Il Volontariato della Giustizia

 

Il Volontariato della Giustizia: una dimensione sedativa?

di Livio Ferrari (Presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia)

 

Dignitas, giugno 2003

 

Una valutazione dell’impegno del volontariato penitenziario, oggi non può prescindere da un quadro di riferimento sociale e politico che negli ultimi anni ha subito notevoli trasformazioni. Se da un lato si deve, infatti, registrare un maggiore ricorso a misure più repressive contro tutte quelle realtà che esprimono il malessere acuito dalle politiche di ridimensionamento del welfare, dall’altro non c’è una corrispondente attenzione e severità nei confronti dei reati di tipo finanziario, o di quelle forme di illegalità che attraversano varie aree della vita politica e amministrativa, ad esse sembra essere riservata di fatto, quando non di diritto, una immunità che rende più difficile la costruzione di una seria cultura della legalità e della giustizia.

Desta grande allarme, inoltre, che anche la giustizia minorile sia fatta oggetto di misure che se attuate comprometterebbero le più importanti conquiste di civiltà giuridica del nostro paese. La proposta di abbassamento dell’età punibile a 12 anni non è che uno dei tanti e preoccupanti segnali di un orientamento che limiterà le possibilità di recupero dei giovani che hanno delinquito. Su questo sfondo avvertiamo la mancanza di una coerente e credibile politica penale, di scelte efficaci di prevenzione, mentre il carcere resta la risposta principale che viene data ai problemi di sicurezza sociale.

 

Il volontariato penitenziario

 

In questo contesto socio-politico il volontariato penitenziario continua a profondere il proprio impegno di solidarietà, attenzione, carità, fantasia e assistenza, con una presenza massiccia e quotidiana che, alla luce dei dati emersi dalla seconda rilevazione nazionale della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia (www.volontariatogiustizia.it) fotografa al primo ottobre 2002 in 6.746 unità coloro che continuativamente nel corso dell’anno varcano le porte degli istituti penitenziari. Complessivamente le persone attive in modo continuativo inserite nelle carceri italiane come volontari sono 6.061, di cui poco meno della metà presenti nelle strutture ubicate nelle regioni settentrionali (47,2%).

Lo squilibrio delle forze è evidente considerando che gli istituti penitenziari del nord rappresentano il 34,3% del totale e i detenuti ivi presenti sono il 38,5% Se in uno solo dei 70 istituti detentivi del nord i volontari sono del tutto assenti (l’O.P.G. di Castiglione delle Stiviere), al centro sono 4 (due nelle Marche, uno in Toscana e uno nel Lazio), al sud 6 le strutture sprovviste di tale presenza e 9 quelle ubicate nelle due isole. Va segnalato anche lo stato di abbandono in cui versano dal punto di vista dell’umanizzazione dell’internamento 4 Ospedali psichiatrici giudiziari su 6. Se il volontariato è piuttosto attivo nelle strutture di Reggio Emilia e di Barcellona (ME)- con 1 volontario ogni quattro internati - lo è molto meno nei restanti quattro O.P.G. (1 volontario per 23 internati) aggravando la condizione di totale esclusione dei detenuti psichiatrici.

Le attività svolte dai volontari e dagli operatori del terzo settore sono molteplici, complementari e diversamente diffuse. Quella maggiormente praticata è costituita dal rapporto personalizzato tra volontari e ristretti, finalizzato al sostegno morale e psicologico di soggetti deprivati di una normale vita relazionale. È presente nel 72,4% dei 203 istituti esaminati e rappresenta poco meno del 20% di tutte le attività svolte.

Seguono le attività religiose, sia quelle legate alla tradizione cristiana che ad altre confessioni delle quali si deve registrare una crescita legata all’elevata presenza nelle carceri italiane di immigrati che chiedono di poter accedere alle pratiche di culto delle proprie religioni queste attività costituiscono naturalmente momenti di alto valore per la vita spirituale, morale e culturale di persone che attraversano un momento particolarmente difficile della vita.

In terza istanza viene praticata un’assistenza materiale vera e propria, come distribuzione di indumenti alle persone che ne sono del tutto prive e non possono avvalersi di aiuti familiari o dell’assistenza di enti pubblici.

