Sensibili alle foglie

 

Seminario "Reclusione e risorse"

Organizzato dalla Cooperativa Sensibili alle Foglie

Istituzione: una parola equivoca

Prima ancora di affrontare il territorio specifico delle istituzioni totali diventa necessario chiarire il significato che attribuiamo alla parola istituzione, intorno al quale si sono esercitate generazioni di sociologi, antropologi, etnografi, giuristi e filosofi.

L’area semantica della parola istituzione è multivalente, contraddittoria, ambigua. Ma questa ambiguità è di grande interesse perché nasconde una tensione concettuale che in qualche modo raccoglie tensioni effettive della vita sociale.

Intorno alla nozione di istituzione si sono confrontati due opposti modelli.

Modello statico.

La sociologia di Talcott Parsons e dei suoi allievi, come pure l’etnologia classica, hanno privilegiato la tensione passiva consegnandoci una definizione reificata della istituzione. Da questo orientamento, l’istituzione viene intesa come un quadro strutturato e stabilizzato di attività sociali, di norme, regole e funzioni.

Modello dinamico.

Cornelius Castoriadis, Reneé Lourou, Georges Lapassade, a partire dagli anni ‘40, hanno sottolineato la caratterizzazione dinamica dell’istituzione, evidenziandone in particolaree la sua natura processuale. Questo orientamento, epistemologico, al quale anch’io mi riferisco, e che in Italia è stato seguito da Franco Basaglia, ed in Europa da Ronald Laing, David Cooper, Ivan Ilich e tanti altri, è noto come analisi istituzionale. L’analisi istituzionale, sviluppando un orientamento costruttivista, ha proposto una importante distinzione analitica tra società istituente e società istituita e si è dedicata alla descrizione dei loro rapporti.

L’impianto dell’analisi istituzionale connette quindi alla nozione di istituzione:

• Una tensione attiva: la produzione istituente, il lavoro di istituzione, il fatto di istituire un ordine. Chiameremo gli attori di questa tensione: istituenti ordinari. (Spinta divergente).

• Una tensione passiva: la resistenza di un ordine istituito, delle norme e delle consuetudini consolidate. Chiameremo le personificazioni di questa tensione passiva: guardiani dell’istituito. (Resistenza conformizzante)[1].

• Una tensione processuale: i processi di istituzionalizzazione. Questa terza tensione è indispensabile per svelare ed enunciare nel divenire, e non soltanto nel quadro binario delle prime due istanze, le implicazioni di ognuno degli attori nella situazione d’intervento.

Sia la tensione attiva che la tensione passiva, infine, muovono verso un compito. Anche il compito, secondo Pichon Riviere e Armando Bauleo, è un elemento fondante di questo quadro analitico.

  2. Istituzioni ordinarie/Istituzioni totali

La nozione di istituzione totale è stata proposta dal sociologo americano Ervin Goffman, indotto ad interessarsi di carceri e manicomi dall’internamento di sua moglie in una istituzione psichiatrica.

In Asylum, il suo saggio più noto e meglio articolato, egli afferma che: “Uno degli aspetti fondamentali della società moderna è che l’uomo tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto diverse autorità e senza alcuno schema razionale di carattere globale”.

 La caratteristica principale delle istituzioni totali sarebbe allora proprio la rottura delle barriere che abitualmente separano le tre sfere principali della vita di ogni individuo: la famiglia, il lavoro, il divertimento.

Lo sguardo di Goffman si ferma qui: alle apparenze, alla superficie.

Sotto questa apparenza tuttavia, altri ricercatori, – Michel Foucault e Franco Basaglia in particolare – hanno messo bene in evidenza un dispositivo disciplinare e di potere che unifica alla radice quelle “sfere della vita” che Goffman, invece, considera separate l’una dall’altra da precise barriere.

Michel Foucault, ad esempio, nella sua lettura dei dispositivi del controllo sociale che si sono affermati negli ultimi secoli, enfatizza il potere disciplinare, vale a dire quell’insieme di pratiche e di conoscenze orientate sugli individui allo scopo di renderli conformi a determinati codici di comportamento. Un potere distribuito ed articolato in tutte le istituzioni – dalla famiglia alla scuola, dal lavoro alla prigione e al manicomio – più che identificato in una specifica istituzione[2]. Soprattutto un potere che lavora per indurre in tutte le persone che ricadono sotto il suo dominio una forte interiorizzazione o internalizzazione di valori, modelli identitari, contenuti di significato riferibili alla normalità; e che tratta gli incorreggibili[3] per recuperarli alla conformità, per rinormalizzarli.

