individuali, della penna o del francobollo che manca -, ma la necessità vera, se si vuole un cambiamento culturale, è quella di un volontariato professionale, preparato. Non crede che i volontari dovrebbero essere adeguatamente e frequentemente formati, per far fronte in maniera più idonea al loro compito, che comunque dev’essere di supporto all’amministrazione penitenziaria e non di sostituzione?

Da anni il volontariato ha acquisito la consapevolezza della complessità del proprio intervento, oltre le pur importanti "cose spicciole" del quotidiano di tante persone private della libertà. Oggi, però, ci troviamo a vivere una situazione dove queste piccole/grandi cose rischiano di essere la sola cosa che ci viene richiesta e che noi possiamo fare per mantenere ad un livello minimo di dignità e umanità la vita di persone senza prospettiva di un futuro dignitoso in carcere o dopo il carcere. Piccole cose che rischiano di assorbire la quasi totalità delle nostre risorse economiche e delle nostre energie. Ma non dobbiamo fare dei passi indietro sul nostro modo di fare volontariato e dobbiamo fare uno sforzo per tenere alto il tema dei diritti di cittadinanza e della dignità delle persone e delle persone detenute/internate anche se questo non paga in termini di consenso ed è spesso difficile essere ascoltati.

Siamo consapevoli che il volontariato da solo non ce la fa e necessario diventa su questo trovare alleanze perché il carcere "pattumiera" sociale non va accettato e non paga per nessuno. Non va accettato che ci siano persone che vivono stipate, in ozio la quasi totalità della giornata, senza speranza. Non va accettata una giustizia vendicativa. È un Paese civile che non lo può accettare.

Vi adoperate in questo senso, avete in cantiere iniziative che vadano in tale direzione?

Come gruppi di volontariato penitenziario della città di Modena stiamo costruendo insieme al Centro Servizi per il volontariato un percorso di informazione/formazione per persone interessate a conoscere le diverse forme di esecuzione della pena; persone interessate ad approfondire e verificare una loro possibilità di incontro con un mondo spesso sconosciuto come quello fatto di persone con problemi penali, delle loro famiglie, degli operatori dell’ambito della giustizia e persone disposte a lasciarsi mettere in gioco dalla vicinanza con l’altro, ma anche cittadini responsabili che credono possibile costruire e vivere un territorio che sia luogo di prevenzione, di inclusione per tutti. Luogo ove si possano agire anche nuove strade di incontro tra l’autore del reato e la vittima del reato, ove si possano sperimentare altre forme di esecuzione della pena come riconciliazione.

Il contributo delle formatrici Emma Melloni e Donatella Piccioni

Problematiche emerse dai focus group

Abbiamo fatto i focus group con 2 tipologie di partecipanti coinvolte separatamente: agenti e volontari.

Nei focus group con gli agenti abbiamo cercato di analizzare elementi relativi alle modalità di socializzazione negli istituti penitenziari ed in particolare il primo ingresso come agenti descritto attraverso le parole, i gesti, le azioni che li avevano maggiormente colpiti.

Ne è emerso che il primo ingresso da sempre è nelle organizzazioni un momento forte di "iniziazione" al proprio lavoro e alla cultura del contesto in cui si inserisce, che in questa realtà ha acquisito tinte più marcate. Da parte degli agenti sono stati quindi riferiti episodi che hanno sottolineato un ingresso abbastanza traumatico, non pensato e non preparato dall’organizzazione come momento importante di apprendimento.

Si è sottolineato il disorientamento nel trovarsi "abbandonati" di fronte a compiti non conosciuti o messi immediatamente in contatto con le parti più dure della realtà carceraria: "Non conoscevo il carcere (di massima sicurezza) non conoscevo bene quelle armi…".

"Sono stato messo di guardia sulle mura con una arma in mano", "Come primo arrivo mi hanno fatto perquisire un famoso mafioso", "In sezione con detenute mie coetanee che mi chiedevano perché ero lì e non lo sapevo bene neppure io…".

Le parole più ricordate sottolineano questo: "queste sono le chiavi… arrangiati", "devi aprire e chiudere", "non devi pensare", "non devi esprimere pareri e sensazioni".

Per molti inoltre il lavoro è stato "scelto" per caso, capitato: per tradizione familiare, perché "al mio paese non c’era lavoro, perché è un lavoro sicuro…". Una volta intrapreso pochissimi cambiano lavoro… anche se molti fanno davvero fatica a reggere psicologicamente il clima.

1. le relazioni interne tra colleghi della stessa area e con quelli delle altre aree

 

Le relazioni sono inesistenti, non ci sono momenti di incontro strutturati in cui confrontarsi su ciò che si sta facendo e sui problemi che si devono affrontare. In complesso si tratta di "relazioni mai pensate" sia con l’interno sia con il mondo del volontariato.

