Percorsi
      didattici sul carcere 
     
    
    
    
      (N.
      B. si farà riferimento solo ad opere in lingua italiana o a traduzioni in
      italiano di opere straniere) 
     
    
              1)
              Percorso sulla storia della prigione 
              2)
              Percorso sulle teorie della pena 
              3)
              Percorso sulla sociologia della vita carceraria 
              4)
              Percorso sul diritto penitenziario 
              5)
              Percorso sul trattamento carcerario 
                
    
    
    
      Il
      carcere può essere considerato un’istituzione totale (cfr. sociologia
      della vita carceraria) che ha come scopo manifesto quello di
      sanzionare gli individui che hanno commesso un reato, attraverso la
      detenzione in un luogo chiuso in cui è fortemente limitata la libertà di
      movimento del condannato. Si tratta di uno strumento con cui lo Stato
      moderno esegue la sanzione penale, regolato da un insieme di regole che
      vengono chiamate diritto penitenziario (cfr. diritto penitenziario), e
      dunque di un’istituzione che è sorta storicamente, come forma
      principale di sanzione penale statuale, nella seconda metà del Settecento
      con lo sviluppo dell’illuminismo giuridico penale (cfr. storia della
      prigione). I riformatori penali settecenteschi favorirono, da un punto di
      vista teorico, la scelta del carcere come strumento di politica criminale,
      in quanto ritenevano che la detenzione potesse essere una forma di pena
      meno crudele dei supplizi d’ancient régime e più facilmente
      quantificabile nella sua afflittività (cfr. teorie della pena). La
      diffusione dell’istituzione penitenziaria si è sviluppata
      contemporaneamente ad un insieme di pratiche di sapere e di discipline
      scientifiche che prendono il nome di scienze criminologiche. Nell’ambito
      di queste ultime discipline si sono sviluppate pratiche di intervento
      sulla popolazione reclusa, che hanno l’obiettivo manifesto di
      risocializzare e/o rieducare gli individui detenuti, oppure di
      "curare", modificare, trasformare quegli aspetti della
      personalità dei condannati che, secondo gli esperti della scienza
      criminologica, conducono alla commissione di atti criminali (cfr.
      trattamento carcerario). 
     
    
      Seguendo
      tale prospettiva, il tema del carcere può essere affrontato attraverso
      cinque grandi percorsi di lettura che hanno, ovviamente, numerosi canali
      di comunicazione e punti di snodo. 
     
    
      1)
      Percorso sulla storia della prigione; 
     
    
      2)
      Percorso sulle teorie della pena; 
     
    
      3)
      Percorso sulla sociologia della vita carceraria; 
     
    
      4)
      Percorso sul diritto penitenziario; 
     
    
      5)
      Percorso sul trattamento carcerario. 
     
    
    
      1.
      Percorso sulla storia della prigione
       
     
    
       
      Il carcere, così come noi oggi lo conosciamo, è un’invenzione
      istituzionale piuttosto recente. Si può affermare che esso diventi, nel
      mondo occidentale, la forma principale di sanzione per i reati attraverso
      un processo storico che ha inizio alla metà del Settecento e trova il suo
      pieno compimento all’inizio dell’Ottocento (M. Foucault, 1976). Prima
      dell’epoca moderna il sistema penale del mondo occidentale era
      caratterizzato da una pluralità di pene e il carcere non era utilizzato
      che per custodire gli imputati in attesa di giudizio, nel corso delle
      procedure inquisitorie, o per detenere arbitrariamente avversari politici.
      Nelle incisioni della fine del Settecento di Giovanbattista Piranesi
      troviamo ancora l’immagine cupa e inquietante della prigione come
      "segreta" (M. Praz, 1975). I sistemi penali d’ancient régime
      conoscono una grande diversità di modalità punitive. Gran parte di tali
      modalità infliggono sofferenze corporali (fustigazione, amputazioni di
      arti, vari tipi di tortura che vengono peraltro utilizzati soprattutto
      nella fase istruttoria del processo), sino a giungere alla pena di morte
      che peraltro non viene eseguita, come oggi, in modo tendenzialmente
      indolore e segretamente, ma pubblicamente e attraverso
      "l’arte" di provocare estrema sofferenza al condannato (i c.
      d. supplizi). Altre modalità punitive erano, invece, relativamente meno
      cruente: le pene di carattere pecuniario, l’esilio o il bando, la pena
      della "galera" consistente nell’essere condannati a diventare
      remieri sui vascelli (G. Alessi Palazzolo, 1977; A. Viario, 1980), pene
      che esponevano il condannato al pubblico ludibrio (ad es. la gogna o la
      pubblica ammissione delle colpe del condannato in giudizio). 
     
    
      A
      partire dalla seconda metà del Settecento tali pene vengono
      progressivamente abbandonate e sostituite con la pena del carcere che, nel
      giro di pochi decenni, diventa la principale modalità di esecuzione delle
      pene. Come spiegare tale fenomeno storico? Vediamo quali sono state alcune
      delle principali risposte che gli studiosi hanno dato a tale domanda. 
     
    
      Georg
      Rusche e Otto Kirchheimer, due sociologi della Scuola di Francoforte, in
      un’opera pubblicata alla fine degli anni Trenta (tr. it. 1978) hanno
      proposto una ricostruzione dell’evoluzione delle forme che ha assunto la
      pena nel mondo occidentale a partire dal Medioevo, utilizzando un
      approccio di tipo neo-marxista. Partendo da tale approccio, i due Autori
      considerano la pena come un "prodotto storico", che quindi si
      concretizza in forme particolari che mutano con il tempo e nello spazio.
      In particolare, tali mutamenti avvengono in relazione ai modi di
      produzione che si sviluppano in determinate società e "ogni modo di
      produzione tende a scoprire delle forme punitive che corrispondono ai
      propri rapporti di produzione" (D. Garland, 1999). La pena non deve
      essere considerata come la risposta al crimine, ma come un meccanismo
      sociale che si inserisce nella dinamica globale di lotta tra le classi.
      Occorre strappare il velo ideologico che descrive le finalità manifeste
      della pena, per arrivare alle sue funzioni reali. Da tale punto di vista,
      i due sociologi francofortesi ritengono molto importante analizzare il
      peso che il mercato del lavoro ha avuto nel condizionare i metodi
      punitivi. La ricostruzione storica mostra, infatti, come l’andamento del
      mercato del lavoro e la crescita demografica della popolazione fissino,
      per così dire, il valore sociale della vita umana e, conseguentemente, il
      ricorso a specifiche modalità sanzionatorie. Ecco allora che durante le
      fasi storiche in cui la manodopera è abbondante, la politica penale può
      assumere forme, quali le pene corporali o capitali, che tengono poco conto
      della vita umana e, invece, nei periodi di scarsità di manodopera, le
      istituzioni penali sono molto più attente a non disperdere il valore
      delle risorse lavorative degli individui sottoposti a condanna. Nel
      Medioevo, ad esempio, la brutalità e il disprezzo della vita umana che si
      manifestano nelle esecuzioni penali sono spiegabili anche per una
      situazione di eccesso di offerta di manodopera che, nel diminuire il
      prezzo del lavoro, fa diminuire anche il prezzo della vita umana e che
      trasforma il diritto penale in uno strumento con il quale contenere un
      aumento eccessivo della popolazione rispetto alle ridotte risorse
      disponibili per il suo sostentamento. Nell’epoca del mercantilismo,
      invece, coi primi sviluppi dell’economia capitalistica, il nascente
      potere statuale si trova a dover fare i conti con carenza di manodopera e
      con il conseguente incremento dei salari. In questo periodo, dalla fine
      del XV secolo all’inizio del XVIII, prevalgono forme punitive come la
      servitù sulle galere, la deportazione nelle nuove colonie d’oltreoceano
      e la condanna ai lavori forzati. Si tratta di pene che hanno in comune di
      consentire un utilizzo coatto di manodopera e di rispondere ad esigenze di
      tipo economico (quali, ad esempio, il bisogno degli stati marinari di
      disporre di rematori a basso costo per intraprendere le esplorazioni del
      nuovo continente americano, oppure la necessità degli stati coloniali di
      popolare i territori conquistati con manodopera adatta a lavori forzati
      per pubblica utilità). Nell’ambito di queste modalità punitive si
      colloca il carcere che, in una prima fase, si caratterizza per le sue
      finalità economiche di procacciamento di manodopera coatta e di strumento
      di addestramento professionale nei confronti di una popolazione contadina
      che non ha dimestichezza col lavoro di fabbrica. A tale scopo, le prime
      carceri settecentesche si caratterizzano per un regime di reclusione in
      cui il lavoro non rappresenta un mero strumento rieducativo o afflittivo;
      le prigioni costituiscono delle vere e proprie piccole unità produttive
      che si inseriscono nei meccanismi della libera concorrenza sul mercato del
      lavoro (di qui le proteste delle corporazioni dei mestieri e dei
      commercianti per la concorrenza sleale che tali unità pongono in essere).
      Con il pieno compimento della rivoluzione industriale agli inizi
      dell’Ottocento, tuttavia, il carcere muta la sua funzione produttiva,
      diventando in primo luogo uno strumento di controllo delle "classi
      pericolose", ovvero uno strumento di contenimento delle masse
      disoccupate prodotte dai rapidi processi di inurbamento e di sviluppo
      industriale. Lo stesso regime detentivo cambia di segno con
      l’introduzione della detenzione unicellulare e il lavoro diventa uno
      strumento puramente afflittivo fine a se stesso (esempio paradigmatico di
      tale tipo di lavoro il c. d. "mulino a scalini", consistente in
      una ruota a scalini che, girando intorno ad un perno centrale, consente al
      condannato di salire i gradini rimanendo sempre allo stesso posto). In tal
      modo, il carcere diventa un’istituzione che rappresenta, da un lato, un
      sistema razionale di deterrenza basato sul timore della detenzione e sulla
      degradazione sociale e, dall’altro, uno strumento di regolazione del
      mercato del lavoro salariato che consente di ridurre le quote di
      disoccupazione strutturale prodotte dalle periodiche crisi dell’economia
      capitalistica. 
     
    
      Sempre
      nella tradizione neo-marxista si collocano i lavori di Michael Ignatieff
      (1978) e di Dario Melossi e Massimo Pavarini (1977) che riprendono in
      buona misura le tesi dei due autori francofortesi. Ignatieff, peraltro,
      valorizza in modo particolare il ruolo svolto dai riformatori del diritto
      penale del primo Ottocento nel riuscire a creare un consenso generalizzato
      delle classi abbienti sulla necessità di una riforma penale non
      finalizzata esclusivamente a contenere la criminalità, ma anche
      "come via d’uscita alla crisi sociale di un’intera epoca, come
      parte di una più ampia strategia di riforme politiche, sociali e legali
      intese a rinsaldare, su nuove basi, l’ordine sociale". In questo
      senso, le tesi di Ignatieff prendono moderatamente le distanze
      dall’ortodossia marxista che ritiene determinante l’aspetto
      economico-strutturale dei modi di produzione sugli elementi più
      strettamente culturali e sociali, quali sono appunto i movimenti
      d’opinione dei riformatori penali. 
     
    
      Un’altra
      proposta interpretativa del processo di costruzione del carcerario moderno
      è stata elaborata dallo storico-filosofo francese Michel Foucault. Nella
      sua opera principale dedicata a questo tema (M. Foucault, 1976), egli si
      propone di studiare i cambiamenti avvenuti all’incirca tra il 1750 e il
      1820 in Europa e negli Stati Uniti nel settore penalistico, come un
      episodio specifico di un mutamento complessivo dei modi di esercizio del
      potere nella società. In tale prospettiva, Foucault analizza le
      differenze macroscopiche che intercorrono tra la forma di pena tipica
      delle società d’ancient régime (o "classica" come viene
      chiamata da Foucault), il supplizio, con quella tipica della società
      moderna, il carcere. Il supplizio viene ricostruito dall’autore francese
      come un rituale che deve svolgersi in pubblico (in contrapposizione ad una
      procedura penale che è in gran parte segreta), deve seguire dettagliate
      regole e costituisce il momento principale in cui si manifesta il potere
      di sovranità dell’assolutismo monarchico. Secondo il pensiero
      penalistico dell’epoca, ogni reato rappresenta un attacco diretto alla
      persona del Sovrano e, conseguentemente, l’esecuzione pubblica del
      supplizio deve manifestare la vendetta violenta di un potere che si
      esercita essenzialmente sul corpo del condannato e ha come scopo quello di
      incutere il terrore nella popolazione. Si tratta di un rituale "di
      guerra", in cui il corpo del condannato svolge il ruolo del nemico
      sul quale deve imprimersi la forza schiacciante del potere di sovranità
      che deve ristabilire l’ordine "sacro" violato dall’azione
      criminale. 
     