Il continuum della società disciplinare, sarebbe quindi operante, nello scenario foucaultiano, proprio nell’esercizio sui corpi, nella microfisica di questo potere.

Se proviamo a tradurre in un modello relazionale la nozione di potere disciplinare ci appare una struttura gerarchica entro cui:

a) un attore gestisce rigidamente un codice normativo (custode del codice);

b) un altro attore viene costretto a stare nella relazione conformizzando i suoi comportamenti a quel codice (iniziato). Se non si conforma subisce un trattamento correzionale, una penalizzazione (esclusione), ma per conformizzarsi deve compiere operazioni di dissociazione identitaria.

L’implicazione del potere disciplinare è così un processo dissociativo in seguito al quale l’iniziato conforma un’area della sua coscienza al codice normativo gestito dal custode, e dissocia altre aree della sua coscienza mantenendole in condizioni di latenza (latenze dissociate).

Franco Basaglia articola ulteriormente questo sguardo e mette al centro della sua riflessione la divisione dei ruoli e la relazione di potere che ad essa corrisponde.

“Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si può ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli è il rapporto di sopraffazione e violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusione da parte del potere, del non potere; la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che s’instauri nella nostra società”[4].

Divisione dei ruoli, esercizio di potere, violenza ed esclusione caratterizzano ogni istituzione e nella società occidentale vengono giustificati come necessità intrinseca alla finalità dell’istituzione: l’educazione (famiglia, scuola): trattamento educativo; la malattia (ospedale, ospedale psichiatrico): trattamento terapeutico; la ‘colpa’ (carcere): trattamento risocializzante.

Questa giustificazione, fissata in norma, definisce il limite, il confine, la ‘linea di colore’ “fra un bene che si accoglie (che siamo noi) e un male che si rifiuta (che sono loro)”[5]. Loro, i diversi, i rifiuti, gli elementi di disturbo, gli esclusi. Ovvero le contraddizioni generate dalle relazioni dominanti nell’inclusione ma che gli inclusi non vogliono vedere e cercano di far sparire. Le istituzioni dell’esclusione, sono così “aree di scarico” e di compenso delle proprie contraddizioni dove la società relega e nasconde le proprie contraddizioni”[6].

  Fatta questa premessa nasce una domanda: se, in generale, ciò che caratterizza le istituzioni è la netta divisione tra chi ha il potere e chi non ne ha, più in particolare in che consiste, se esiste, la differenza specifica tra le istituzioni ordinarie e le istituzioni dell’esclusione?

Nel grado di intensità con cui i guardiani dell’istituito esercitano il loro potere e gli istituenti ordinari esercitano la loro spinta divergente. Insomma, ciò che definisce il carattere totalizzante di una relazione o di una istituzione è, in definitiva, l’intensità del potere, da alcuni esercitato e da altri subìto.

  Nelle istituzioni ordinarie (famiglia scuola, azienda, banche, partiti, ospedali, ecc.) la dialettica istituente/istituito prevede per tutti gli attori della relazione la possibilità di esercitare una azione istituente in conflitto con l’istituito.

Nelle micro-dimensioni, nelle dinamiche molecolari, gli attori che subiscono le torsioni esercitate da chi si erge a guardiano dell’istituito possono opporre azioni che istituiscono processi avversativi alla richiesta correzionale o di conformizzazione: processi di istituzionalizzazione.

Questa attività istituente ordinaria è ciò che Lapassade e altri hanno chiamato: costruzione della realtà sociale quotidiana.

Le istituzioni ordinarie mantengono dunque un certo grado di elasticità e porosità in modo tale da non escludere, almeno potenzialmente, un esito trasformativo dell’azione dell’istituente ordinario.

  Nelle istituzioni totali viceversa, questo orizzonte che ammette mutamenti non è affatto presente.