2. l’incontro con il mondo del volontariato

 

L’incontro con il volontariato non è semplice perché questo porta una cultura completamente diversa, basata su valori e assunti molto lontani dai loro. "Perché fare il volontario proprio in carcere?" è la domanda che si sono posti gli agenti sia nei focus che nelle aule. La realtà è sentita come così dura e difficile da reggere per loro, che rimane complicato capire perché altri ci vadano ad operare in modo "volontario" e quindi scelto! Momenti, comunque, di contatto e di scambio nell’istituzione non ci sono. Gli agenti non sanno normalmente nulla delle attività svolte dal volontariato, solo che per questo devono aggiungere alla quotidianità altre attività loro per facilitare gli accessi e spostare i detenuti.

Da iniziali diffidenze reciproche, non essendoci possibilità di scambio e di confronto su possibili obiettivi comuni, i diversi punti di vista continuano a scavare profonde trincee dove sia gli agenti che i volontari si rifugiano.

Nei focus group con i volontari abbiamo indagato

1. le modalità di inserimento nel mondo del volontariato

 

Molte volte anche per i volontari è il caso che spinge le persone a entrare nel volontariato (i figli grandi, il tirocinio per la laurea, una esperienza di vita..un interesse e poi un incontro con una persona che ha facilitato l’ingresso). Il mondo del volontariato lascia in genere abbastanza libere le persone di esprimere le proprie modalità .Questo da un lato favorisce la formazione di gruppi di volontari, ma dall’altro, senza un confronto serrato sui punti di vista, lascia spazio eccessivo alle libere interpretazioni personali e alle recite a soggetto (più legate a ciò che viene in mente di fare che a ciò che può concretamente servire al detenuto).

2. le modalità di accesso nell’istituto penitenziario ed i "segni" che maggiormente hanno colpito i volontari le prime volte che si avvicinavano alla realtà carceraria:

Il carcere non si trovava… (bisogna farlo vedere alla città, farlo diventare un suo problema)

Cancelli

Impotenza/nullafacenza

Piccole cose semplici che non vanno e non si modificano

Non ho visto nessuno sorridere

Quando uscivo dai colloqui non riuscivo più a camminare (somatizzavo la tensione)

La ricchezza sprecata di tanti agenti che vorrebbero provare a cambiare

La rassegnazione del carcerato

Non c’è all’interno la percezione del tempo che passa (in modo particolare le donne)

Quando ti accorgi che chi è lì non è tanto diverso da te

Consapevolezza dei miei privilegi

3. la percezione delle relazioni con gli agenti e gli educatori

Nei focus di volontari si sono manifestate con maggiore forza le difficoltà di relazione:

Mancanza di comunicazione

Difficoltà ad entrare in relazione per rigidità e paura nostra, degli agenti e delle istituzioni

Scoperte "facendo la volontaria non credevo di dovermi relazionare con gli agenti; ora credo di dovere avere un contatto umano anche con loro"

L’agente è visto come chi ha potere ma poca capacità a gestirlo, poca disponibilità, ma anche poco riconoscimento di ruolo da parte dell’istituzione per un lavoro che è importante e difficile.

È necessario il coinvolgimento degli agenti che devono essere più motivati, formati e qualificati per evitare che le frustrazioni che vivono tra di loro in un contesto così chiuso si ripercuotano sul carcerato creando un circolo vizioso.

Come è stata accolto il percorso dagli agenti

In genere l’interesse è stato alto e così pure la disponibilità a mettersi in gioco. Credo, alla luce della esperienza che stiamo facendo, che se ci fosse da parte degli istituti un interesse a lavorare sulla formazione della polizia penitenziaria (soprattutto sugli aspetti "trattamentali" riconosciuti teoricamente anche agli agenti ma mai sostenuti) sarebbe possibile fare un lavoro molto importante.

Gli agenti non hanno ricevuto nessuna formazione psicosociale e il contatto quotidiano con la sofferenza e con problematiche psicologiche estremamente forti (che non sanno affrontare se non con il buon senso) li pongono in una situazione di grande difficoltà da cui derivano comportamenti che vengono giudicati incomprensibili dall’esterno.

Il senso di impotenza comunque aleggia costantemente… non si può… non si riesce… è impossibile…

È in parte una difesa, rispetto ad un coinvolgimento che sarebbe molto complesso da gestire, e in parte un dato di realtà da tenere in considerazione. La gerarchia è sicuramente molto forte e la disponibilità da parte dei comandanti e dei direttori al cambiamento non è sicuramente un elemento di spicco nella cultura del mondo carcerario.

Rapporto volontariato e Istituti penitenziari… come farli lavorare insieme

A nostro avviso il punto sta nella esplicitazione e condivisione degli obiettivi e nella ricerca successiva di strumenti. È necessario trovare una piattaforma, anche se di minima, su cui avviare il confronto e la successiva programmazione e attuazione degli interventi. Gli istituti penitenziari devono ricercare il loro ruolo rispetto al trattamento (per tutte le figure) non delegando al volontariato il loro ruolo. Così pure il volontariato deve riflettere sul proprio specifiche che deve essere elemento di "qualità", per migliorare la realtà, ma non sostitutivo e compensatorio di carenze dell’istituzione.