    
      Nella
      seconda metà del Settecento, i supplizi cominciano ad essere criticati da
      più parti. In particolare, i riformatori illuministi (si pensi al celebre
      "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria) invocano pene che
      tengano conto dei principi umanitari e della vita del condannato, un
      sistema di diritto penale più razionale e certo, limitando il potere
      arbitrario del Sovrano. In questa prospettiva, la prigione viene
      considerata una forma di pena più umana e capace di soddisfare
      l’esigenza di certezza del diritto, in quanto può essere rigorosamente
      misurata nella sua afflittività (attraverso la durata del tempo sottratto
      alla libertà al condannato). Parallelamente a queste critiche pubbliche
      degli studiosi di diritto penale, si sviluppano una molteplicità di
      istituzioni "disciplinari" che, secondo Foucault, solo in parte
      si inseriscono nella linea dei riformatori. Si tratta di una serie di
      modelli segregativi, di cui il carcere rappresenta il modello
      paradigmatico ma non unico (si tratta anche dell’ospedale,
      dell’opificio, della scuola, della caserma, del convento), che sono
      improntati ad una logica, più che punitiva, correzionale. In queste
      istituzioni si esercita un "potere disciplinare" che mira ad
      addestrare il detenuto, ad esercitarlo a compiti specifici, a regolare la
      scansione temporale della sua esistenza di ogni giorno, ad impossessarsi
      della sua "anima" come sede delle abitudini quotidiane. Tali
      istituzioni si avvalgono anche di particolari tecniche architettoniche (R.
      Dubbini, 1986; A. Di Lazzaro, M. Pavarini, 1994) che consentono una
      sorveglianza continua del detenuto; Foucault si sofferma in particolare
      sul progetto elaborato da Jeremy Bentham nel 1791 chiamato Panopticon,
      progetto che attraverso una sapiente composizione delle linee di veduta
      consente la segregazione unicellulare del recluso e la sua impossibilità
      di venire a conoscenza del momento in cui è sorvegliato, favorendo in tal
      modo la costituzione di processi di interiorizzazione delle norme. Queste
      due linee di sviluppo della penalità moderna, riformatori illuministi e
      istituzioni disciplinari, vengono ben presto a scontrarsi e assistiamo al
      progressivo prevalere del potere disciplinare che non si limita ad
      elaborare pratiche di intervento sugli individui, ma costituisce anche
      nuovi campi del sapere che vengono chiamati da Foucault le "scienze
      dell’uomo". Con questa espressione vengono designate quelle
      discipline moderne che hanno per oggetto il comportamento dell’uomo e
      come obiettivo quello di intervenire sui processi che determinano tale
      comportamento. Per quanto riguarda il comportamento criminale, si tratta,
      in particolare, della criminologia la quale nasce proprio in epoca moderna
      avendo come obiettivo quello di indagare le cause che producono criminalità,
      al fine di limitarne gli esiti socialmente pericolosi. Il carcere diventa
      il laboratorio principale attraverso cui studiare i fenomeni criminali; in
      tal senso, si può affermare, secondo Foucault, che il carcere più che
      un’istituzione che pone un freno alla criminalità, "fabbrica"
      in senso epistemologico la categoria "scientifica"
      dell’individuo criminale, in quanto è all’interno del carcere che
      diventa "visibile" il fenomeno criminalità così come inteso
      dalla società moderna. In tal modo, Foucault giunge alla definizione
      della funzione reale della prigione che non è quella di combattere la
      delinquenza, ma di differenziare gli illegalismi presenti nella società.
      Di fronte al gran numero delle violazioni della legge penale, il carcere
      consente di marchiare come "criminali" solo quelle illegalità
      che vengono commesse prevalentemente da particolari gruppi sociali, mentre
      altri tipi di illegalità sfuggono a tale processo di stigmatizzazione e
      di emarginazione sociale (ad esempio, la c. d. criminalità dei colletti
      bianchi). Ciò consente di percepire il problema della criminalità non
      come una questione politica e sociale, ma come un tema di difesa
      dell’ordine pubblico nei confronti di una ridotta categoria di individui
      socialmente pericolosi. 
     
    
      Da
      un’analisi dei supplizi parte anche la riflessione di Pieter Spierenburg
      (tr. it. parziale, 1997), sociologo olandese che si è ispirato al grande
      storico del processo di civilizzazione del mondo occidentale moderno,
      Norbert Elias. Proprio partendo dalla ricostruzione storiografica di
      Elias, Spierenburg sostiene che il declino delle esecuzioni pubbliche
      particolarmente cruente è legato al processo di mutamento della
      sensibilità del cittadino europeo. In particolare, i supplizi
      presuppongono "una società tollerante nei confronti dell’inflizione
      pubblica del dolore e (...) un atteggiamento positivo, o per lo meno
      indifferente, rispetto alla sofferenza dei condannati"; una società
      come quella esistente in Europa nel XVI e nel XVII secolo, caratterizzata
      da un basso livello di sicurezza pubblica e dalla persistenza del codice
      d’onore cavalleresco di origine medioevale che concepisce l’uso della
      violenza come uno strumento "normale" di regolazione delle
      relazioni sociali. Nel corso del Seicento, tuttavia, prende avvio un lento
      processo di revisione di questo atteggiamento tollerante nei confronti
      della violenza che porterà, nella seconda metà del Settecento, alla
      ripugnanza per le pene corporali troppo cruente. Tale processo di
      sensibilizzazione ha inizio nell’ambito delle classi superiori della
      società, per le quali per un lungo periodo di tempo diventa un vanto
      poter esibire la propria delicatezza d’animo e la propria civiltà
      rispetto alle classi popolari ancora legate a condizioni di vita
      arretrate. È nella società di corte secentesca (tipica quella di
      Versailles del "Re Sole" Luigi XIV) che prende vita quel
      processo di formazione della "coscienza" dell’individuo
      moderno e quella "società delle buone maniere" per la quale
      diventerà incivile e barbaro straziare il corpo del condannato come
      avveniva nei supplizi d’ancient régime. L’abolizione totale dei
      supplizi avverrà compiutamente però solo quando tale sensibilità si sarà
      diffusa ad ampi strati di popolazione, vale a dire nel corso
      dell’Ottocento (L. Stone, 1981), quando la prigione diventerà la forma
      di pena che sottrae allo sguardo del pubblico la sofferenza del
      condannato. Ciò non significa che la dimensione della sofferenza sia
      scomparsa dall’esecuzione della pena moderna, ma solamente che la pena
      consistente nella privazione della libertà sembra essere compatibile con
      la nuova sensibilità pubblica relativa alla violenza che lo stato può
      legittimamente esercitare verso coloro che hanno trasgredito le sue leggi
      più importanti. 
     
    
      Oltre
      alle ricostruzioni di ampio raggio maggiormente accreditate appena
      presentate, occorre menzionare anche gli studi, peraltro non molto
      numerosi, effettuati sul tema specifico dell’evoluzione
      dell’istituzione carceraria in Italia (R. Canosa, I. Colonnello, 1984).
      Per il periodo preunitario sono stati prodotti lavori che hanno
      ricostruito i primi sviluppi del carcere di alcuni degli Stati in cui era
      divisa la nostra penisola: la Lombardia sotto il dominio austriaco (A.
      Liva, 1990; M. A. Romani, 1983); la Repubblica di Venezia (U. Franzoi,
      1966; G. Scarabello, 1979; A. Viario, 1980); Napoli sotto la dominazione
      spagnola (G. Alessi Palazzolo, 1977); lo Stato Pontificio (D. Izzo, 1956);
      la città di Verona (R. Laschi, 1904). 
     
    
      Venendo
      al periodo successivo all’Unità d’Italia le vicende del carcere sono
      state ricostruite nei vari passaggi tra il sistema liberale (1860-1925),
      l’epoca fascista (1925-1945) e l’avvento della Repubblica democratica.
      Al di là dei mutamenti istituzionali, è stata sottolineata una certa
      continuità dell’amministrazione carceraria, soprattutto rispetto alla
      sua estraneità ai mutamenti politici e culturali della società civile
      (G. Neppi Modona, 1973). Tale continuità, tuttavia, sembra venir meno con
      la riforma penitenziaria del 1975 che segna un punto di svolta, almeno dal
      punto di vista dei principi ispiratori, della legislazione sul
      penitenziario (E. Fassone, 1980). Dal punto di vista storiografico, è
      stata effettuata anche l’analisi dei flussi e dei livelli di
      carcerizzazione per tutto il XX secolo, anche in rapporto agli andamenti
      economici del Paese e all’allarme sociale diffuso nell’opinione
      pubblica (D. Melossi, 1997). L’analisi più complessiva dei tassi di
      carcerazione ha mostrato la tendenziale diminuzione del numero di detenuti
      rispetto al totale della popolazione extra-muraria, rapporto numerico che
      è passato da circa 200 detenuti per ogni 100 mila abitanti degli anni
      1898-99, ai 90 reclusi degli anni 1993-94 (M. Pavarini, 1997). Se questa
      è la tendenza sui tempi lunghi, occorre segnalare che i tassi di
      carcerazione hanno avuto una notevole impennata a partire dai primi anni
      Novanta, se si pensa che per tutti gli anni Settanta il tasso di
      carcerazione è rimasto intorno ai 50 detenuti per 100 mila abitanti. 
     
    
    
      G.
      Alessi Palazzolo (1977), Pene e "remieri" a Napoli tra Cinque e
      Seicento. Un aspetto singolare dell’illegalismo d’Ancient Régime, in
      "Archivio Storico per le Provincie Napoletane", XV, p. 235 ss. 
     
    
      R.
      Canosa, I. Colonnello (1984), Storia del carcere in Italia dalla fine del
      1500 all’unità, Roma. 
     
    
      A.
      Di Lazzaro, M. Pavarini (a cura di) (1994), Immagini del carcere.
      L’archivio fotografico delle prigioni italiane, Roma, Ministero di
      Grazia e Giustizia. 
     
    
      R.
      Dubbini (1986), Architettura delle prigioni. I luoghi e il tempo della
      punizione (1700-1880), Milano. 
     
    
      E.
      Fassone (1980), La pena in Italia dall’Ottocento alla riforma
      penitenziaria, Bologna, Il Mulino. 
     
    
      M.
      Foucault (1976), Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino,
      Einaudi. 
     
    
      U.
      Franzoi (1966), Le prigioni della Repubblica di Venezia, Venezia. 
     
    
      D.
      Garland (1999), Pena e società moderna. Uno studio di teoria sociale,
      Milano, Il Saggiatore. 
     
    
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      2.
      Percorso sulle teorie della pena 
      La questione del carcere si può affrontare anche dal punto di vista
      delle teorie della pena. Con questa espressione si intendono quelle teorie
      che presentano delle argomentazioni riguardanti la giustificazione e lo
      scopo della pena. In altri termini, si tratta di teorie che intendono
      rispondere alle domande: 
     
    
      a)
      se sia legittimo per lo Stato punire, con l’inflizione di sofferenza
      legale, l’individuo che ha violato leggi di particolare rilevanza
      sociale come dovrebbero essere quelle penali; 
     
    
      a1)
      in subordine, per il tema che qui interessa, se la pena detentiva possa
      essere ricompresa tra quelle che possono essere giustificate da un punto
      di vista del dover essere; 
     
    
      b)
      una volta che si sia risposto affermativamente alla domanda a), quale sia
      la finalità a cui la pena deve tendere. 
     
    
      Rispetto
      alla domanda a) è possibile fare immediatamente una prima distinzione tra
      coloro che non ritengono giustificabile il potere punitivo dello Stato
      (teorici dell’abolizionismo penale) e coloro, invece, che sono
      dell’opinione che questa giustificazione si possa trovare e possa essere
      argomentata (teorici del giustificazionismo penale). I teorici
      dell’abolizionismo penale si possono, a loro volta, distinguere tra
      coloro che non ritengono giustificabile alcun tipo di sanzione penale
      comminata dall’istituzione statale (N. Christie, 1985), e coloro che
      ritengono in specifico il carcere come una forma di pena non
      giustificabile e rispondono quindi negativamente alla domanda a1 (T.
      Mathiesen, 1996). 
     
    
      In
      Italia lo spazio assegnato al pensiero abolizionista nella cultura
      penalistica è stato peraltro assai limitato. L’influenza
      dell’abolizionismo penale è giunta soprattutto dalla Scandinavia; non a
      caso i due autori abolizionisti tradotti in italiano citati in precedenza
      sono uno svedese (Nils Christie) e un norvegese (Thomas Mathiesen). Ciò
      non significa, tuttavia, che tale pensiero debba essere svalutato; esso,
      infatti, per la sua carica di "necessaria utopia", può svolgere
      la funzione di un costante elemento di critica verso i sistemi punitivi
      positivi. 
     
    
      Venendo
      alle teorie giustificazioniste, esse si possono a loro volta suddividere
      in due grandi filoni: le teorie assolute e le teorie relative. Per
      illustrare tale distinzione è consueto citare un celebre passo del De Ira
      di Seneca che suona: nemo prudens punit, quia peccatum est, sed ne
      peccetur (il saggio non punisce perché l’azione commessa costituisca
      peccato, ma affinché non si pecchi più in futuro). Seguendo questa
      formula latina, "da una parte vi sono le dottrine che giustificano la
      pena in base al quia peccatum est, che prendono cioè in considerazione
      soltanto il male o fatto delittuoso commesso, e guardano così al passato;
      dall’altra, vi sono le dottrine che giustificano la pena in base al ne
      peccetur, che prendono cioè in considerazione il bene, lo scopo che può
      derivare dalla pena, e guardano così al futuro" (M. A. Cattaneo,
      1990, 56). Le prime si chiameranno teorie assolute, in quanto considerano
      la pena come un fine in se stessa, le seconde si chiameranno teorie
      relative, in quanto considerano la pena giustificabile in quanto possieda
      una finalità socialmente positiva. 
     