Processi avversativi ordinari alle richieste di correzione, adeguamento e  rinormalizzazione che i guardiani dell’istituito impongono, per quanto presenti e attivi tra la “popolazione detenuta”, hanno scarsissime probabilità di decollare per via ordinaria. Al contrario essi vengono istituzionalmente decollati!

Se una trasformazione qualitativa essenziale può prodursi essa, in genere, dipende da istituenti straordinari (movimenti sociali, rivoluzioni, etc.) che investono con la loro azione collettiva le macrodimensioni della formazione sociale.

  Ciò del resto è inscritto nel codice fondativo di queste istituzioni, vale a dire nel momento dell’istituzione stessa dell’istituzione. Proprio questo atto fondatore infatti nega ad uno degli attori – il recluso, l’internato – lo status di cittadino persona e con ciò il suo diritto a poter esercitare una tensione attiva di mutamento.

Le istituzioni totali sono anelastiche e non porose. La relazione tra gli attori che le fanno vivere è gerarchica, unidirezionale, intransitiva e resistente ad ogni dialettica ordinaria.

Le istituzioni totali esercitano costitutivamente una torsione relazionale mortificante sull’attore recluso.

Il vissuto di questa torsione viene significato in quadri diversi nelle istituzioni totali volontarie (eremi, conventi, …) e nelle istituzioni totali involontarie (carceri, manicomi, …). Ma la diversa elaborazione simbolica investe soltanto il piano della dissociazione dalla torsione, non quello specifico della torsione.

2.1 Tre esempi problematici

Le nozioni di ‘istituzione ordinaria’ e ‘istituzione totale’ sono ovviamente da intendere come semplici ‘modelli concettuali’. Nella realtà quotidiana i dispositivi totalizzanti sono potenzialmente all’opera in tutte le istituzioni.

Farò perciò tre esempi che mettono in seria difficoltà la distinzione. O meglio sconsigliano di impiegare ingenuamente la nozione di ‘istituzione ordinaria’.

  Il primo esempio riguarda la famiglia.

«Mio padre, proprio mio padre, è stato la mia prima istituzione totale». Detta da una psichiatra questa dichiarazione ci induce a riflettere non solo su un vissuto personale ma anche su un dispositivo relazionale.

La neuropsichiatra infantile Antonella Sapio, del resto, in Cosicomesei, un libro che abbiamo pubblicato di recente[7], racconta tra le altre la storia di Antonio, dodici anni che viene portato da lei con la richiesta esplicita di un trattamento riabilitativo. Antonio, le dice la madre, a differenza di suo fratello, ha un rendimento scolastico “che fa fare brutte figure alla famiglia”.

Antonio, da parte sua, non si riconosce affatto nelle descrizioni che di lui la madre propone e non capisce proprio perché lo si voglia psichiatrizzare. Il rendimento scolastico, non è tutto, e poi la scuola lo annoia, non lo stimola, ed anzi scoraggia le sue migliori intenzioni. Antonio è un ragazzo vivace, intelligente,  ma non ancora conformizzato: questo per la sua famiglia è il vero guaio!

A me interessa osservare che in questa famiglia, Antonio non è sicuramente in grado di esercitare una azione istituente in conflitto con l’istituito (deciso e gestito dalla madre). La richiesta di adattamento e conformizzazione al codice è anelastica, gerarchica, assoluta. Disattenderla o avversarla implica una prospettiva di coazione trattamentale.

Ho proposto questo esempio per indurvi a riflette sul fatto che in questa famiglia, vale a dire in questa ‘istituzione ordinaria’ opera un dispositivo relazionale tipico delle istituzioni totali.

Il secondo esempio riguarda la scuola.

In una ricerca sull’abbandono scolastico che insieme a Nicola Valentino ho condotto nel 1998/99 all’IPIA di Bagnoli la risposta più frequente che gli studenti hanno dato a domande sul loro vissuto scolastico può essere sintetizzata così: «Mi sento un carcerato».

In quella scuola la percentuale di abbandoni raggiungeva l’80%., vale a dire che su cento iscritti al primo anno non più di venti arrivavano al diploma.