Problemi emersi durante il corso

Volontari

Il problema più grosso che è serpeggiato nelle aule è stata la presunzione di avere lo sguardo giusto e la difficoltà di ascolto del punto di vista dell’altro che viene giocata non solo con il mondo del carcere ma anche all’interno dei vari gruppi di volontari . La forte motivazione personale che spinge il volontario a volte diventa la sua gabbia rendendo difficoltoso aprirsi a realtà diverse e complesse.

Agenti

La sensazione di essere visti come "i cattivi", la difficoltà di individuare spazi di cambiamento e la sensazione di impotenza di fronte al "mondo dell’impossibile" che la sensazione di gerarchia e isolamento più trasmettere.

Educatori

per quanto riguarda gli educatori credo che il problema principale sia la esiguità del numero e la sensazione di essere un "gruppo in estinzione". Si sentono schiacciati dentro ad una organizzazione che poco li considera, che non offre loro risorse ed autonomia professionale ma che li schiaccia dentro a routine più burocratiche che educative. Anche i volontari che potrebbero essere la loro forza, a volte li giudicano negativamente. Le difficoltà sono relative a due aspetti: perché comunque sono portatori dei no dell’organizzazione e della sua cultura, perché altre volte si sentono schiacciati dalla mole delle proposte del volontariato che non tiene conto degli obiettivi e delle difficoltà dell’istituto.

Difficoltà e punti critici nel progetto

Il progetto è stato molto coinvolgente e ha dato a nostro avviso molti risultati. Inizialmente, dato che eravamo molto consapevoli dei possibili problemi che avrebbero potuto emergere, ci siamo dotate di strumenti utili a monitorarne costantemente l’andamento. In aula eravamo sempre in due formatori, allo scopo di osservare e cogliere tutti gli elementi emergenti e di mantenere viva l’attenzione dei partecipanti .

Il percorso che avevamo progettato era assai flessibile e ci ha quindi permesso di rimanere dentro gli obiettivi prefissati ma allo stesso tempo di adattarci costantemente alle problematiche dei partecipanti. La metodologia è stata molto attiva, pochissimi momenti teorici strutturati, ma molti lavori d’aula che stimolassero l’esposizione di tutti i punti di vista e di tutte le situazioni critiche vissute dai tre soggetti.

L’ascolto tra i partecipanti è stato cercato e stimolato e presto ha superato le "appartenenze". Ci sono state aule che hanno risposto molto in fretta agli stimoli, altre che hanno avuto bisogno di più tempo, ma nel complesso l’ascolto è stato molto alto. È chiaro che le distanze sono ancora molte e il lavoro che si può fare è tanto. Ma si può fare! Oggi bisogna pensare a come continuare, perché solo nella continuità posiamo trovare dei risultati.

Perché non sono stati coinvolti i detenuti

È una domanda che più volte ci siamo fatti e più volte ci è stata posta. La risposta coinvolge più elementi e non ultimo anche la storia del progetto. Il punto di partenza del progetto sono stati problemi comunicativi interni all’organizzazione tra volontari, agenti ed educatori. E già ci è parso un problema complesso da affrontare anche perché tutto da indagare e da capire. I problemi organizzativi all’interno degli istituti penitenziari sono una sorta di tabù, sembrano non affrontabili.

"Non è possibile…." è la risposta che continuamente ci sentiamo dare appena emergono elementi che hanno a che fare con il cambiamento organizzativo. Gli Istituti penitenziari come il regno dell’impossibile! Quando in aula ci è stato posto l’interrogativo da parte di un volontario, c’è stata una risposta spontanea da parte degli operatori penitenziari che partiva dal presupposto che fosse necessario cominciare a vedersi, toccarsi, tra parti interne per poi vedere e toccare anche l’altro da sé, altro che sicuramente nasconde dentro di se aspetti non poco dolorosi.

Gli istituti penitenziari non hanno la consapevolezza di essere una organizzazione, non c’è una analisi di chi sono e che cosa vorrebbero essere, non sono stati né pensati, né tanto meno costruiti luoghi per pensare, non c’è un progetto, non c’è senso di appartenenza. C’è solo la sensazione di muri, di porte chiuse, di chiavi, di separazioni. Ci è sembrato necessario partire da qui anche perché il budget a disposizione era limitato e non lasciava molti margini.

E poi era possibile intervistare comandanti, direttori, operatori, volontari, ma i detenuti? Come lavorare sul punto di vista dei detenuti sull’organizzazione che li ospita e sui rapporti tra operatori che a vario titolo vi lavorano? Chi sono i detenuti oggi, di quali punti di vista sono portatori? Il tema è assai complesso, anche se sicuramente molto interessante e coinvolgente. Come Studio Egla, se fosse possibile aprire un versante di ricerca su questo campo, ci lasceremmo molto entusiasticamente coinvolgere.