Sanità in carcere

 

Associazione culturale "Papillon Rebibbia" Onlus

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Io sono Elio

Lettera tratta dal libro "Maggio Selvaggio" di Edoardo Albinati


Io sono Elio, mi trovo davanti a questo foglio armato di penna perché è un modo sensato per raccontare l'esperienza vissuta al centro per malati di Aids di Secondigliano.
Quando lessi sul giornale che stavano costruendo dei centri specializzati per malati di Aids in carcere, perché qualcuno crede che sia l'unica soluzione possibile, pensai subito e con molta rabbia che sarebbero stati dei ghetti e che non poteva e non doveva essere possibile. Si parlava con molto orgoglio di Opera (a Milano) e di Secondigliano (a Napoli).
Poi in un incontro organizzato qui a Rebibbia N.C. il nostro ministro della Giustizia ha confermato questo progetto. Tralasciando però di dire come sarebbero stati gestiti questi centri, a livello amministrativo e di regime penitenziario. La prima cosa che mi è venuta in mente è che fine faranno i malati di Aids come me che non hanno una famiglia forte alle spalle che può seguirli lontano da casa e che settimanalmente trasmette l'affetto necessario per poter andare avanti. Per noi questo non sarà più possibile. Fatto sta che dopo un po' di tempo, con l'inganno perché non hanno neanche avuto il coraggio di dirmi che dovevo essere tradotto a Secondigliano, mi hanno detto che dovevo essere ricoverato in ospedale. Ho chiesto in quale ospedale e hanno detto di non preoccuparmi. Mi hanno messo sulla barella e poi sull'ambulanza. A un certo punto abbiamo preso l'autostrada e ho chiesto dove mi stavano portando: "stai tranquillo, non ti preoccupare". Nella mia mente già balenava Secondigliano anche perché l'autostrada era quella per Napoli.
Comunque mi sono ritrovato dentro la matricola di questo carcere. Un appuntato mi ha chiesto da dove venivo e gli ho detto da Rebibbia. Ha continuato dicendo "qui non sei più a Rebibbia". Gli ho detto che in effetti non sapevo dove mi trovavo. A quel punto mi ha detto: "Secondigliano. Ne hai mai sentito parlare?". Tutti sappiamo che Secondigliano è sotto inchiesta per maltrattamento ai detenuti. Era riuscito a farmi paura ma non l'ho fatto vedere. Ho detto che il carcere è carcere, poi mi hanno chiesto perché ero in barella, io anche se non è vero ho risposto "perché non cammino", "e adesso come si fa" hanno detto, "non lo chiedete a me" ho risposto io. C'è voluta mezz'ora per trovare una sedia a rotelle. Mi hanno portato al casellario e poi alla visita medica. Il dottore mi ha detto: il tempo di sbrigare le cose burocratiche e ti faccio trasportare al centro clinico Medicina I reparto Infettivi. Nell'iter burocratico rientrava anche un colloquio con il brigadiere e il capoposto di reparto. Mi hanno chiesto a che clan appartenevo, se avevo problemi con gli altri e si sono raccomandati che non chiamassi continuamente il medico e gli infermieri.
Mi hanno tolto le scarpe, mi hanno lasciato in pigiama e ciabatte e mi hanno portato al reparto. Cella singola ammobiliata come le stanze dello Spallanzani di Roma escluso il blindato, il cancello continuamente chiuso e le sbarre alla finestra. Struttura molto nuova gestita in maniera antiquata e da un personale vecchio.
Ogni volta che si sente urlare "conta" ci si deve far trovare in piedi davanti al cancello e restare in quella posizione finché il brigadiere non ti permette di rimetterti a posto. Questo anche se hai la febbre o sei depresso.
Il medico passa una volta alla settimana e di tutte le richieste specialistiche in dieci giorni ne ho fatta una soltanto, l'elettrocardiogramma. Lo psichiatra invece è presente tutti i giorni dal lunedì al venerdì, solo che i detenuti con cui vorrebbe colloquiare se li deve andare a cercare perché nessuno ci deve andare. Siamo malati di Aids, non siamo pazzi.
Sono riuscito a parlare con una psicologa, che non sa come comportarsi perché la struttura è stata aperta da poco e le regole sono ancora da stabilire.
Non esistono iniziative di nessun genere né una biblioteca.
Sono riuscito una volta a parlare con un altro ragazzo detenuto nel mio stesso reparto, era lì da un mese e ancora gli dovevano fare il prelievo per le sottopopolazioni.
Nel frattempo la dermatite mi stava spaccando il viso e la testa si stava riempiendo di croste, continuavo a chiedere un sollecito per essere visitato dal dermatologo, alla fine l'infettivologo vedendo che il dermatologo non si decideva a controllarmi mi ha dato una pomata Diprosalic, che però è al cortisone e quindi nociva per i soggetti Hiv e uno shampoo che usavo anche fuori e che è abbastanza efficace.
Ogni volta che andavo a questi controlli mi dicevano che dovevo mettermi le scarpe e io dicevo che me le avevano tolte all'ingresso, che me le dovevano ridare. Per questo non sono potuto mai andare all'aria, perché pioveva sempre e in ciabatte era sconsigliabile. Solo dopo una settimana sono venuto a sapere che per riavere le scarpe dovevo fare una domandina. La spesa si fa una volta alla settimana, il mercoledì per il mercoledì prossimo. Sono stato cinque giorni quindi senza poter fumare una sigaretta.
Il vitto non è dei migliori e soprattutto è poco.
Speravo che queste strutture si rifacessero a un modello ospedaliero con un supporto psicologico costante e delle cose da fare, delle attività, delle possibilità di stare con gli altri. Così come sono non sono una soluzione, ti deprimono ancora di più.
Chi non fa i colloqui viene a trovarsi intrappolato in queste strutture, e anche per chi li fa sono comunque gli unici momenti. Non c'è nient'altro.
Fino all'ultimo non hanno voluto farmi dimenticare che mi trovavo in un carcere dai metodi molto duri. Sono stato portato in matricola, dovevo tornare in detenzione domiciliare. Un agente mi ha detto di mettermi sulla quarta mattonella davanti alla scrivania e di non muovermi e rispondere alle domande del brigadiere. Rispondevo e continuavo a pensare... come farò per firmare e lasciare le mie impronte?
Fortunatamente il brigadiere è stato comprensivo e mi ha lasciato avanzare di un passo.