In quella ricerca, durata circa un anno, ci fu presto chiaro che gli studenti avevano una percezione lucidissima della crisi di senso di quella scuola (nata in un contesto di forte industrializzazione ma ora collocata in un’area meridionale sacrificata e deindustrializzata) e della sua funzione di “vuoto contenitore”. Era chiaro a tutti, dal Preside ai bidelli, che lì non ci si andava per apprendere qualcosa di traducibile, dopo i cinque anni, in lavoro. Ci si andava per un’altra ragione: perché “costretti” dall’obbligo scolastico e dalle pressioni genitoriali. Non a caso dunque, forme di relazione, gradi e articolazioni del controllo presentavano analogie evidenti con i dispositivi all’opera nelle istituzioni totali.

Gli allievi erano scoraggiati e impossibilitati a mettere in atto un qualsivoglia processo istituente. I loro controllori si consideravano a tutti gli effetti “guardiani dell’istituito”. L’unica risorsa che restava agli allievi più vivaci e intraprendenti era l’evasione: “l’abbandono scolastico”.

Chi restava era il problema, non chi se ne andava!

  Il terzo esempio riguarda l’ospedale.

Anche questo esempio nasce dalla nostra diretta esperienza di ricerca in una casa di cura per anziani, con 700 ospedalizzati.

“Un ricoverato ed una ricoverata che si sono conosciuti in quella casa di cura, decidono di sposarsi. Sono due liberi cittadini, e pertanto il loro progetto va a buon fine. Ma l’amministrazione osteggia l’idea di “una camera tutta per loro”; ed anzi non gli consente, neppure per una notte, di dormire insieme.

Nessuna legge o norma scritta vieta alle persone ospedalizzate di avere rapporti sessuali ma il personale è istruito in modo rigido a prevenire questa eventualità e a impedirla. Le donne che hanno ancora un ciclo mestruale vengono sottoposte a “sorveglianza speciale”. E se un uomo e una donna mostrano apertamente un certo rapporto affettivo vengono subito separati in reparti diversi senza possibilità di contatti tra loro.

Tutti i tentativi di mettere in moto un processo istituente teso al cambiamento del dispositivo relazionale operante sono stati repressi. E allora, possiamo dire che in questa casa di cura la vita di relazione sessuale è regolata in modo diverso da quanto avviene in una istituzione totale?

3. I dispositivi dell’istituzione totale come analizzatori

In ogni istituzione ordinaria, abbiamo visto, sono potenzialmente all’opera quei dispositivi relazionali totalizzanti che caratterizzano ordinariamente le istituzioni totali. Qualora essi trovino nelle dinamiche quotidiane della vita istituzionale condizioni favorevoli per manifestarsi, uno o più attori di quella specifica istituzione, subiscono una vasta gamma di torsioni e di mortificazioni alle quali potranno sottrarsi dissociandosi in varie forme dalla loro condizione, oppure, con una risposta più radicale, abbandonando l’istituzione.

Per portare a consapevolezza i dispositivi relazionali totalizzanti, effettivamente operanti nelle istituzioni ordinarie (ma generalmente invisibili ai loro attori perché da essi considerati “naturali” e inconsapevolmente vissuti) possiamo servirci di due specchi analitici particolari.

Uno di essi è il momento istituente dell’istituzione, vale a dire l’istituzione dell’istituzione. In questo specchio del passato, ha osservato Ivan Ilich, risulta possibile riconoscere la radicale alterità della topologia mentale del secolo in cui viviamo e divenire con ciò consapevoli dei suoi assiomi generativi.

Un secondo specchio analitico, fondamentale per la ricerca-azione che noi promuoviamo, è rappresentato dai dispositivi basilari e paradigmatici delle istituzioni totali. Se confrontati alle procedure che vengono effettivamente impiegate per interpretare e per comunicare a fini pratici il vissuto quotidiano di una istituzione ordinaria (famiglia, scuola, ospedale, luogo di lavoro, etc.) essi sono particolarmente idonei a fare risaltare e mettere per così dire ‘allo scoperto’ modalità, procedure e gradi di controllo totalizzante nella relazione tra gli attori di quella istituzione.

Il monitoraggio delle dinamiche istituzionali che consegue a questo metodo di ricerca ha come implicazione prospettica e non eludibile una ecologia della vita di relazione.