    
      Le
      teorie assolute vengono anche chiamate retributive, in quanto considerano
      la pena la giusta retribuzione del male che il reo ha commesso. Tali
      teorie si fondano quindi sul principio che sia giusto e doveroso
      retribuire il male con il male. La giustizia è un elemento essenziale
      delle teorie assolute, in quanto esse ritengono giustificabile la pena da
      un punto di vista morale più che giuridico (A. Amato Mangiameli, 1985).
      Tali teorie paiono, infatti, di regola non accettare pienamente la
      separazione tra diritto e morale sui cui si fonda la c. d.
      secolarizzazione del pensiero giuridico moderno. 
     
    
      Risalendo
      alle teorie retributive classiche di Kant e Hegel (AA.VV., 1989), i
      retributivisti sostengono, al di là di ogni considerazione pratica sulla
      utilità della pena, la doverosità morale della pena per ristabilire
      l’ordine che il reato ha violato. Alcune teorie della retribuzione
      giungono a parlare di un "diritto alla pena" del condannato, il
      quale, se non fosse punito per i reati che ha commesso, perderebbe la sua
      dignità di essere umano (F. D’Agostino, 1989). Nell’ambito delle
      teorie della retribuzione è molto importante l’aspetto della
      proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato, in quanto,
      nella prospettiva etica, la pena per essere giusta deve essere
      adeguatamente proporzionata al male commesso. 
     
    
      L’aspetto
      della proporzionalità è quello che rileva maggiormente rispetto al
      problema del carcere visto in una prospettiva retribuzionista. Tali
      teorie, infatti, essendo interessate più che altro alla giustificazione
      della pena in termini di principio, si sono scarsamente occupate delle
      concrete modalità di esecuzione della pena. Nella prospettiva di una pena
      proporzionale al male commesso, tuttavia, il carcere può essere
      considerato astrattamente come una modalità punitiva rigorosamente
      quantificabile sia in base alla misura (durata della pena), sia in base al
      grado di afflittività (sottrazione della sola libertà di movimento del
      condannato). Se peraltro dal piano dei principi si passa al livello delle
      concrete prassi dell’esecuzione penale, si presentano notevoli problemi
      sotto entrambi le prospettive. Rispetto al tempo, al di là della sua
      percezione che può variare da individuo a individuo, esistono casi (ad
      esempio, i malati a prognosi infausta o i condannati molto avanti negli
      anni) che mettono in discussione il principio egualitario della durata
      della pena, proponendo la paradossale domanda "cinque anni di
      reclusione comminati ad una persona di trent’anni in perfette condizioni
      di salute sono equivalenti a cinque anni di reclusione comminati ad una
      persona anziana, o ad una colpita da grave malattia a prognosi
      infausta?" (C. Sarzotti, 1996). Molte ricerche sociologiche, inoltre,
      hanno dimostrato che in realtà la pena della detenzione va molto al di là
      della mera privazione della libertà di movimento, in quanto incide
      pesantemente anche sulle condizioni fisiche e sulle relazioni sociali del
      condannato (cfr. sociologia della vita carceraria) e colpisce anche
      individui, come i familiari del condannato, che non si sono macchiati di
      alcun delitto. 
     
    
      Venendo
      al filone delle teorie relative, esse si ispirano all’insegnamento dei
      pensatori della scuola del diritto naturale moderno (Hobbes, Locke,
      Pufendorf) che hanno considerato la pena dal punto di vista dell’utilità
      che essa può arrecare al mantenimento dell’ordine sociale (M. A.
      Cattaneo, 1974; U. Scarpelli, 1981). Per tale motivo le teorie relative si
      chiamano anche utilitaristiche. 
     
    
      Tra
      le teorie relative che hanno avuto la maggiore diffusione nella cultura
      penalistica occidentale, si collocano le c. d. dottrine della prevenzione,
      che si dividono, a loro volta, in quelle della prevenzione generale e
      della prevenzione speciale. La stessa denominazione di queste teorie
      indica come esse assegnino alla pena lo scopo di prevenire i reati e
      guardino, quindi, al futuro. Nel caso delle teorie della prevenzione
      generale la finalità della pena è rappresentata dal distogliere la
      generalità dei consociati dal commettere delitti, attraverso l’esempio
      e/o la minaccia della sanzione; nel caso della prevenzione speciale,
      invece, si guarda all’individuo condannato, rispetto al quale la pena
      dovrebbe rappresentare un efficace deterrente per impedire che torni a
      commettere reati. 
     
    
      Nell’ambito
      delle teorie della prevenzione speciale si possono distinguere tre
      ulteriori sotto settori che sono accomunati dalle finalità negative e
      positive che vengono assegnate alla pena. Le finalità positive sono
      quelle che tendono alla trasformazione del comportamento futuro del reo,
      le finalità negative quelle che consentono la neutralizzazione e il
      contenimento della capacità delinquenziale del condannato. Un primo
      filone è quello delle dottrine pedagogiche dell’emenda che, partendo da
      una concezione biblica della sofferenza come strumento per espiare i
      peccati, considerano la pena come uno strumento di rieducazione e di
      recupero morale del condannato. Un secondo indirizzo dottrinario è quello
      della scuola positivistica della Nuova Difesa Sociale (M. Ancel, 1966).
      Partendo dal presupposto antropologico che il delinquente è un essere
      naturalisticamente inferiore, perché portatore di deviazioni genetiche o
      di degenerazioni socio-culturali, tale dottrina concepisce la pena come
      uno strumento scientifico-terapeutico di difesa sociale, attraverso il
      quale favorire l’instaurarsi di una società organica e integrata,
      sottoposta al controllo scientifico anziché moralistico dello Stato.
      Un’ultimo filone teorico della prevenzione speciale è quello della
      differenziazione penale proposta, alla fine del secolo scorso (ma
      abbondantemente riprese in tempi più vicini a noi), dalla new penology
      americana e dal c.d. Programma di Marburgo da Franz von Liszt (L.
      Ferrajoli, 1989, 255). In tale prospettiva, la pena deve differenziarsi
      non a seconda del reato, ma seguendo le caratteristiche della persona del
      condannato, al fine di raggiungere quelle finalità che sono praticabili
      nel singolo caso (ovvero risocializzazione o intimidazione o
      neutralizzazione del reo). 
     
    
      Le
      teorie della prevenzione speciale sono estremamente interessanti per il
      tema del carcere, in quanto convergono tutte su di una concezione del
      delitto come patologia (sociale, morale o naturale) e non come libera
      scelta dell’individuo che lo ha posto in essere. Conseguentemente il
      carcere non viene concepito, come nella prospettiva retributiva, quale
      misura giuridica di sanzione dei reati, ma come uno strumento di
      trattamento differenziato del condannato (cfr. trattamento carcerario),
      attraverso cui giungere alla trasformazione o alla neutralizzazione della
      sua personalità e, in particolare, della sua pericolosità sociale. Tale
      volontà manipolatoria e correzionalistica della personalità del
      condannato si scontra, tuttavia, con una serie di problemi di ordine
      pratico e di ordine morale e giuridico. Sotto il profilo pratico, in
      quanto pare ormai acclarato dall’esperienza plurisecolare della pratica
      carceraria che la pena detentiva non solamente non è in grado di
      rieducare o di risocializzare il condannato, ma ha invece effetti
      esattamente opposti di emarginazione sociale e di "scuola del
      crimine" (cfr. sociologia della vita carceraria). Anche l’effetto
      di intimidazione e di contenimento della pericolosità sociale sembrano
      alquanto limitati se consideriamo gli alti tassi di recidiva riscontrati
      tra i detenuti e la capacità, soprattutto dei criminali più pericolosi,
      di continuare a rappresentare un pericolo per la società anche
      all’interno degli istituti penitenziari (si pensi ai detenuti che hanno
      continuato a dirigere le operazioni della criminalità organizzata durante
      la loro reclusione). Sotto il profilo morale e giuridico, concepire il
      carcere come uno strumento di manipolazione dell’individuo è
      incompatibile con il valore dell’autonomia della persona umana e con il
      principio dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Considerare
      il condannato come un soggetto sostanzialmente inferiore, bisognevole di
      rieducazione o di riabilitazione, significa lederne la dignità umana,
      garantita dal principio della libertà di coscienza dell’individuo.
      Voler "costringere ad essere buoni" rappresenta
      un’affermazione in sé contraddittoria, in quanto repressione ed
      educazione sono difficilmente compatibili. 
     
    
      Tornando
      alle dottrine della prevenzione generale, esse sono a loro volta
      suddivisibili tra quelle della prevenzione generale positiva tramite
      integrazione e quelle della prevenzione generale negativa tramite minaccia
      legale. Le prime sono quelle che "assegnano alle pene funzioni di
      integrazione sociale tramite il generale rafforzamento della fedeltà allo
      Stato nonché la promozione del conformismo delle condotte" (L.
      Ferrajoli, 1989, 263). Si tratta di teorie che valorizzano l’efficacia
      simbolica della pena nel neutralizzare i fattori irrazionali
      dell’indignazione e dell’odio che il reato provoca nella società. In
      tale prospettiva, la sanzione penale svolge un ruolo di rassicurazione dei
      sentimenti collettivi e di riconferma dei principi di solidarietà sociale
      che fondano l’ordinamento delle leggi penali (E. Durkheim, 1997). 
     
    
      Le
      dottrine della prevenzione generale negativa sono invece quelle secondo le
      quali la pena deve servire a limitare la commissione dei reati nella
      generalità dei consociati, o per mezzo della intimidazione provocata
      dall’ "esempio" offerto dall’inflizione della condanna, o
      tramite l’intimidazione prodotta dalla "minaccia" della pena
      contenuta nella legge. Anche queste teorie non sono esenti da critiche, in
      particolare da quella kantiana per la quale nessuna persona può essere
      trattata come un mezzo per finalità sociali. Nella prospettiva della
      prevenzione generale, infatti, potrebbe essere legittimata anche la
      condanna dell’innocente, se questa risultasse efficace nel fornire un
      esempio o una minaccia funzionali alla intimidazione dei consociati. Per
      quanto riguarda il carcere, occorre chiedersi se esso possa essere
      considerato un efficace strumento di prevenzione generale dei reati. Tale
      domanda è probabilmente negativa per ciò che concerne l’efficacia
      "reale" della pena detentiva, in quanto molte ricerche hanno
      dimostrato, in molti paesi e in diversi periodi storici, come alti tassi
      di carcerazione non abbiano ridotto il livello di criminalità. Dal punto
      di vista, invece, della funzione "simbolica" la risposta deve
      essere probabilmente più problematica, in quanto il carcere (peraltro
      minacciato, più che realmente eseguito) ancora oggi sembra rispondere
      soprattutto alle esigenze del sistema politico di rassicurare l’opinione
      pubblica rispetto agli attacchi portati alla sicurezza sociale dalla
      criminalità. 
     
    
      Tra
      le teorie della prevenzione deve essere segnalata, in ultimo, una teoria
      che pur inserendosi nel filone delle dottrine utilitaristiche ne capovolge
      i presupposti generali. Si tratta della teoria elaborata da Luigi
      Ferrajoli, secondo la quale l’utilità della pena non va considerata, ex
      parte principis, come quella "della massima utilità possibile da
      assicurare alla maggioranza formata dai non devianti (...)", ma, ex
      parte populi, quella "che commisura lo scopo [della pena] alla minima
      sofferenza necessaria da infliggere alla minoranza formata dai
      devianti" (L. Ferrajoli, 1989, 248). In tale prospettiva, la pena non
      serve tanto a limitare la commissione di atti criminali, quanto a limitare
      la violenza che l’atto criminale introduce nella società, in primo
      luogo la reazione irrazionale che le vittime del reato o il pubblico
      possono manifestare. Seguendo tale linea argomentativa, anche il carcere
      può trovare una circoscritta legittimazione come strumento di
      attenuazione della violenza nella società, a patto però che limiti
      rigorosamente la propria carica afflittiva, in quanto la sua utilità va
      misurata anche e soprattutto rispetto alla minoranza che subisce tale
      pena, e sia irrogato solamente per quei gravi delitti che suscitano
      effettivamente forte sdegno e riprovazione sociale. 
     
    
      Vediamo
      ora quali sia stata l’influenza delle varie teorie della pena nella
      cultura penalistica italiana, ricordando che dal punto di vista
      strettamente giuridico la nostra Costituzione non ha preso posizione sulla
      funzione della pena, essendo prevalsa una concezione multi-funzionale
      della sanzione penale (cfr. diritto penitenziario). 
     