Elio Roberto Stoppa

Commento di Edoardo Albinati

 

Bella, vero, questa lettera? Scabra e agghiacciante, tanto più che Elio non era tipo da lamentarsi e anche nei momenti più bassi conservava uno stile impeccabile: non sprecava una parola o un gesto, anche perché non aveva le forze per farlo. Si manteneva, con riserbo, sempre una riga sotto il tono generale, dunque quello che ha scritto di Secondigliano non soltanto è credibile, ma probabilmente va inteso per difetto rispetto alla realtà. Struggente l'ultima frase "il brigadiere è stato comprensivo...", dentro cui sono compendiate tutte le pene di un uomo, che anche in fin di vita si mantiene però capace di ironia, di cogliere i nonsensi. Era lo stile personale di Elio. L'ultima volta che l'ho visto era magrissimo eppure gonfio e tutto luccicante di sudore. Aveva il viso paonazzo e una stretta di mano leggera come quella di un fantasma. Doveva restare seduto: mi rivolse poche parole stanche. Un paio di settimane dopo aver consegnato questa lettera ai compagni è morto. La lettera è stata pubblicata su "la Repubblica" da Barbara Palombelli e ha causato l'apertura di un'inchiesta sul trattamento da lui ricevuto in carcere. Ma si sa come vanno queste cose, appena letto il giornale lì a Secondigliano si saranno precipitati a compilare schede e moduli, predatandoli, a fabbricare esami mai compiuti, a riempire i registri di firme per dimostrare che Elio Stoppa era stato visitato decine di volte e curato come meglio non si poteva. La secca frase "Fortunatamente il brigadiere è stato comprensivo e mi ha lasciato avanzare di un passo", che esplode isolata e assurda in fondo alla sua lettera, è stata l'ultima cosa che Elio abbia detto al mondo.

 

 

 

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