Volontari dietro le sbarre

 

Volontari dietro le sbarre

 

Terzo Settore, aprile 2003

 

Il carcere è sempre stato un luogo chiuso e lo è tuttora. Al di là del dettato costituzionale e di quanto è previsto nell’ordinamento penitenziario relativamente al fatto che la detenzione deve tendere alla rieducazione e al reinserimento del condannato, la custodia è stata ed è ancora l’obiettivo principale delle politiche penitenziarie.

Bisogna, comunque, prendere atto che il carcere, pur restando fedele a se stesso e al compito per il quale è stato istituito e costruito, cioè di contenitore dei "mali" della società, va progressivamente mutando e in maniera considerevole. Ed è indubbio che, soprattutto in quest’ultimo decennio, la presenza del volontariato ha contribuito molto a questo cambiamento. Anche se bisogna in ogni caso distinguere ira le tante carceri, e perciò tra le regioni della nostra Italia, nelle quali la presenza della comunità esterna si differenzia enormemente. Si passa infatti da istituti con oltre quattrocento volontari ad altri dove questa disponibilità è frustrata o peggio ancora rifiutata completamente, per condizioni culturali sfavorevoli o per la cecità dei direttori ai quali l’attuale ordinamento dà la discrezionalità su molteplici aspetti della gestione, e questo succede al sud come al nord, al centro come nelle isole.

Dalla ricerca condotta nell’ottobre scorso dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, la prima con dati effettivi, risulta che in Italia, sui 206 istituti per adulti, in 76 il volontariato è quasi praticamente inesistente (in 15 carceri su 72 al nord, in 19 su 55 al centro, in 21 su 42 al sud e in 21 su 37 nelle isole).

La lettura che può essere data a questa ricerca e alle risultanze della stessa, è complessa e variegata, proprio per la diversità dei territori e delle problematiche ad essi ricondotte. Nel cercare di comprendere le motivazioni che sono all’origine della mancata presenza del volontariato, partiamo dalla meno banale e forse più importante rilevazione: la poca o frammentaria formazione che connota una parte di questo volontariato in alcuni casi, è alla base del mancato riconoscimento dello stesso. Un ulteriore fattore, che troviamo quasi esclusivamente al sud e crea difficoltà al volontariato è che, essendoci una grossa presenza nelle carceri di ristretti appartenenti alla criminalità organizzata, aumenta la diffidenza e cautela delle direzioni e spesso la comunità esterna che entra viene tollerata quasi esclusivamente a supporto delle pratiche religiose e comunque alla sequela del cappellano, ma non è autorizzata ad esercitare appieno il proprio ruolo.

In questa ricerca, peraltro lievemente inquinata nella lettura del numero reale dei volontari che a qualsiasi titolo entrano in carcere dalla presenza del privato sociale, operatori di cooperative e imprese sociali, si evidenzia un fatto che leggerei in maniera positiva: il ridursi al lumicino della presenza di volontari non appartenenti ad associazioni e gruppi, oramai meno del 20%, considerato che anche suore e religiosi hanno alle spalle un convento o una congregazione.

Anche la "tipologia" dei volontari assume un aspetto determinante. Da una fotografia che possiamo scattare in base alle attività prodotte e alla provenienza certa si evidenzia che il 20% sono religiosi/e: il 45% sono di estrazione cattolica: il 20% sono di estrazione laica e di sinistra; il 15% sono di estrazione diversa (non schierati, testimoni di Geova, stranieri, etc.).

A margine di questa analisi essenziale, è da evidenziare come i direttori degli istituti condizionino pesantemente, nel bene e nei male, la presenza del volontariato. Infatti, dove il direttore è persona culturalmente aperta e capace, il volontariato si dispiega in mille iniziative, è presente massicciamente e porta avanti iniziative di qualità. Al contrario, dove il direttore è persona chiusa, ostile e refrattaria al coinvolgimento esterno, il volontariato è quasi del tutto assente o mantiene una presenza di "frontiera", non tanto operativa ma di "resistenza".

Un dato emblematico e assoluto che esce dalla ricerca della Conferenza è il fallimento dell’accesso del volontariato nei Centri di servizio sociale per adulti. Infatti a fronte di 55 centri presenti su tutto il territorio nazionale, i volontari che vi operano, in possesso dell’autorizzazione ex art. 78 legge 354/75, sono solo 35 (20 volontari in 19 centri al nord, 10 in 24 al centro, 0 in 12 al sud e 5 in 10 nelle isole). Le cause di questo fallimento sono da ricercarsi in due fondamentali ostacoli: il rapporto conflittuale e, spesso, sospettoso da parte degli assistenti sociali nei confronti del volontariato, non ritenuto da questi ultimi professionale ed anzi quasi in antitesi, ha fatto sì che si sia creata una enorme distanza che ha allontanato le possibili ipotesi di collaborazione; in secondo luogo, le proposte di fare attività presso i centri offerte ai volontari, hanno posto dei paletti di pseudo - appartenenza che non hanno mai aiutato l’accesso dei volontari, i quali si sono sentiti condizionati e non a proprio agio, con la perdita di fatto di una parte fondamentale della propria identità.

Il volontariato delle carceri si è sempre più trasformato, con il passare degli anni, in un volontariato impegnato nella giustizia e questo ha prodotto un suo sdoganamento culturale. Soprattutto, ha coinciso con un maggiore impegno realizzato sul territorio assumendo una visibilità e peso sociale che solo pochi anni addietro sarebbero stati impensabili. Esempi lampanti sono stati gli ultimi protocolli d’intesa siglati dal Ministero della Giustizia con alcune regioni (es. Marche, Liguria), in occasione dei quali il volontariato ha avuto un ruolo attivo nell’elaborazione del documento, e si è visto riconoscere, in diversi articoli dei protocolli stessi, dei ruoli importanti.

Possiamo chiederci se il volontariato sia un reale interlocutore nel ponte ideale che dovrebbe collegare la città reclusa e quella libera. La risposta, pur nella sua difformità evidente tra territorio e territorio, è negativa! Perché può sicuramente fungere da "ponte", ma il suo eventuale esserlo è attualmente strumentale e funzionale ai bisogni contingenti degli istituti o degli enti locali: non è ancora il soggetto di "mediazione riconosciuto" tra il carcere e la comunità esterna. Questo evidenzia ancora di più l’incompiutezza di un percorso iniziato, ma non concluso. Si rende ancora necessario un passaggio culturale forte: da un volontariato assistenziale e circoscritto al carcere, ad un volontariato organizzato e coinvolto sul territorio.

 

Livio Ferrari, Presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia

 

 

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