    
      I
      forti elementi moralistici presenti in tutte le teorie retributive, hanno
      prodotto nei loro confronti un accentuato interesse da parte soprattutto
      della cultura penalistica di matrice cattolica, la quale peraltro ha
      mantenuto un atteggiamento spesso critico verso tali teorie (L. Eusebi,
      1987, 1998; E. Wiesnet, 1987). Teorie che, dopo essere state a lungo
      ignorate dal pensiero laico dominante negli anni Sessanta e Settanta (V.
      Mathieu, 1978), hanno avuto un periodo di netta ripresa sull’onda del
      movimento americano del teorico Von Hirsch chiamato del Just Desert (il
      giusto merito), anche in seguito al fallimento operativo delle strategie
      di politica criminale fondate sui principi della prevenzione penale (L.
      Eusebi, 1983; F. Zanuso, 1998). Le teorie della retribuzione hanno, da
      parte loro, finito per riconsiderare i loro presupposti metafisici,
      avvicinandosi per certi aspetti ad alcune acquisizioni delle teorie della
      prevenzione generale, come è avvenuto per delle dottrine del c. d.
      expressionism americano, dottrine per le quali la pena svolge
      essenzialmente una funzione simbolica di "esprimere" la condanna
      sociale della condotta del reo e di ribadire il confine tra comportamenti
      leciti ed illeciti (C. Sarzotti, 1996). La stessa distinzione tra
      retribuzione e prevenzione si è attenuata, almeno da un punto di teoria
      della pena, in autori come Herbert L. Hart che hanno sostenuto la validità
      della teoria preventiva rispetto allo scopo generale della pena e la
      validità della teoria retributiva sul piano della distribuzione della
      pena, ovvero di quei principi retributivi che legittimano l’inflizione
      della pena al solo colpevole, vale a dire a chi l’ha meritata, e in
      misura proporzionata alla gravità del reato commesso (H. L. Hart, 1981).
      Si è giunti sino alla decisa negazione della divisione
      prevenzione-retribuzione, in quanto tale contrapposizione sarebbe assurda,
      "perché le opposte soluzioni non riguardano la stessa questione.
      Quando si sostiene che si punisce per prevenire crimini, con ciò si
      risponde alla domanda: qual è lo scopo della legislazione penale? Quando
      si dice che si punisce perché il reo è incorso in una colpa
      giuridico-morale, con ciò si risponde alla domanda: con quale motivazione
      giuridico-morale si infligge la pena?" (A. Ross, 1972, 78-79). 
     
    
      Le
      teorie relativistiche della prevenzione penale hanno avuto senza dubbio il
      loro massimo periodo di sviluppo nel corso del costituirsi del Welfare
      State italiano e ad essa si è ispirata la riforma dell’ordinamento
      penitenziario del 1975. In particolare, sono state dibattute le tesi
      dell’indirizzo criminologico della Nuova Difesa Sociale (F. Cavalla,
      1979), in relazione anche alla sua compatibilità con la tradizionale
      dottrina cattolica della sanzione penale (G. Bettiol, 1964). Sull’onda
      dei movimenti d’oltreoceano di contestazione delle politiche criminali
      fondate sui principi preventivi, anche in Italia le teorie della
      prevenzione (soprattutto di quella speciale) sono state poste in
      discussione, a partire dai primi anni Ottanta (M. Pavarini, 1983). In
      particolare, di fronte al permanere di alti tassi di recidiva e
      dell’evidente funzione emarginante del carcere è stato da più parti
      posto in dubbio lo scopo rieducativo della pena citato nell’art. 27
      della Costituzione, scopo che ha ispirato la riforma penitenziaria e
      l’introduzione nel nostro ordinamento dei benefici premiali per i
      detenuti (cfr. diritto penitenziario). A queste critiche negative,
      peraltro, non sono corrisposte proposte teoriche e culturali che abbiano
      tentato di "ridare senso" alla pena del carcere, in una
      prospettiva non meramente retributiva o contenitiva. 
     
    
    
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      3.
      Percorso sulla sociologia della vita carceraria 
      Il processo di consolidamento dell’istituzione carceraria ha reso
      possibile anche lo sviluppo di indagini che hanno analizzato, con gli
      strumenti della ricerca sociologica e antropologica, la vita della comunità
      carceraria. La ricerca in Italia in questo settore ha incontrato
      tradizionalmente numerose difficoltà dovute alla "chiusura" del
      mondo penitenziario. Tuttavia, soprattutto a partire dagli anni Settanta,
      sono state intraprese alcune ricerche che si sono ispirate ad alcune
      teorizzazioni provenienti dalla sociologia delle istituzioni. Da questo
      punto di vista, vanno segnalati i lavori di Donald Clemmer (tr. it.
      parziale, 1997), Gresham Sykes (tr. it. parziale, 1997) ed Erving Goffman
      (1968) che hanno certamente contribuito a sviluppare la sociologia della
      vita carceraria in Italia con alcune ricerche che seppure risalenti a
      periodi non recentissimi (in particolare, le ricerche di Clemmer risalgono
      agli Stati Uniti degli anni Trenta, mentre il lavoro più importante di
      Sykes è su un carcere di massima sicurezza dello Stato della Virginia
      negli anni Cinquanta), hanno elaborato le principali categorie teoriche
      con le quali analizzare i risultati della ricerca empirica. È il caso, ad
      esempio, del concetto di "prigionizzazione del detenuto" di
      Clemmer, con il quale il sociologo americano designa quel "processo
      graduale, lento, progressivo nel tempo, ma caratterizzato da fasi alterne
      e stadi differenziati e talora irreversibile, che culmina con
      l’identificazione più o meno completa con l’ambiente, con
      l’adozione cioè da parte del detenuto dei costumi, della cultura e del
      codice d’onore del carcere" (E. Santoro, 1997, 40). Oppure della
      nozione di "istituzione totale", entro la quale rientra non solo
      il carcere, ma anche altre istituzioni chiuse come l’ospedale
      psichiatrico, definita da Goffman come quell’istituzione nella quale
      "1. tutte le fasi della vita sono vissute nello stesso luogo e sotto
      il controllo di una sola autorità; 2. ogni fase dell’attività
      quotidiana si svolge alla presenza immediata di un folto gruppo di persone
      che sono trattate nello stesso modo e che devono eseguire tutte assieme le
      stesse azioni; 3. tutte le fasi dell’attività quotidiana sono
      strettamente programmate: un’attività termina quando ne comincia
      un’altra, con l’intera sequenza imposta dall’alto, da un esplicito
      sistema formale di regole e da un corpo di funzionari; 4. le varie attività
      imposte compongono un singolo piano disegnato per conseguire gli scopi
      ufficiali dell’istituzione" (E. Santoro, 1997, 47). 
     
    
      Nella
      produzione più recente va segnalata l’analisi del sistema carcerario
      americano operata da Nils Christie (1996). Lo studioso scandinavo ha
      introdotto anche nel dibattito italiano il tema della privatizzazione
      delle carceri, analizzando i mutamenti che tale fenomeno ha provocato nel
      regime penitenziario che per primo ha sperimentato questa nuova formula
      organizzativa. L’instaurarsi di un vero e proprio sistema del business
      penitenziario, rispetto al quale il detenuto diventa il consumatore del
      servizio detenzione, lo sviluppo di un settore imprenditoriale che offre
      sul mercato prodotti per la sicurezza e per l’amministrazione
      carceraria, lo snaturamento del ruolo degli operatori penitenziari che da
      pubblici funzionari si trasformano in dipendenti che rispondono al proprio
      datore di lavoro privato; si tratta degli elementi principali di un
      processo di privatizzazione che, pur essendo oggi limitato ad alcuni Stati
      confederali degli Stati Uniti, probabilmente non mancherà di svolgere una
      certa influenza anche in Europa nel prossimo futuro (alcuni tentativi di
      privatizzazione sono stati sperimentati in Francia). In particolare,
      sembra di scorgere in tale processo la tendenza a considerare sempre di più
      la prigione come una struttura di mero contenimento delle persone che
      hanno commesso reati e che rappresentano un pericolo e un peso economico
      per la società. Si tratta di una popolazione carceraria composta da
      soggetti emarginati socialmente e culturalmente, di particolari
      provenienze etniche (per lo più neri e ispanici), inadatti ad un mercato
      del lavoro sempre più flessibile e, quindi, esigente in termini di
      capacità di adattamento lavorativo e di assorbimento dello stress da
      licenziamento. 
     
    
      Per
      quanto riguarda il sistema penitenziario italiano, è difficile affermare
      se si stia allineando a questa tendenza. Le ricerche effettuate sulla vita
      carceraria nel nostro paese si sono soffermate per lo più su aspetti
      specifici dell’universo penitenziario, senza affrontare un’analisi
      complessiva dell’istituzione totale. Un altro settore di pubblicazioni
      sul carcere ha invece privilegiato la ricostruzione diretta e a-teorica
      delle esperienze degli attori del carcerario, ponendosi in una prospettiva
      di denuncia culturale e politica piuttosto che in una dimensione più
      strettamente di ricerca socio-antropologica. 
     
    
      Rispetto
      alle ricerche su temi specifici si possono ricordare le ricerche
      effettuate sui temi del lavoro penitenziario, dei detenuti stranieri,
      delle recluse negli istituti femminili, della salute in carcere, della
      detenzione di persone sieropositive. L’insieme di queste ricerche ha
      dimostrato come la concreta realtà istituzionale del carcere non abbia
      permesso una soddisfacente tutela di quei diritti dei detenuti che sono
      astrattamente enunciati nell’ordinamento penitenziario (D. Zolo, E.
      Santoro, 1997) (cfr. diritto penitenziario). 
     
    
      La
      riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 ha posto, ad esempio, il
      lavoro intramurario ed extramurario come il principale generatore di
      diritti e di opportunità di reinserimento sociale per il detenuto. Tale
      riforma è rimasta peraltro in gran parte sulla carta per problemi di
      carattere burocratico, di restrizione dei fondi ministeriali e di scarsa
      sensibilità della società civile. Analizzando in profondità i
      meccanismi che conducono alla non garanzia del lavoro per i detenuti si è
      potuto constatare, inoltre, una notevole disuguaglianza tra categorie di
      detenuti (L. Berzano, 1994). In particolare, è stato possibile
      individuare due variabili principali che sembrano incidere pesantemente
      sulle possibilità del detenuto di reinserirsi (o inserirsi per la prima
      volta) nel mondo del lavoro: le risorse personali del detenuto e
      l’accessibilità a risorse della rete sociale in cui egli è inserito. A
      seconda se tali risorse possano essere considerate deboli o forti, è
      stata elaborata una classificazione delle modalità con le quali il
      detenuto vive l’esperienza carceraria. Ad un estremo di tale
      classificazione troviamo quei detenuti che vivono il carcere come una
      "parentesi" della loro esistenza, parentesi non eccessivamente
      traumatica "e tale da non pregiudicare gravemente un futuro
      riequilibrio della propria biografia". Si tratta di quella quota di
      detenuti che hanno mantenuto rapporti con la famiglia d’origine, che
      hanno già esercitato lavori regolari prima della detenzione e che, a
      causa della loro giovane età, sono alle loro prime esperienze detentive.
      All’altro estremo della scala sociale della popolazione detenuta,
      troviamo invece coloro la cui condizione carceraria viene definita come
      "terminale dell’esclusione". Si tratta di una categoria di
      persone che hanno superato i trent’anni, con alle spalle oltre cinque
      carcerazioni, con legami familiari molto precari e che prima della
      detenzione non hanno mai lavorato o hanno esercitato solamente occupazioni
      saltuarie e irregolari. Tali soggetti hanno molta più difficoltà non
      solamente a trovare un lavoro intramurario, ma anche ad accedere alle
      misure premiali alternative alla detenzione. Questa situazione innesca un
      processo di etichettamento sociale fondato sullo stigma dell’ex detenuto
      che pone seri vincoli (per non dire una quasi impossibilità) al processo
      di reinserimento sociale. "La gravità dello status di questa (...)
      condizione carceraria è nell’essere quasi sempre una "strada senza
      ritorno". In essa i tratti prevalenti sono la destrutturazione della
      biografia dei detenuti e la loro conseguente sfiducia. Cadono le speranze,
      gli obiettivi del passato, anche quelli dei quali già prima del carcere
      si rinviava sine die la realizzazione. In questa ultima forma sociale del
      carcere convivono drammaticamente tutti gli aspetti dei processi di
      emarginazione: la condizione carceraria come sindrome della esclusione
      finale" (L. Berzano, 1994, 131). 
     
    
      In
      quest’ultima categoria di detenuti sembrano collocarsi la maggioranza
      dei detenuti di nazionalità straniera (W. Piroch, M. R. Mielke, A.
      D’Ottavi, D. Lucchini, 1992). Si tratta di una quota di popolazione
      detenuta che è andata crescendo di dimensione negli ultimi anni (in
      Italia dal 10,7% del 1987 al 22,3% del 1997), raggiungendo la massima
      concentrazione negli istituti di pena metropolitani dove la percentuale di
      detenuti non italiani supera ormai in molti casi il quaranta per cento. La
      tutela dei diritti di questi detenuti appare molto problematica; essi
      vengono di solito collocati in apposite sezioni divise per nazionalità,
      al fine di evitare che si possano consumare in carcere vendette che hanno
      la loro radice nelle rivalità esistenti negli ambienti
      dell’immigrazione clandestina. I detenuti stranieri con grande difficoltà
      riescono ad accedere ai benefici premiali previsti dalla legge anche
      quando avrebbero i requisiti per poterli ottenere, non potendo di solito
      avvalersi di un’assistenza tecnico-giuridica di qualità. Anche il
      regime penitenziario interno, pensato e progettato per detenuti italiani,
      presenta numerosi problemi per questi detenuti: dal regime alimentare alla
      possibilità di esercitare le pratiche del proprio culto religioso, dalla
      comunicazione con il personale di custodia per problemi di lingua alle
      condizioni igieniche delle celle, spesso rese insoddisfacenti dal
      sovraffollamento e dalla promiscuità di soggetti che provengono da
      culture che non conoscono gli standard di civiltà europei. 
     