In più del 50 per cento degli istituti penitenziari vengono praticate anche attività ricreative e sportive. In meno di 4 istituti su 10 vengono realizzate le più varie attività formative, da quelle di tipo scolastico per il recupero di competenze e titoli di studio, a quelle di più generale valenza culturale come spettacoli teatrali, gruppi di discussione tematici, conferenze tutti momenti che animano e arricchiscono la vita del detenuto, che contribuiscono a dargli consapevolezza dei problemi, delle potenzialità e delle risorse aiutandolo in un percorso di acquisizione di valori, opportunità, informazioni sui quali costruire nuovi progetti di vita.

Anche il prestito di libri e riviste, la gestione, in due casi, della biblioteca dell’istituto, la redazione di giornali interni, sono compiti che vedono la presenza attiva dei volontari e che promuovono attraverso coinvolgenti modalità partecipative l’elaborazione di nuovi valori, di spirito critico, di più forte responsabilità.

Molto meno praticate sono invece le attività finalizzate all’acquisizione di competenze professionali, attraverso appositi corsi, all’orientamento al lavoro e al reperimento di opportunità lavorative. È un terreno che ancora mobilita poco sia i volontari che gli operatori delle cooperative, per preparare fra i detenuti le condizioni di lavoro all’esterno del carcere e per il pieno reinserimento alla fine della pena.

Queste attività possono favorire l’applicazione delle misure alternative alla detenzione e dovrebbero essere sviluppate complementarmente a quelle d’accoglienza esterna, necessarie per un reale contrasto dei meccanismi che inducono alla recidività. Su questo terreno il volontariato ha ancora tanto da investire e realizzare, in modo da svolgere al meglio quella funzione di ponte tra il dentro e il fuori del carcere che ha bisogno di concretizzarsi in forme effettivamente capaci di promuovere inclusione sociale. istruzione, lavoro, alloggio sono strumenti fondamentali per conseguire uno stato di cittadinanza piena. Un peso marginale, infine, hanno le consulenze giuridiche, il disbrigo di pratiche pensionistiche e le attività di patronato, in supplenza alle carenze del servizio pubblico.

 

Il ruolo sedativo del volontariato

 

A questo punto possiamo azzardare un’analisi comparativa, mettendo a confronto i dati del vissuto carcerario di dieci anni fa con quello di oggi. La presenza di detenuti negli istituti è passata da 35.469 (31.12.1991) a 55.670 (31.12.2002). I casi di suicidi sono passati da 29 nel 1991 a 70 nel 2001 e a 52 nel 2002; sono poi aumentate esponenzialmente le malattie, gli atti di autolesionismo, gli episodi di violenza tra detenuti o che coinvolgono agenti di polizia penitenziaria; la recidiva è attestata su percentuali del 68-73% Comparativamente la presenza di volontari, in quelli che venivano chiamati istituti di prevenzione e pena, è più che raddoppiata (solo coloro che vi accedono con l’autorizzazione ex art. 78 sono passati da 656 nel ‘91 a 1.359 nel 2002).

Allora la domanda che sorge spontanea è: considerando che dovrebbe essere una presenza di solidarietà e promozione umana, qual è stata la funzione del volontariato in questi ultimi dieci anni, se la qualità della vita nelle carceri è peggiorata cosi drammaticamente?

Le attività che la comunità esterna in generale e il volontariato in particolare hanno intessuto in questo periodo di tempo sono le più varie, ma tutto questo dispiegarsi di energie e risorse non ha prodotto meno carcere e migliore qualità della vita detentiva, non ha impedito che si continuasse a consumare tutta una serie di violazioni dei diritti, di atti violenti, con poche e isolate prese di posizione e di denuncia.

Contemporaneamente è avvenuto un altro fatto importante: il volontariato, fino ad una decina d’anni fa osteggiato e considerato una presenza scomoda, ha ottenuto sempre più spazio e visibilità, tanto da essere oggi un soggetto insostituibile (sono parole dell’Amministrazione Penitenziaria); ha siglato protocolli d’intesa con il Ministero della Giustizia e nella quotidianità carceraria è diventato un operatore riconosciuto, anche se non pagato e per questo ancora atipico.