4. Origini del dispositivo relazionale dicotomico inclusione-esclusione (l’istituzione dell’istituzione)

Per identificare il codice genetico delle relazioni che fondano la società occidentale ci dobbiamo trasferire nel Vicino Oriente circa quattromila anni prima di Cristo. A Ur, a Sumer, nelle prime città stato della Mesopotamia. Lì, come successivamente nelle Polis greche, e poi nelle Civitas della penisola che abitiamo, un muro ha cominciato a delimitare e significare gli spazi relazionali. Un muro di pietra, non solo una metafora; una pietrificazione degli spazi e degli sguardi che si sono dati un limite e una filosofia, un’estetica, una mitologia del limite.

In breve, nel chiuso dei muri di cinta s’è progressivamente consolidato e ‘naturalizzato’ un dispositivo relazionale fondato sulla dicotomia inclusione-esclusione. In tale dicotomia gli esclusi non sono soltanto gerarchicamente inferiori agli inclusi; assai peggio essi sono privati della loro qualità specifica; vengono disumanizzati.

Il buon cittadino, il “cittadino normale”, in questa filigrana, è per così dire un incluso perfettamente adattato, “normato”; educato ad una certa gamma di discipline che omologano insieme all’anima il suo corpo. Murato fuori e murato dentro ma inconsapevolmente cieco rispetto all’esistenza di quei muri. Alla perimetrazione esterna corrisponde infatti la perimetrazione interna del suo sguardo, dei suoi sensi, della sua coscienza ordinaria indotta a dissociare da sé quanto viene socialmente riprovato e condannato all’esclusione: ciò che viene messo fuori dal luogo comune esteriore viene nel contempo disaggregato e dissociato interiormente[8].

5. Prima implicazione del dispositivo inclusione/esclusione: il trattamento

A fondamento della legittimazione delle istituzioni, sia ordinarie che totali, nella società occidentale, almeno a partire dal XVIII secolo e dai suoi ottimismi illuministici, sta la nozione di trattamento.

La divisione dei ruoli, l’esercizio del potere, le torsioni della vita relazionale, la violenza e l’esclusione sarebbero giustificati dalla finalità assegnata all’istituzione;

– Trattamento educativo (famiglia, scuola);

– Trattamento terapeutico (ospedale, ospedale psichiatrico);

– Trattamento rinormalizzante e risocializzante (carcere, manicomio).

– Trattamento delle cause sociali che promuovono criminalità e devianza.

L’azione trattamentale opera per indurre una forte inetriorizzazione del mito identitario dei valori, dei modelli, dei contenuti di significato riferibili alla normalità.

Chi non conforma i suoi comportamenti a questi codici subisce una qualche penalizzazione: stigmatizzazione, trattamento, esclusione.

Anche chi si conforma tuttavia deve dissociare parti di sé dalla sua coscienza ordinaria.

L’implicazione del potere disciplinare, o, che è lo stesso, dell’azione trattamentale ordinaria è così un processo dissociativo in seguito al quale l’iniziato conforma un’area della sua coscienza al codice normativo gestito dal custode, e dissocia altre aree della sua coscienza mantenendole in condizioni di latenza, dissociate.

L’esito dell’azione trattamentale è così la produzione di una identità di sopravvivenza strutturata all’interno di una molteplicità identitaria intrisa di malessere.

6. Dal modello trattamentale al modello attuariale

Negli ultimi scorci del 900 – a partire dagli anni 70 e segnatamente negli anni 90 ­– lo sguardo sull’esclusione sembra tuttavia subire una evoluzione. Le categorie sociali che vengono riferite a quest’area (immigrati, nomadi, consumatori di droghe illegali) essendo sempre più considerate fonti potenziali di rischio criminale soggiaciono a strategie intese a neutralizzarle preventivamente.

La differenza specifica rispetto al modello trattamentale di questo nuovo orientamento del controllo sociale, definito attuariale[9], consiste nel fatto che il primo coltiva l’utopia della rinormalizzazione dei soggetti devianti, mentre il secondo sposta l’attenzione dai soggetti singoli alle categorie di soggetti classificando queste ultime secondo le potenzialità di rischio che vengono ad esse attribuite.