    
      Un
      altro problema che tocca i detenuti stranieri, ma che riguarda tutta la
      popolazione reclusa, è quello della tutela della loro salute. La
      condizione detentiva di per sé è una fonte di sofferenza che va al di là
      della semplice privazione della libertà di movimento. In particolare,
      sono stati evidenziati i seguenti problemi di carattere psicologico e
      sanitario: 1. l’erosione dell’individualità, il danneggiamento cioè
      della capacità individuale di pensare e agire in modo autonomo; 2. la
      deculturazione, ossia la perdita dei valori e della attitudini che il
      soggetto aveva prima dell’ingresso in carcere; 3. danni fisici e
      psicologici che affliggono l’individuo durante il periodo della sua
      permanenza in carcere; 4. l’isolamento, la carenza cioè di interazione
      sociale con il mondo esterno e con gli altri individui chiusi in carcere;
      5. la privazione degli stimoli, con adattamento alla povertà
      dell’ambiente fisico che circonda l’individuo ed al ritmo monotono e
      lento della vita istituzionale; 6. l’estraniamento, ovvero l’incapacità
      di adeguarsi alle novità dell’ambiente esterno (tecnologiche, sociali,
      etc.) una volta conclusa l’esperienza del carcere (F. Ceraudo, 1988).
      Uno dei medici penitenziari francesi di maggior esperienza nel settore, ha
      analizzato i principali danni alla salute che la detenzione comporta (D.
      Gonin, 1994): danni visivi dovuti alla protratta impossibilità di
      accedere a prospettive di sguardo in campo lungo (l’orizzonte del
      detenuto è sempre limitato da mura), danni all’apparato digerente e
      dentario, nonché notevole incidenza di patologie dermatologoche, dovute
      ad una alimentazione spesso troppo monotona e alla condizione di continuo
      stress che la detenzione comporta, compromissione del sistema respiratorio
      a causa della lunga permanenza in locali spesso angusti e con
      insufficiente aerazione, disturbi del sonno dovuti all’impossibilità di
      godere di regolari periodi di quiete notturna. A questo tipo di patologie
      causate da fattori esterni al detenuto, si devono aggiungere inoltre
      quelle provocate dalla tendenza, più o meno inconscia, del recluso stesso
      ad autopunirsi, infliggendosi delle torture che possono arrivare, nei casi
      estremi, al suicidio. 
     
    
      Legata
      ai danni di carattere sanitario provocati dalla detenzione, esiste inoltre
      la questione della sessualità dei reclusi. Da tale punto di vista, è
      noto come il desiderio sessuale e la mancanza di una compagnia di sesso
      opposto sia uno degli aspetti più dolorosi della detenzione e che
      contribuiscono maggiormente a destrutturare la personalità del
      prigioniero. In Italia, diversamente da molti paesi europei, non sono
      state introdotte misure, quali ad esempio le c. d. visite coniugali, atte
      ad alleviare tale tipo di sofferenza. Questo ha comportato il persistere
      di pratiche omosessuali all’interno degli istituti che rappresentano un
      problema soprattutto per la diffusione del virus HIV. 
     
    
      Il
      tema dell’AIDS in carcere è stato uno dei temi più studiati
      nell’ambito della sociologia della vita carceraria in Italia non solo
      per la sua indubbia drammaticità, ma anche per le contraddizioni del
      nostro sistema penitenziario che il fenomeno AIDS ha contribuito a far
      emergere (A. R. Favretto, C. Sarzotti, 1999). I primi casi di detenuti
      sieropositivi vennero scoperti in Italia nella seconda metà degli anni
      Ottanta, suscitando una reazione di panico e di terrore, soprattutto
      nell’ambito del personale di custodia. A questa prima fase di reazione,
      che favorì l’espulsione indiscriminata dei detenuti sieropositivi dal
      circuito penitenziario con l’emanazione della legge 222 del 1993 (cfr.
      diritto penitenziario), ha fatto seguito una elaborazione più articolata
      da parte dell’amministrazione penitenziaria dei problemi della
      sieropositività in carcere, con la costituzione in molti istituti di
      sezioni apposite per reclusi colpiti dall’HIV (P. Buffa, C. Sarzotti,
      1998). I problemi che questo tipo di detenuti introducono nella vita
      detentiva sono innumerevoli e hanno contribuito a sottolineare le carenze
      organizzative degli istituti di pena. Tutti i servizi che il carcere offre
      ai propri "utenti" sono stati messi a dura prova dalla presenza
      di reclusi sieropositivi: da quello sanitario (cure adeguate ed
      aggiornate) a quello igienico-alimentare (pulizia delle celle e
      alimentazione differenziata), da quello assistenziale-psicologico
      (sostegno psico-terapeutico alle persone che scoprono di essere
      sieropositive in carcere) a quello trattamentale-risocializzante
      (costruzione di rapporti con le agenzie esterne che sappiano garantire
      percorsi di reinserimento per i detenuti rilasciati). La questione della
      prevenzione della diffusione dell’AIDS ha posto all’ordine del giorno,
      inoltre, due fenomeni sommersi e spesso negati dall’istituzione: i
      rapporti sessuali e il consumo di sostanze stupefacenti per via iniettiva
      all’interno degli istituti. La semplice proibizione di questi
      comportamenti con i divieti del regolamento penitenziario non li ha certo
      fatti venir meno nella realtà degli istituti (B. Magliona, C. Sarzotti,
      1996). L’immagine del detenuto sieropositivo ha, inoltre, fatto emergere
      gli elementi contraddittori della cultura carceraria degli operatori
      penitenziari della custodia e del settore trattamentale (C. Sarzotti,
      1999). In particolare, la figura del detenuto sieropositivo, metà malato
      e metà criminale, ha evidenziato le differenze tra un "codice
      paterno" della custodia che considera la pena come uno strumento di
      retribuzione del reato e che si muove seguendo la logica militare della
      sicurezza della detenzione, e un "codice materno" del
      trattamento che vede l’operatore (assistente sociale, psicologo,
      educatore etc.) collocarsi ambiguamente "dalla parte" del
      recluso per poter intraprendere un percorso d’aiuto che molte volte non
      è rispettoso della sua autonomia e della sua libertà di scelta. Del
      resto, uno degli elementi più studiati dei rapporti tra detenuto e
      operatore carcerario è quello dell’ambiguità di un’istituzione che,
      da un lato, deve imporre la propria autorità con gli strumenti
      dell’ordine e della sicurezza e, dall’altra, deve cercare di operare
      un cambiamento interiore del condannato attraverso la sua collaborazione e
      modalità d’approccio "amichevoli" (G. Mosconi, 1998). 
     
    
      Un
      altro aspetto indagato della condizione carceraria è quello delle donne
      recluse (G. Parca, 1973; E. Campelli, T. Pitch, F. Faccioli, V. Giordano,
      1992; N. Policek, 1992). Si può parlare di una condizione particolare, in
      quanto le donne sono ospitate in istituti appositi e sono tradizionalmente
      in numero molto inferiore alla popolazione reclusa di sesso maschile
      (circa il 5%) e quindi non si presentano problemi di sovraffollamento.
      Questa situazione di "privilegio" rispetto alle condizioni
      detentive è, peraltro, aggravata dalla posizione delle recluse madri che
      possono tenere con sé i figli solamente sino all’età di tre anni (art.
      18 del regolamento penitenziario). 
     
    
      Passando
      al secondo filone di ricerche prodotte in chiave in senso lato sociologica
      sulle condizioni di vita carceraria, esso possono a loro volta essere
      suddivise in due grandi tipi: le memorie dei carcerati e la denuncia
      ideologica delle aberrazioni dell’istituzione carceraria. 
     
    
      Il
      primo tipo di pubblicazioni ha precedenti illustri, si pensi a "Le
      mie prigioni" di Silvio Pellico e ai "Quaderni dal carcere"
      di Antonio Gramsci, e scaturisce per lo più dall’esperienza carceraria
      di qualche personaggio delle classi sociali colte che per qualche
      vicissitudine abbia dovuto trascorrere un periodo della propria vita in
      detenzione. Esemplari recenti di questo tipo di scritti sono quelli di
      Adriano Sofri (1993) e Vittorio Cusani. 
     
    
      Il
      secondo filone, invece, ha preso avvio in Italia a partire dagli anni
      Settanta, sull’onda della protesta politica di denuncia della società
      capitalistica. Tale filone ha prodotto sia delle vere e proprie ricerche
      sui vari aspetti del mondo carcerario (A. Ricci, G. Salierno, 1971) e
      sulla funzione più complessiva del carcere nella società (D. Melossi,
      1988; G. Mosconi, 1982), sia saggi più propriamente ideologici di
      ricostruzione dei processi culturali e repressivi che hanno portato il
      carcere ad assumere un ruolo centrale rispetto al controllo sociale della
      società disciplinare (E. Gallo, V. Ruggiero, 1989; AA.VV, 1980; M. Perrot,
      1980). 
     
    
    
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      4.
      Percorso sul diritto penitenziario 
      L’esecuzione della sanzione penale è stata interessata, negli
      ultimi decenni e in tutti i paesi occidentali, da quel processo giuridico
      evolutivo che suole chiamarsi di giurisdizionalizzazione. Con questa
      espressione si vuole intendere quella tendenza a controllare in misura
      sempre maggiore con strumenti giuridici, e in particolare attraverso
      l’operato di apposite categorie di giudici, le modalità con le quali
      viene eseguita la pena. Si tratta di una tendenza relativamente recente,
      in quanto tali modalità sono state, dall’avvento della modernità,
      tradizionale appannaggio del potere esecutivo (B. Magliona, C. Sarzotti,
      1993). Un maggior controllo giuridico sulle modalità di esecuzione della
      sanzione penale ha significato in primo luogo una maggiore attenzione ai
      diritti dei detenuti, in quanto il carcere si è rivelato, da un lato, la
      pena più utilizzata e, dall’altro, la forma sanzionatoria che ha dato
      luogo in maggior misura a prevaricazioni, discriminazioni e abusi nei
      confronti delle persone recluse. Fenomeni che sono stati favoriti senza
      dubbio dal carattere separato e autoritario dell’istituzione carcere,
      carattere che ha spesso ostacolato la trasparenza e il controllo
      dell’opinione pubblica sulle attività che si svolgono all’interno
      della società intramuraria. 
     
    
      Il
      processo attraverso il quale il diritto, come strumento dello stato
      democratico, ha cercato di regolare le modalità di esecuzione della pena
      detentiva si è avvalso, oltre che delle norme di diritto penitenziario
      interne ai vari Stati nazionali, anche della produzione normativa di
      organismi internazionali che hanno emanato direttive e raccomandazioni. In
      particolare, tali organismi si sono occupati della questione dei diritti
      umani delle persone recluse, avendo come punto di riferimento ideale la
      Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del
      1948. Nell’ambito dei diritti umani sono stati fatti rientrare una serie
      molto ampia di diritti che sono stati evidenziati da istituzioni
      internazionali e, in particolare, dal Consiglio d’Europa che, sin dal
      1987, ha emanato le "Regole penitenziarie europee", attraverso
      le quali sono state stabilite le regole minime per il trattamento umano
      dei detenuti (P. Comucci, A. Presutti, 1989; M. Pastore, 1996). Il
      Consiglio non si è limitato ad enunciare dei principi generali, ma ha
      anche verificato attraverso delle ispezioni in diversi paesi europei il
      rispetto (molto spesso non) effettivo di tali principi (A. Cassese, 1299). 
     
    
      Accanto
      agli strumenti giuridici esistenti nel diritto internazionale sui diritti
      umani dei detenuti, esistono le norme emanate dai singoli ordinamenti
      penitenziari nazionali. In questa sede ci concentreremo sull’ordinamento
      italiano che ha come suo fondamento giuridico essenziale il riferimento
      normativo dell’art. 27, terzo comma della nostra Carta Costituzionale
      che così recita: "le pene non possono consistere in trattamenti
      contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del
      condannato". Pur non prendendo posizione netta per alcuna delle
      diverse funzioni che sono state attribuite alla sanzione penale,
      l’assemblea Costituente decise tuttavia di fare un esplicito richiamo
      alla funzione rieducativa anche allo scopo di segnare maggiormente la
      distanza dal precedente ordinamento fascista che aveva concepito la pena
      in termini di pura retribuzione e difesa sociale (G. Micali, 1991). Questa
      prevalenza della funzione rieducativa e risocializzante della pena è
      stata in seguito ribadita anche dalla giurisprudenza della Corte
      costituzionale che, pur oscillando nel corso degli anni, ha comunque
      sempre ribadito che tali funzioni sono preminenti rispetto agli elementi
      di difesa sociale e di prevenzione che fanno correre "il rischio di
      strumentalizzare l’individuo a fini generali di politica criminale
      (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni
      collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il
      singolo all’esemplarità della sanzione" (E. Gallo, 1994). 
     