Non è certo pensabile di ascrivere al volontariato la responsabilità per quanto accaduto in negativo nel mondo della carcerazione italiana, ma salta agli occhi come questa presenza - utilizzata per supplire a tutta una serie di carenze nei servizi e nel trattamento, e che con la sua operosità ha evitato che esplodessero le contraddizioni e le miserie che l’attuale logica penitenziaria produce - in fondo ha avuto anche aspetti strumentali.

Prendiamo ad esempio l’annoso ed emblematico problema del rifornimento di indumenti per i detenuti, che un certo volontariato ha assunto quasi come impegno missionario. È opportuno ricordare che la Direzione Generale delle Risorse Materiali, dei Beni e dei Servizi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha, tra l’altro, il compito di fornire agli istituti penitenziari tutti gli indumenti di cui hanno necessità le persone recluse. I capi di vestiario in questione vengono prodotti in due - tre carceri del centro Italia e quando non bastano si provvede all’acquisto attraverso ditte esterne. Perché la fornitura avvenga è necessario che dagli istituti stessi pervengano al D.A.P, con cadenza trimestrale, le apposite richieste attraverso lo stampato mod. 381. È appurato che le direzioni delle carceri che usano questa prassi sono circa una decina, a fronte delle 206 case circondariali e di reclusione, con un risparmio per le casse dello Stato sicuramente alto, considerato che le persone ristrette si aggirano mediamente intorno alle 56.000 presenze quotidiane, di cui più del 60% rivolge al volontariato richieste d’indumenti. Si pensi, inoltre, al numero di impiegati o agenti di polizia penitenziaria che dovrebbero essere impegnati nelle operazioni burocratiche di carico e scarico, o nelle attività di immagazzinamento e di distribuzione. Tutto questo personale può essere adibito ad altri compiti, perché tanto c’è il volontariato che si preoccupa di quanto è necessario, lo porta e lo distribuisce, gratuitamente! Quale scriteriato si azzarderebbe a rifiutare tanta manna?

Questo è solo un affioramento dell’iceberg volontariato penitenziario, che indica con chiarezza come anche la nostra funzione e il nostro ruolo debbono essere rivisti e ridisegnati, alla luce del più generale fallimento delle politiche di esecuzione penale. Il volontariato non può continuare a fungere da sedativo assistenziale, caricandosi di corresponsabilità per quanto avviene, ma deve essere capace di intervenire sulle scelte che violano leggi, norme, diritti; sulle opzioni che - già a partire dalle stesse politiche di edilizia penitenziaria - non riescono ad andare oltre la dimensione puramente afflittiva, se non vendicativa, della pena; sui meccanismi che producono esclusione sociale. Occorre che il volontariato s’impegni - per la sua parte - a sostenere prospettive di esecuzione detentiva sempre più ridotta, lavorando per creare le condizioni, innanzitutto culturali, per l’affermazione di una visione riparativa della giustizia.

 

Guardando al futuro

 

Percorrere le strade del servizio volontario oggi significa incontrarsi con tante forme di emarginazione e d’ingiustizia, di fronte alle quali sperimentiamo l’inadeguatezza e l’insufficienza del nostro spirito di carità. Il volontario dalle mani nude deve sapersi trasformare, quando necessario, in un’agenzia di denuncia sociale, attraverso cui può veramente divenire presenza profetica, come si diceva qualche anno fa, voce di chi non ha voce. È questo l’atteggiamento che ci consente di ritrovare, oltre i mutamenti di costumi e culture, in nuovi scenari sociali e politici, le connotazioni e i fini che costituiscono le nostre radici più profonde.

Ecco, allora, un volontariato che continua ad avere il ruolo fondante di sensore sociale del malessere del nostro mondo, di salvaguardia delle conquiste di umanità, legalità e giustizia da cui troppi soggetti rischiano di essere esclusi. Un volontariato, quindi, che sa guardare avanti, conscio della propria storia, pronto a spendersi sempre per affermare i valori della solidarietà e della pace, il cui impegno nel carcere è fare da ponte che unisce, integra e modifica le due città.

 

 

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