Così su questi gruppi “portatori di rischio per la sicurezza collettiva”, permanentemente esclusi dalle risorse che consentono l’inclusione sociale, l’unico intervento effettivamente auspicato diventa la prevenzione situazionale, vale a dire la sorveglianza di massa e la costrizione entro uno spazio fortificato.[10]

Il dispositivo del controllo sociale-penale diventa preventivo e probabilistico.

Centri di permanenza temporanea, campi nomadi, comunità terapeutiche chiuse, e altri raccoglitori per persone anziane, con handicap, con lunghe detenzioni manicomiali alle spalle,  o circuiti per nuovi cronici sembrano corrispondere pienamente a questo indirizzo.

  Un esempio da manuale sono stati i profughi del Kosovo che nel maggio del 1999 sono stati deportati a Comiso e sottoposti alle misure di “protezione temporanea” previste dalla legge sull’emigrazione nei paragrafi che riguardano gli extracomunitari in caso di conflitti armati o disastri naturali.

Il sindaco di Comiso ha dichiarato; “Bisogna evitare contatti tra i profughi e la criminalità. È necessario stabilire alcuni criteri di gestione del campo. Permettere ad esempio l’uscita libera di cento kossovari, magari senza una lira in tasca, potrebbe trasformarsi in falsa umanità”.

La “vera umanità” infatti sta nel tenerli chiusi mentre si va a bombardare la loro terra! Chiusi in spazi d’eccezione, vale a dire in “zone di sospensione della legge, così come zone di sospensione assoluta della legge erano i campi di concentramento”[11]

7. Oltre il modello attuariale si affaccia la prospettiva bio-tecnologica del controllo e si comincia a parlare di post-umanità

Perché disperdere energie nei trattamenti di qualunque grado se le biotecnologie sono ormai prossime a realizzare la clonazione umana? La pecora Dolly, dopotutto, ha già fatto sentire i suoi belati. E Craig Venter, ricercatore della Celera Genomic, una società biotecnologica americana, ha annunciato (nel mese di aprile del 2000) di aver messo a punto l’esatta sequenza biochimica che compone il materiale genetico umano. Tra le implicazioni inquietanti dell’ingegneria genetica non si può trascurare la programmazione di individui destinati a svolgere ruoli subalterni (schiavi) o la riprogrammazione di individui il cui comportamento sia ritenuto criminale da chi controlla la matassa dei  poteri. Ed infatti c’è già chi lavora a costruire la legittimazione culturale di questa prospettiva. Francis Fukuyama, ad esempio, un intellettuale anti-umanista americano:

« Il periodo aperto dalla rivoluzione francese ha visto fiorire diverse dottrine che si proponevano di trionfare sui limiti della natura umana, creando un nuovo tipo di essere non soggetto ai pregiudizi e alle limitazioni del passato. Il fallimento di queste esperienze, alla fine del XX secolo, ha dimostrato i limiti del costruttivismo sociale, suffragando – a contrario – un ordine liberale, imperniato sul mercato, fondato su verità manifeste attinenti alla Natura e al dio della Natura. Ma è senz’altro possibile che gli strumenti dei costruzionisti sociali del secolo, dalla socializzazione fin dalla prima infanzia all’agit prop e ai campi di lavoro, passando per la psicanalisi siano stati troppo grossolani per modificare in profondità il substrato naturale del comportamento umano. Il carattere aperto delle scienze contemporanee della natura ci permette di ipotizzare che nel corso delle prossime generazioni la biotecnologia possa dotarci degli strumenti atti a permetterci di compiere ciò che gli specialisti dell’ingegneria sociale non sono stati in grado di fare. A questo stadio, avremo definitivamente concluso la storia umana, poiché avremo abolito gli esseri umani in quanto tali. Allora incomincerà una nuova storia al di là dell’uomo»[12]

Le strategie trattamentali hanno sostanzialmente fallito il loro scopo, le strategie attuariali (contenimento di gruppi sociali a rischio entro spazi fortificati) tamponano questo fallimento, ma le biotecnologie potrebbero riuscire proprio là dove esse hanno fallito. Se i trattamenti identitari generano, simultaneamente all’identità dell’inclusione anche identità escluse (patologie da negare, trattare e purificare)), le biotecnologie potrebbero esercitarsi ad eliminare definitivamente “l’esterno”. Come non si vuole riconoscere un esterno al “villaggio globale” così non ci dovrebbe essere un “esterno” all’identità clonata di ciascun cittadino.