    
      Muovendo
      dal dettato costituzionale, peraltro a lungo disatteso, la cultura
      penalistica italiana cominciò nel corso degli anni Sessanta a reclamare
      un adeguamento dell’ordinamento penitenziario rimasto ancorato alla
      situazione normativa prerepubblicana. Una maggiore sensibilità ai fattori
      sociali, economici e culturali che stanno spesso alla base dei fenomeni di
      criminalità e la diffusione nel sistema politico, sia nei partiti di
      governo che d’opposizione, di un’ideologia solidaristica che vedeva
      nel criminale più che un soggetto da cui difendersi una persona da
      reintegrare nella società, favorirono l’emanazione della riforma
      dell’ordinamento penitenziario con la legge 26 luglio 1975, n. 354 (G.
      Neppi Modona, 1977). 
     
    
      Nella
      prospettiva della riforma, la pena perde la sua principale valenza di
      repressione dei reati, ma si fa carico della "responsabilità
      collettiva" che ha portato l’individuo a violare la legge penale e
      deve testimoniare dell’impegno positivo che lo Stato deve mettere in
      atto per il suo reinserimento sociale. L’esigenza
      "dell’addolcimento" delle pene era, inoltre, dovuta alla
      permanenza in vigore di un codice penale come quello Rocco del 1932 che
      non era stato possibile riformare e che presentava indubbie durezze
      sanzionatorie. La riforma del 1975 è dunque ispirata al principio
      dell’osservazione scientifica della personalità e delle caratteristiche
      socio-culturali del detenuto e dalla conseguente individualizzazione del
      trattamento carcerario. In altri termini, il legislatore del 1975 ha
      ritenuto che ogni condannato debba essere attentamente seguito nel suo
      percorso riabilitativo e che per esso debba essere approntato un personale
      programma risocializzativo che concepisca la pena come uno strumento
      positivo di rieducazione (F. Bricola, 1977; V. Grevi, 1988 e 1994). 
     
    
      Al
      di là degli strumenti d’intervento non strettamente giuridici previsti
      dalla riforma del 1975 che verranno trattati in seguito (cfr. trattamento
      carcerario), occorre brevemente ricordare quali siano le misure introdotte
      da tale riforma e in particolare le c.d. pene alternative al carcere.
      Partendo, infatti, dal presupposto che il carcere è un’istituzione
      avente inevitabilmente effetti negativi sulla personalità e sui legami
      sociali del condannato e deve pertanto rappresentare l’extrema ratio
      della sanzione penale, il legislatore ha ritenuto utile prevedere delle
      pene alternative alla detenzione, nel senso che si possono scontare al di
      fuori degli istituti di pena (T. Padovani, 1981; E. Dolcini, C. E. Paliero,
      1988). In altri termini, si è ritenuto che per una serie di reati di
      minore gravità e sulla base di un giudizio di non pericolosità sociale
      del condannato, sia possibile che determinate pene non siano scontate in
      carcere. 
     
    
      Tali
      pene alternative al carcere sono le seguenti: 
     
    
      
        - 
          
L’affidamento
          in prova al servizio sociale e l’affidamento in casi particolari,
          viene concesso al fine di favorire il reinserimento sociale dei
          condannati attraverso l’assistenza e il controllo dei Centri di
          Servizio Sociale per Adulti, organismi creati ad hoc per la gestione
          dei percorsi di reinserimento. Il presupposto di questa misura è che
          si tratti di condannati che non presentano pericolosità sociale e per
          i quali i rischi di recidiva siano molto bassi. Oltre a tale requisito
          occorre anche che il condannato mostri disponibilità e idoneità alla
          misura alternativa attraverso un consenso non espresso solamente in
          termini formali. Nel corso del periodo di prova il condannato è
          scarcerato, ma deve sottoporsi a precisi obblighi, prescrizioni e
          divieti che riguardano i suoi spostamenti sul territorio, il lavoro
          svolto, le frequentazioni sociali etc. La misura può essere revocata
          qualora tali prescrizioni non siano rispettate. L’affidamento in
          casi particolari è rivolto, invece, specificamente ai condannati
          tossicodipendenti o alcoldipendenti. È applicabile qualora il
          condannato, al momento dell’esecuzione della pena, si stia
          sottoponendo ad un trattamento terapeutico di riabilitazione o quando
          egli dichiari la sua volontà di sottoporsi a tale trattamento. In
          tali casi, il Tribunale di Sorveglianza concorda con il soggetto che
          ha in cura il condannato (Ser.T. o comunità terapeutica privata) un
          programma terapeutico che dovrà essere rispettato per evitare la
          revoca della misura. Il presupposto del provvedimento in questo caso
          non è la mancata pericolosità sociale del soggetto, in quanto si
          ritiene che tale pericolosità sia strettamente legata al suo stato di
          tossicodipendenza. Peraltro l’affidamento non può essere concesso
          per più di due volte, al fine di evitare una strumentalizzazione
          della misura da parte di persone tossicodipendenti che non possiedano
          una sincera volontà di curarsi.  
       
     
    
      
        La
        semilibertà è un istituto che ha come finalità quella di favorire il
        reinserimento sociale del condannato, attraverso una graduale riduzione
        della pena. In tale prospettiva, la misura consiste nella liberazione
        del condannato durante il giorno al fine di svolgere "attività
        lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale".
        Il condannato deve dunque rientrare in carcere per trascorrervi la notte
        e nel corso della giornata deve seguire le prescrizioni che il Tribunale
        di Sorveglianza stabilisce: rispettare gli orari di lavoro, frequentare
        solo determinate persone, non abbandonare la propria dimora, etc. La
        semilibertà è di regola concedibile solo dopo aver scontato metà
        della pena, in seguito alla verifica che il percorso di reinserimento
        stia dando esito positivo. Si tratta quindi di uno strumento per
        accelerare tale percorso, attraverso una gradualità delle forme
        detentive che possa anche riabituare il detenuto allo stato di libertà. 
     
    
      
        La
        detenzione domiciliare (introdotta non dalla riforma del 1975, ma dalla
        successiva legge 10 ottobre 1986, n. 663, c. d. "legge Gozzini")
        consiste in una pena detentiva da eseguirsi però al di fuori
        dell’istituzione carceraria. L’individuo condannato deve, infatti,
        risiedere "nella propria abitazione o in altro luogo di privata
        dimora, ovvero in luogo pubblico di cura e di assistenza". Di
        regola, essa può essere concessa solo ad alcuni soggetti che vengono
        considerati "deboli" ed ha quindi finalità prettamente
        umanitarie: donna incinta o che ha con sé figli inferiori ai tre anni,
        malati gravi che hanno bisogno di costanti contatti con i presidi
        sanitari territoriali, ultrasessantacinquenni inabili anche
        parzialmente, giovani inferiori ai 21 anni per comprovate esigenze di
        studio, di lavoro, di salute, di famiglia. 
     
    
      
        La
        libertà anticipata ha una finalità a carattere premiale di riduzione
        della pena detentiva. Il legislatore ha concesso a chiunque stia
        scontando una pena detentiva, dando "prova di partecipazione
        all’opera di rieducazione", di ottenere la riduzione della pena
        di 45 giorni per ogni semestre di detenzione effettivamente eseguita. La
        partecipazione al progetto rieducativo è stata interpretata dalla
        prassi giudiziaria come la permanenza della buona condotta del detenuto
        nella vita carceraria, desumibile dal non essere stato oggetto di
        rapporti disciplinari e dall’aver partecipato alle attività
        intramurarie. Tale prassi ha reso funzionale l’istituto della libertà
        anticipata soprattutto rispetto ai fini di un maggior controllo degli
        stabilimenti di pena. 
     
    
      Esistono
      inoltre altre misure alternative alla detenzione, quali i permessi premio,
      le licenze e il lavoro all’esterno, che hanno la finalità di evitare il
      totale isolamento del condannato dalla vita sociale provocato dal carcere,
      favorendo in tal modo il suo graduale reinserimento nel mondo della
      famiglia e del lavoro. 
     
    
      Le
      misure alternative al carcere sono state introdotte come istituti che
      avevano come presupposto un periodo di detenzione nel quale il condannato
      doveva essere osservato per elaborare una prognosi di pericolosità
      sociale. Tale presupposto è stato, tuttavia, progressivamente abbandonato
      e oggi alle misure alternative si può accedere anche prima di essere
      entrati in carcere, in quanto si è ritenuto che l’esperienza detentiva,
      per alcune categorie di condannati, sia comunque da evitare per i suoi
      connotati di stigmatizzazione sociale e di esposizione al contatto con la
      criminalità professionale (cfr. sociologia della vita carceraria). 
     
    
      Ma
      quali sono gli organi che sono chiamati ad applicare questo insieme di
      normative? La riforma del 1975 ha istituito una serie di organi a cui è
      stata assegnata la competenza a concedere i benefici premiali, a
      sorvegliare l’andamento della vita degli istituti di pena e gestire i
      percorsi sanzionatori al di fuori del circuito carcerario. Oltre al Centro
      Servizio Sociale per Adulti che, come si è detto, ha il compito di
      presiedere al controllo dell’effettuazione delle misure alternative,
      hanno particolare importanza due organi giurisdizionali: il Magistrato di
      Sorveglianza e il Tribunale di Sorveglianza. 
     
    
      Il
      primo è un giudice monocratico che possiede i seguenti compiti: vigilare
      sugli istituti di pena in modo da controllare che la pena detentiva venga
      attuata in conformità alla legge, provvedere ai reclami presentati dai
      detenuti, concedere permessi e licenze, approvare il programma di
      trattamento individuale e le proposte di ammissione al lavoro esterno. Il
      Tribunale di Sorveglianza, invece, è organo collegiale composto da due
      magistrati di sorveglianza e da due giudici non togati esperti di
      psicologia, criminologia, pedagogia, medicina, etc. Le sue competenze
      riguardano la concessione e la revoca di tutte le misure alternative di
      cui si è detto (affidamento in prova, semilibertà, detenzione
      domiciliare, liberazione anticipata), nonché la funzione d’organo
      d’appello per i ricorsi contro i provvedimenti dei giudici di
      sorveglianza. 
     
    
      Lo
      spirito fortemente riformatore che aveva caratterizzato la produzione
      normativa della seconda metà degli anni Settanta sino all’emanazione
      della Legge Gozzini nel 1986, ha dovuto scontrarsi, tuttavia, con la dura
      realtà istituzionale del carcere e dei fattori sociali criminogeni e con
      il periodico susseguirsi delle emergenze criminali del nostro Paese
      (terrorismo e criminalità organizzata). Sotto il primo profilo, la
      funzione rieducativa della pena carceraria ha dovuto, da un lato, fare i
      conti con la scarsità delle risorse umane e finanziarie previste per il
      trattamento risocializzante e, dall’altro, con la limitata capacità
      strutturale di tale trattamento di incidere sui fattori di carattere
      sociale ed economico che portano gli individui a delinquere. In tal modo,
      è cresciuta nell’opinione pubblica e nella cultura penalistica la
      sfiducia nei confronti della capacità risocializzativa della pena e si è
      invocato da più parti il ritorno ad un carcere repressivo e/o meramente
      contenitivo di soggetti socialmente pericolosi (A. Margara, 1993). Anche
      l’atteggiamento del legislatore è sembrato perdere lo slancio utopico
      della riforma e rifugiarsi in un uso "cinico" del diritto
      penitenziario, o come mezzo per limitare il problema sempre incombente del
      sovraffollamento degli istituti di pena, o come strumento per evitare le
      "rivolte dei detenuti" così numerose nella storia del nostro
      Paese prima dell’introduzione dei benefici premiali subordinati alla
      buona condotta in carcere (B. Guazzaloca, M. Pavarini, 1995). 
     
    
      Sotto
      il secondo profilo, invece, si è assistito, soprattutto a partire dagli
      anni 1991-1993, all’emanazione di una serie di provvedimenti legislativi
      che hanno escluso dall’accesso alle misure alternative una particolare
      categoria di condannati per reati di criminalità organizzata e politica,
      per i quali opera una sorta di presunzione di impossibilità al recupero
      sociale fondata sul tipo di reato che hanno commesso (B. Guazzaloca, 1992;
      A. Presutti, 1994). In contrasto con queste norme particolarmente
      restrittive, si è andata sviluppando la tendenza ad emanare norme di
      diritto penitenziario ad hoc per singole categorie di condannati per i
      quali, invece, l’accesso ai benefici premiali è molto facilitato. Si
      tratta, oltre che della normativa già ricordata per i tossicodipendenti e
      gli alcoldipendenti, delle normative riguardanti ad esempio i soggetti
      colpiti dal virus HIV (B. Magliona, C. Sarzotti, 1993) e i c. d.
      collaboratori di giustizia. Tali opposte e molteplici esigenze di politica
      criminale hanno provocato una situazione di grave disagio nell’opinione
      pubblica e negli addetti ai lavori, diffondendo la sensazione di una
      "mancanza di senso" della sanzione penale. Da un lato, infatti,
      la pena sembra perdere i suoi connotati di certezza e di determinatezza,
      in quanto influiscono sulla sua esecuzione elementi disparati che non
      hanno più alcun riferimento alla gravità del reato commesso (condizioni
      di salute, predisposizione a collaborare con le autorità inquirenti,
      stato di tossicodipendenza, contiguità sociale con la criminalità
      organizzata etc.). Dall’altro, la pena del carcere in specifico sembra
      diventare un elemento liberamente negoziabile in fase esecutiva senza più
      alcun rapporto alla sua funzione preventiva, ma in una logica
      utilitaristica dello scambio tra Stato e detenuto che esclude
      esplicitamente ogni riferimento alla dimensione risocializzativa (N.
      Amato, 1990). 
     
    
      Da
      ultimo è intervenuta nella materia del diritto penitenziario la legge 27
      maggio 1998, n. 165, c. d. "legge Simeone-Saraceni" che ha in
      certo qual modo confermato tali tendenze (F. Della Casa, C. E. Paliero, M.
      G. Grazioso, 1999). Tale normativa ha ancora una volta mostrato la volontà
      del legislatore di affrontare il problema della costante progressione
      della popolazione detenuta attraverso misure che consentano al condannato,
      là dove possibile, di evitare l’incarcerazione sin dal momento della
      sentenza di condanna. A tale scopo, si è affrontato il problema dello
      scarso accesso alle misure alternative da parte di quei soggetti
      economicamente deboli che, non potendo fruire di un’assistenza giuridica
      adeguata, non riescono ad evitare il carcere anche quando ne avrebbero
      diritto. Tutte le misure alternative, infatti, sono concesse solamente su
      richiesta del condannato e non d’ufficio. Per ovviare a tale
      inconveniente, il legislatore ha introdotto, per le pene inferiori ai tre
      anni di reclusione (quattro per i tossicodipendenti), l’obbligo per
      l’autorità giudiziaria di avvertire il condannato che deve essere
      eseguita contro di lui una sentenza di condanna detentiva, specificando
      che egli può, entro 30 giorni, presentare istanza al Tribunale di
      Sorveglianza per accedere alle misure alternative. Nel corso di questo
      periodo, l’esecuzione della sentenza è sospesa. Si tratta di una
      normativa che, pur essendo largamente condivisibile nei suoi intenti
      generali di maggiore equità sociale nella concessione delle misure
      alternative, ha presentato dei notevoli punti deboli dal punto di vista
      applicativo. In particolare, l’attuazione della legge è in gran parte
      affidata ai Tribunali di Sorveglianza per i quali non è stato introdotto
      alcun aumento degli organici, incrementando in tal modo dei carichi di
      lavoro che erano già in precedenza assai elevati. Il pericolo da
      scongiurare è che, da un lato, la magistratura di sorveglianza non riesca
      a smaltire le nuove richieste e che quindi il diritto alle misure
      alternative rimanga "sulla carta". Dall’altro, tale
      magistratura non sembra possedere le risorse umane e di tempo per poter
      vagliare attentamente e con le dovute informazioni le istanze dei
      condannati, in modo tale che il procedimento di esecuzione sembra
      diventare sempre più burocratico e incerto, legato com’è alle
      interpretazioni della legge, a volte anche molto distanti fra loro,
      fornite dai diversi tribunali di sorveglianza (G. Mosconi, M. Pavarini,
      1993). 
     
    
      Inoltre,
      per l’ennesima volta, il nostro legislatore si è mosso in una logica
      settoriale e legata all’emergenza del momento, tralasciando di
      affrontare la questione della pena in termini più generali. In
      particolare, si è mancato di compiere una scelta precisa verso l’ormai
      da molti auspicata riforma del codice penale e verso quello che viene
      chiamato il processo penale bifasico. Processo che dovrebbe fondarsi
      sull’ampliamento per il giudice del dibattimento della possibilità di
      irrogare in sentenza condanne di natura diversa dalla semplice detenzione,
      quali i lavori socialmente utili, la semilibertà, la condanna al
      risarcimento della vittima, etc., lasciando alla magistratura di
      sorveglianza un margine di minore discrezionalità sulle modalità di
      esecuzione della pena. Tale cambiamento strutturale del sistema penale sarà
      possibile, tuttavia, solamente con il definitivo superamento
      dell’attuale codice penale (sul quale ha recentemente fornito un parere
      autorevole la c.d. commissione Grosso) e con una precisa scelta di
      politica criminale che veda sempre di più il carcere solamente come una
      (e neppure la principale) delle possibili forme di sanzione penale, da
      riservarsi a quei crimini di particolare rilevanza sociale per i quali la
      detenzione appaia ancor oggi la modalità meno brutale di reazione della
      comunità democratica. 
     
    
    
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      5.
      Percorso sul trattamento carcerario 
      Il progressivo sviluppo del carcere come forma principale di
      esecuzione delle pene registratosi a partire dall’Ottocento si è
      accompagnato alla crescita di un apparato statale costituito da funzionari
      professionali (i c. d. operatori penitenziari) che hanno il compito di
      amministrare gli istituti di pena con una elevata autonomia gestionale. Si
      assiste in tal modo ad un fenomeno di burocratizzazione e di
      razionalizzazione dell’esecuzione penale, in quanto lo stato diventa il
      gestore monopolistico anche di questo settore del sistema penale che in
      passato era stato, in molte realtà istituzionali, lasciato ai privati (cfr.
      storia della prigione). Vengono costituiti "(a)pparati amministrativi
      sempre più organizzati entro l’ambito di un territorio, sotto la guida
      di funzionari dotati di una preparazione tecnica e retribuiti per le loro
      competenze professionali – direttori delle carceri, guardiani, ufficiali
      medici, assistenti sociali, probation officers e, più tardi, criminologi,
      psichiatri e psicologi -, ciascuno con un proprio percorso di carriera,
      una propria competenza, ideologia e propri interessi" (D. Garland,
      1999, 223). La costituzione di tali apparati è legata al fatto che il
      carcere non è più concepito, come in epoca premoderna, un semplice luogo
      di detenzione in cui contenere individui in attesa di giudizio o
      politicamente pericolosi, ma viene considerato un sistema attraverso il
      quale intervenire sulla personalità e sullo stile di vita dei condannati,
      per qualche tipo di finalità educativa, preventiva, risocializzativa,
      etc. Si potrà parlare in senso compiuto "di sistema penitenziario
      (...) soltanto da quando la complessità dei fini che la privazione della
      libertà vuole raggiungere (...) postula una organizzazione non
      rudimentale e una complessità di interventi regolati da quella che fu
      denominata fin dalla metà dell’800 "scienza
      penitenziaria"" (L. Daga, 1990, 754). Nasce in tal modo il
      cosiddetto "carcere trattamentale". 
     
    
      I
      primi modelli di carcere trattamentale sono di origine statunitense, in
      quanto oltreoceano vennero sperimentati e realizzate per la prima volta,
      nella seconda metà del Settecento, alcune idee di fondo che si sono in
      seguito condensate nel progetto panottico dell’inglese Jeremy Bentham (cfr.
      storia della prigione). Tali modelli sono caratterizzati in una
      prima fase dalla detenzione monocellulare, in quanto si ispirano
      direttamente al modello della cella monastica. Lo stesso termine
      penitenziario, infatti, mostra la sua derivazione religiosa, che fa
      riferimento al concetto di isolamento come penitenza e come strumento di
      espiazione dei peccati in auge nella prigione monastica medioevale. Tali
      ispirazione religiosa di estrazione cattolica, che aveva avuto in Europa
      qualche limitata realizzazione come il carcere di San Michele a Roma
      inaugurato agli inizi del Settecento, trovò nel protestantesimo dei
      quaccheri americani un potente fattore di sviluppo e di spinta alla
      realizzazione di esperienze concrete di istituti carcerari. Prendendo le
      mosse dal concetto di carcere come medicina spirituale, nel 1774 venne
      inaugurato il penitenziario di Walnut Street nello stato della
      Pennsylvania, massimo esempio del c. d. modello trattamentale filadelfiano.
      Tale modello era fondato sul principio dell’isolamento assoluto dei
      detenuti e sul lavoro quotidiano. La solitudine della cella e del lavoro
      durante la giornata doveva servire, da un lato, a correggere
      "l’anima del criminale" attraverso un isolamento che favorisse
      l’affievolirsi delle passioni che avevano portato al reato e il
      raccoglimento spirituale. Dall’altro, l’isolamento consentiva il
      superamento delle deplorevoli condizioni di promiscuità in cui erano
      ospitati i detenuti nelle carceri settecentesche, favorendo in tal modo
      un’efficace azione di contrasto al diffondersi del "contagio della
      pestilenza delinquenziale", delinquenza che veniva concepita come un
      fenomeno quasi fisico di patologia sociale. Il sistema filadelfiano,
      tuttavia, presentò immediatamente dei notevoli problemi per la sua
      concreta attuazione dovuti sia ad un regime detentivo eccessivamente
      rigido (molti detenuti non reggevano psicologicamente al prolungato
      isolamento), sia ai costi economici estremamente elevati, essendo
      difficile disporre di una quantità di edifici penitenziari in grado di
      ospitare la popolazione detenuta in regime monocellulare. 
     
    
      Dal
      tentativo di superare questi inconvenienti di carattere pratico nacque il
      secondo modello carcerario americano che si diffuse ben presto in tutto il
      mondo, il modello auburniano. Si tratta di un modello che, pur non
      stravolgendo il modello filadelfiano, ha cercato pragmaticamente di
      introdurre delle correzioni al regime di rigido isolamento. Il carattere
      pragmatico del modello è dovuto al fatto che non venne elaborato
      teoricamente, ma fu la risultante di una serie di compromessi pratici
      nella gestione del carcere di Auburn, inaugurato nello Stato di New York
      nel 1818, da parte del direttore Elam Lynds. Le principali correzioni
      introdotte rispetto al sistema filadelfiano erano: l’isolamento solo
      notturno dei detenuti che durante il giorno potevano lavorare in spazi
      comuni, pur dovendo rispettare la regola del silenzio; una maggior
      attenzione agli aspetti produttivi del lavoro dei reclusi, per consentire
      anche una maggiore economicità della gestione del penitenziario (anche se
      il carcere non diventò mai una vera e propria fabbrica in grado di
      vendere i propri prodotti sul mercato); una rigorosa separazione tra le
      diverse categorie di detenuti: "gli scellerati induriti dal crimine
      rimanevano nell’isolamento ininterrotto, i recuperabili venivano isolati
      all’inizio della pena e poi ammessi al lavoro in comune, i meno
      criminali e depravati avevano facoltà di lavorare da subito, con
      separazione di notte e comunità durante il giorno" (L. Daga, 1990,
      757). 
     
    
      I
      modelli americani ebbero una rapida diffusione in tutta Europa, anche se
      nell’analizzare i sistemi penitenziari occorre sempre distinguere
      nettamente i principi teorici ispiratori, da ciò che sono le concrete
      pratiche carcerarie. Sotto questo secondo profilo, infatti, i principi
      teorici di stampo americano nascondevano una realtà della vita carceraria
      negli istituti molto più brutale e disorganizzata. Limitandoci alle linee
      evolutive del carcere trattamentale in Italia, si può affermare che alla
      metà dell’Ottocento la situazione sia molto articolata. Il modello
      auburniano, ad esempio, era stato adottato dalla riforma penitenziaria
      piemontese, mentre in Toscana il regolamento degli stabilimenti penali del
      1853 aveva preferito il modello filadelfiano. Con l’unità nazionale,
      venne istituita una apposita commissione che avanzò numerose proposte di
      riforma del sistema penitenziario al fine di una sua maggiore uniformità
      sul territorio della penisola, che peraltro non vennero attuate
      soprattutto per ragioni economiche. In tal modo, alla fine
      dell’Ottocento in Italia erano presenti pressochè tutti i vari sistemi
      di esecuzione della pena detentiva. In particolare, esistevano i bagni
      penali, in cui i reclusi erano costretti ai lavori forzati, legati con
      catene e vestiti in casacca rossa da galeotti; l’ergastolo di Volterra e
      le case di forza con segregazione cellulare; le case di reclusione per le
      pene di oltre un anno; le prigioni correzionali; le case di relegazione
      per i delitti passionali e meno gravi; le colonie penali di Pianosa,
      Gorgona e Capraia in cui si trovavano anche i soggetti al domicilio coatto
      nelle isole; pii istituti dipendenti dall’amministrazione penitenziaria
      per minorenni considerati dalla legge abbandonati, vagabondi, senza
      avvenire. 
     
    
      Parallelamente
      a questa diversità di situazioni carcerarie dovuta non tanto ad un
      progetto di intervento mirato sulla popolazione reclusa, ma alla
      sopravvivenza dei vecchi istituti e regimi di pena elaborati dagli Stati
      preunitari, si sviluppano, a partire ancora una volta dal mondo
      anglosassone, nuovi principi trattamentali. Tali principi erano scaturiti
      dalla constatazione del fallimento dei modelli monocellulari e dalla
      necessità di rendere flessibile la pena in base al comportamento del
      detenuto in carcere. In particolare, in Irlanda, il capo
      dell’amministrazione penitenziaria Lord Crofton, nominato nel 1854,
      cominciò a sperimentare un nuovo tipo di trattamento differenziato
      fondato sulla rigida divisione degli istituti a seconda del livello di
      sicurezza richiesto. La popolazione reclusa, in questo modo, veniva
      classificata attraverso una suddivisione in cinque categorie, basata sul
      comportamento tenuto in carcere dal detenuto rispetto al lavoro, alla
      disciplina e al profitto scolastico. 
     