La dissociazione come risorsa

 Vorrei non esserci, purtroppo mi trovo qui

Vorrei evadere, ma non posso.

Vorrei dimenticare, ma come fare?

Finalmente sono uscito dalla cella,

finalmente sono evaso dal mio corpo

finalmente ho dimenticato, anche soltanto per un'ora,

di trovarmi dentro

(J. A. detenuto di lingua araba)[13]

 

Come ha fatto J. A. ad “evadere dal suo corpo”? A “dimenticare anche soltanto per un’ora” di trovarsi dentro?

J. A., come molti altri detenuti, la grande maggioranza direi, ha modificato il suo stato di coscienza: si è dissociato.

Per comprendere questa operazione compiuta da J.A. dobbiamo servirci della nozione di molteplicità identitaria elaborata da Pierre Janet.

1. Molteplicità identitaria e dissociazione

Nel 1889, Pierre Janet, pubblicando la sua tesi di laurea[14], propone un nuovo sguardo sul problema dell’unità personale che egli rappresenta come insieme di esistenze psicologiche simultanee, come insieme di personalità del tutto differenti.

Janet pone l’accento, in particolare, sulla simultaneità di queste esistenze per attirare la nostra attenzione sul fatto che egli non si riferisce a “variazioni successive della personalità” le quali, in definitiva, “non alterano l’idea di io che resta uno in tutti i momenti dell’esistenza”. In ciascun momento, egli dice, sono all’opera più di un “io”.

L’esistenza simultanea di personalità diverse in ciascuno di noi mette in crisi l’idea stessa di unità personale proiettata in un solo “io”. Questa unità e questo “io” sarebbero soltanto un’apparenza. Al loro posto opererebbe invece una molteplicità identitaria che, instancabilmente, tenta esperienze di aggregazione e di disaggregazione.

Affermare come ha fatto Janet che l’unità personale è un insieme di esistenze psicologiche simultanee ha come implicazione forte l’ordinarietà della dissociazione. La quale, come hanno documentato negli anni più recenti Ernest Hilgard (1977), Arnold Ludwig (1983) e Georges Lapassade (1996) rappresenta un dispositivo psicobiologico comune e universale soggiacente non solo ad un’ampia varietà di stati modificati (transe ipnotica, transe medianica, personalità multiple, possessione spiritica, …) ma, più in generale all’intera esperienza identitaria che tutti ordinariamente facciamo.

Nella vita ordinaria il dispositivo della dissociazione si manifesta in forme semplici, rapide, caleidoscopiche. Ad esempio mentre ascoltate la mia relazione alcune preoccupazioni legate alla vostra vita di relazione irrompono e vi “portano via” temporaneamente. Oppure una qualche mia parola apre in voi un transito improvviso verso memorie di stato proprie di altre vostre configurazioni identitarie. Ed ecco una piccola transe.

Nelle condizioni estreme il transito verso altri nodi o configurazioni identitarie viene sostanzialmente autoindotto e poco a poco si struttura ritualmente. Di seguito vedremo le fondamentali dinamiche dissociative proprie di queste esperienze.

2. Configurazioni di assenza: non vedere, non pensare, non sentire, non soffrire

«Di notte, mentre ero coricata nella mia cuccetta, circondata da donne che russavano piano, o sognavano ad alta voce, o piangevano silenziosamente, o si giravano e rigiravano – donne e ragazze che dicevano così spesso durante il giorno “non vogliamo pensare”, “non vogliamo sentire, altrimenti diventiamo pazze” – a volte provavo un’infinita tenerezza, me ne stavo sveglia e lasciavo che mi passassero davanti gli avvenimenti, le fin troppe impressioni di un giorno troppo lungo, pensavo “Su, lasciatemi essere il cuore pensante di questa baracca”»[15].