    
      Il
      principio della differenziazione trattamentale si estese ben presto in
      tutta Europa e il congresso penitenziario internazionale tenutosi a Roma
      nel 1885 sancì la necessità dei sistemi carcerari di tener conto della
      "distinzione da fare tra alcune categorie di detenuti, e
      conseguentemente tra gli stabilimenti in cui essi saranno assegnati".
      Tali categorie erano quelle dei condannati e dei giudicabili, dei giovani
      e degli adulti, dei condannati a pene brevi e a pene lunghe. Ad ognuna di
      queste categorie di condannati dovevano essere approntati dei regimi
      carcerari specifici, con specifiche forme di trattamento idonee alla
      trasformazione dei soggetti reclusi, trasformazione che ormai non si
      considerava più possibile ottenere con il solo ausilio della funzione
      emendativa della privazione della libertà. 
     
    
      La
      tendenza alla differenziazione trattamentale è sorretta, alla fine
      dell’Ottocento e all’inizio del nostro secolo, dall’egemonia
      culturale del pensiero positivistico e della Scuola Positiva (i cui
      massimi esponenti sono italiani, Cesare Lombroso ed Enrico Ferri) che
      considera la criminalità come una manifestazione di patologia
      individuale, da curarsi con appositi trattamenti di carattere medicale (E.
      Somma, 1986). Di qui il collegamento tra status di recluso e status di
      malato e l’influenza del modello curativo-ospedaliero sulla struttura
      del carcere. In tale prospettiva, la segregazione cellulare deve lasciare
      il posto a precisi strumenti di osservazione e di classificazione della
      personalità del condannato e a interventi mirati che consentano di
      guarire il delinquente dalla sua malattia, la delinquenza. Il carcere
      diventa luogo di osservazione scientifica e laboratorio sperimentale per
      l’elaborazione di tecniche di manipolazione del comportamento umano. Si
      tratta in buona misura di una illusione scientista, improntata ad un
      determinismo ingenuo, che non otterrà risultati pratici di rilievo, ma
      che contribuisce a modificare il sistema penitenziario, introducendo la
      nozione di pena indeterminata attraverso le c. d. misure di sicurezza. Il
      nostro codice penale del 1930, infatti, introduce il principio del
      "doppio binario" che prevede, oltre alla pena, la comminazione,
      ad alcuni tipi di condannato, delle misure di sicurezza che non sono
      determinate nel tempo dalla gravità del reato commesso, ma dalla prognosi
      di pericolosità sociale che deve essere periodicamente verificata dal
      giudice. Il nostro regolamento carcerario del 1931 prevedeva, inoltre, il
      passaggio da un istituto di pena all’altro, in base alla classificazione
      dei detenuti ottenuta attraverso l’osservazione scientifica del loro
      comportamento in detenzione. 
     
    
      Col
      secondo dopoguerra e la caduta dei regimi totalitari che avevano
      insanguinato l’Europa, il tema della riforma dei sistemi penitenziari
      torna all’ordine del giorno. La produzione normativa di numerosi
      organismi internazionali (cfr. diritto penitenziario) pone al centro
      dell’attenzione il tema dei diritti umani dei detenuti che erano stati
      negati da molti sistemi penitenziari sia col mantenimento di regimi
      detentivi afflittivi e meramente contenitivi, sia con le tecniche di
      manipolazione degli individui che avevano avuto come esito estremo le
      aberranti pratiche concentrazionarie dei lager nazisti. Si tende quindi al
      miglioramento delle condizioni carcerarie e ad una progressiva riduzione
      della pena carceraria, a favore delle c. d. misure alternative alla
      detenzione. Il fine che si ritiene preferibile è quello che mira al
      reinserimento del recluso e negli anni Sessanta e Settanta molti
      ordinamenti penitenziari europei istituiscono un vero e proprio diritto
      alla rieducazione del detenuto. La prospettiva della rieducazione e del
      reinserimento sociale, per un verso, mantiene valido il tema della
      differenziazione della pena carceraria, ma, per altro verso, contesta ogni
      strumento trattamentale che consideri il condannato nel ruolo passivo di
      malato. Ciò che viene ritenuto necessario, infatti, per garantire
      l’efficacia delle strategie di risocializzazione e rieducazione è il
      consenso del detenuto, la sua partecipazione attiva e responsabile al
      programma trattamentale. Come garantire, tuttavia, che tale consenso sia
      sincero ed effettivo? Gli strumenti di cui i sistemi penitenziari europei
      si sono dotati per agevolare il consenso alla risocializzazione, infatti,
      ruotano intorno al tema della flessibilità della pena. Introducendo i c.
      d. benefici premiali (cfr. diritto penitenziario), gli ordinamenti
      penitenziari sono andati a costituire quel processo relazionale che è
      stato definito "sinallagma carcerario" e che consiste in uno
      scambio tra disponibilità da parte del detenuto ad accettare il percorso
      trattamentale e concessione di misure premiali alternative alla
      detenzione. Il pericolo che si cela al di sotto di questo scambio,
      tuttavia, è che il consenso espresso dal recluso sia fittizio, imposto
      esclusivamente dall’assoluto desiderio di ritornare in libertà, con
      conseguente abbandono del percorso risocializzativo appena ne sia data
      concreta possibilità. Non a caso i risultati di maggior rilievo ottenuti
      da queste strategie di politica carceraria hanno riguardato la vita
      intramuraria, dove si è assistito ad un notevole abbassamento della
      tensione interna tra custode e custoditi e alla quasi totale scomparsa
      delle rivolte carcerarie. 
     
    
      Oltre
      a questa contraddizione di fondo e a carenze dei sistemi penitenziari,
      quali il sovraffollamento degli istituti e le scarsità di risorse
      impiegate per il trattamento di cui si è già trattato (cfr. diritto
      penitenziario), occorre ricordare altri due nodi problematici che hanno
      reso difficile l’attuazione delle politiche di reinserimento: le
      strutture architettoniche carcerarie e la qualità professionale degli
      operatori penitenziari. Sotto il primo profilo, rimanendo alla situazione
      italiana, gli istituti di pena si sono rivelati inadeguati alle nuove
      politiche di risocializzazione (S. Lenci, 1976). A prescindere dalle
      condizioni di perenne sovraffollamento che snaturano la funzione degli
      spazi in chiave puramente contenitiva, ci si è trovati a dover fare i
      conti, o con antichi edifici nati con scopi diversi dalla detenzione e
      riadattati alla meglio, oppure con una nuova generazione di istituti,
      costruiti negli anni Ottanta in seguito all’emergenza terrorismo, sul
      modello delle carceri di massima sicurezza e quindi pensati come strutture
      che devono garantire in primo luogo l’impossibilità di evadere. 
     
    
      Sotto
      il secondo profilo, si è registrato una sensibile carenza nella
      predisposizione degli operatori penitenziari ad adeguarsi alla cultura del
      trattamento, soprattutto per quanto riguarda il settore che si occupa
      della custodia dei detenuti (agenti di polizia penitenziaria). Da questo
      punto di vista, si è assistito ad un conflitto sommerso tra questa
      categoria di operatori penitenziari e gli operatori del trattamentale,
      ovvero quelle figure professionali che hanno il compito di predisporre i
      programmi individuali di trattamento per i detenuti (assistenti sociali,
      educatori, criminologi, psicologi, medici penitenziari) (R. Breda, 1995).
      In questo conflitto tra il "codice paterno" e il "codice
      materno" degli operatori del carcere si sono rivelate le
      contraddizioni e le arretratezze del nostro sistema penitenziario (C.
      Sarzotti, 1999). Da un lato, gli operatori della custodia, pur avendo,
      secondo la legge, anche compiti di collaborazione al percorso
      trattamentale, concepiscono ancora in buona misura il carcere come mero
      luogo di contenimento dei reclusi e spesso non hanno la preparazione
      professionale per partecipare attivamente a tale percorso. Dall’altro,
      gli operatori del trattamentale nutrono una profonda diffidenza nei
      confronti dei loro colleghi del custodiale e si rivelano spesso
      impossibilitati, per carenze professionali e di organizzazione interna, a
      collaborare in rete con gli operatori sociali che lavorano all’esterno
      del carcere (operatori dei Ser.T. e dei servizi sociali comunali,
      volontari etc.), impedendo in tal modo quell’apertura del carcere alla
      società civile ritenuta da più parti condizione necessaria per efficaci
      strategie di reinserimento sociale. 
     
    
      L’insieme
      di tali difficoltà di diversa natura ha condotto alla progressiva crisi
      dell’ideologia del trattamento nel corso degli anni Ottanta e Novanta.
      Tassi di recidiva in costante crescita, fenomeni come quelli del
      progressivo aumento in carcere di una popolazione detenuta proveniente da
      enclaves di radicata emarginazione sociale [disoccupati, senza fissa
      dimora, stranieri non integrati (H. Tulkens, 1982)], e di persone per cui
      il carcere non costituisce che il termine finale di un disagio sociale
      manifestatosi con la tossicodipendenza (D. Malfatti, 1995) o con la
      sieropositività (P. Buffa, 1996), hanno condotto a ripensare ai termini
      (ridotti) in cui è possibile parlare oggi di trattamento penitenziario. 
     
    
      Le
      linee di tale ripensamento sono state sostanzialmente di due tipi. Una
      prima tendenza ha contestato radicalmente la nozione di trattamento
      negando che il sistema penitenziario abbia come "obiettivo lo
      stabilire una diagnosi ed un trattamento per individui che presentino
      sintomi di devianza sociale (criminali), ma invece semplicemente quello di
      far passare il messaggio secondo il quale alcuni atti non sono
      autorizzati" (L. Daga, 1990, 772). Al carcere rimarrebbe quindi la
      funzione, per un verso, simbolica di ribadire la disapprovazione sociale
      degli atti criminali, e per altro verso, materiale di contenere
      fisicamente individui socialmente pericolosi. È questa la linea che, per
      certi aspetti, sembra prevalere negli Stati Uniti. 
     
    
      Una
      seconda tendenza, prevalente nei paesi europei, partendo dalla
      constatazione (tutt’altro che scontata secondo il pensiero abolizionista
      (cfr. teorie della pena) della ostinata impossibilità delle nostre società
      di poter fare a meno del carcere, rovescia "la prospettiva, dalla
      necessità di giustificare l’utilità della pena privativa della libertà,
      (...) alla doverosità (per governi che vogliono tener conto dei diritti
      fondamentali della persona umana) di limitare la dannosità della
      privazione della libertà" (L. Daga, 1990). Partendo dal presupposto
      che il carcere sia un male necessario (e che conseguentemente debba essere
      utilizzato dal legislatore con grande parsimonia), si ritiene che debbano
      essere limitati il più possibile i "danni collaterali"
      provocate dalle detenzioni, soprattutto di lunga durata. Le attività
      trattamentali, in tale prospettiva, vanno intese come strumenti che
      contrastano i danni della prigionizzazione (cfr. sociologia della vita
      carceraria) e che possono aumentare le chances di risocializzazione del
      detenuto solamente in via eventuale. Per contrastare gli effetti negativi
      della detenzione si auspica innanzitutto la progressiva apertura del
      carcere alla società esterna sia attraverso una maggiore collaborazione
      con le istituzioni e le realtà socio-culturali ed economiche
      extra-murarie, sia attraverso l’adozione di metodi di conduzione della
      vita interna al carcere che si ispirino a modelli comunitari che
      responsabilizzino e coinvolgano attivamente il detenuto. Le stesse regole
      della comunità dei detenuti all’interno del carcere possono essere
      utilizzate in questa prospettiva; ad esempio, per favorire scelte più
      responsabili per prevenire la diffusione del contagio da HIV (S. Ronconi,
      1996). 
     
    
      Si
      negano, in tal modo, due principi tradizionali dell’ideologia
      trattamentale: quello della separatezza del carcerario dalla società
      civile e quello della rigida differenziazione tra categorie di detenuti
      che ha come conseguenza la gerarchizzazione dell’organizzazione
      carceraria. L’individuo recluso diventa un soggetto adulto a tutti gli
      effetti, rispetto al quale non occorre intervenire come su un oggetto
      passivo (modello medicale tradizionale); egli non "va
      reinserito", ma aiutato a riacquistare la capacità di utilizzare
      delle risorse relazionali della sua rete sociale extra-muraria (c. d.
      tecniche di empowerment sociale). Oggi il trattamento carcerario, quindi,
      non dovrebbe consistere nell’applicazione di un programma per modificare
      il comportamento del recluso quando egli sarà liberato, ma nell’offerta
      di opportunità di reinserimento sociale che si inseriscono in un progetto
      di vita necessariamente non determinabile dall’operatore. La stessa
      autogestione da parte dei detenuti di determinate attività intramurarie
      (lavori di pulizia e di manutenzione delle celle, organizzazione di
      attività sportive e culturali, etc.) può essere considerata, in tale
      prospettiva, funzionale ad evitare quei processi di spersonalizzazione e
      di abulia relazionale che si manifestano dopo lunghi periodi di
      detenzione. 
     
    
    
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