Hetty Hillesum in questa pagina di diario (1941-43) relativa alla sua esperienza nel campo di smistamento per ebrei di Westerbork ci racconta che donne e ragazze internate dicevano spesso “non vogliamo pensare”, “non vogliamo sentire”. Si tratta di una risposta di assenza alle torsioni che il loro corpo sta subendo.

Questo tipo di dissociazione che ricerca una qualche forma di disattivazione del pensiero e d’insensibilizzazione psico-fisica implica uno spostamento identitario, un mutamento di configurazione della coscienza, e, in forme spontanee, può essere indotto da una certa modificazione del proprio chimismo.

Il nostro corpo è attrezzato per mettere in campo, senza alcun intervento esterno, almeno in situazioni estreme, risposte che muovono in questa direzione: la vertigine ad esempio, lo svenimento, il sonno, o il sonno catalettico.

Vertigine, svenimento

Daniel Gonin, un medico penitenziario francese, ha osservato che tra i neo-reclusi la vertigine è un’esperienza frequente.

L’andar via, per eccellenza, il venire meno, il rendersi temporaneamente assenti. Sottrarsi a una situazione vissuta come insostenibile e, per questa via, annullarla. Questo “annullamento della realtà” – ha osservato Roger Callois – si ritrova in tutti i giochi di vertigine, vale a dire in quelle “attività ludiche che permettono di accedere a una specie di spasmo, di transe o di smarrimento che annulla la realtà con vertiginosa precipitazione”[16].

Callois fa seguire una considerazione uteriore di notevole interesse: anche chi consuma oppioidi, eroina, pratica questo gioco.

Sonno

Il sonno come risorsa analgesica e lenitiva del dolore provocato dal trauma dell’internamento è molto simile ad altre configurazioni della coscienza comunemente sperimentate dopo un lutto, una rottura affettiva o, più in generale, un’esperienza relazionale improvvisamente e inaspettatamente spezzata. Ognuno potrà quindi cercare tra le sue memorie di stato qualcosa di analogo.

Noi ci limitiamo qui[17] a due esempi specifici delle istituzioni totali.

Nel campo di concentramento di Ravensbruck una internata “non appena si metteva a sedere sulle assi cadeva addormentata. Per farla uscire dal sonno bisognava scuoterla con forza”[18]

Nel carcere di Rebibbia, a Roma, un detenuto non appena rientrava in cella dopo aver passato la giornata in semilibertà crollava istantaneamente addormentato sulla branda.

Autoproduzione di oppioidi

Un altro interessante modificatore endogeno delle configurazioni della coscienza che il nostro corpo è in grado di produrre quando venga adeguatamente stimolato, sono le endorfine, le beta endorfine e le encefaline. Si tratta di oppioidi ad effetto analgesico e anestetico che entrano in gioco per attenuare la coscienza di un forte dolore fisico, della stanchezza, della fame e di altri richiami.

Il neurofisiologo Marco Margnelli ne ha esplorato la funzione nelle esperienze estatiche[19] .

Molti carcerati trascorrono l’intero tempo dell’aria correndo ininterrottamente, oppure si flettono incessantemente sulle braccia, per autoindurre questo tipo di transe anestetica.

Non c’è film sulla vita carceraria che non mostri queste figure classiche, anche se inquadrate in contesti interpretativi assai diversi dal nostro.

Anche la letteratura carceraria, del resto, fornisce una ricca documentazione.

Chi ha letto il libro di Jeorge Jackson, uno dei primi esponenti delle Pantere Nere, morto in carcere, ricorderà che le flessioni erano una delle tecniche a cui ricorreva per “rilassarsi”.

Solgenitsin racconta le storie estreme dei faticatori, di quegli internati cioè che si sottoponevano a inenarrabili sforzi fisici per poter essere “sollevati”.

In tutti questi casi, la tecnica di stimolazione degli oppioidi passa per lo sforzo fisico.

In Tibet, i monaci lamaisti Lun-gon-pa che svolgono una funzione di collegamento tra monasteri a volte molto distanti, o per restare più vicini i maratoneti, sfruttano ritualmente questi oppioidi stimolando la loro produzione mediante la corsa.

 [Questa risposta dissociativa presenta tuttavia alcuni limiti sostanziali:

– il farmaco endogeno agisce per un arco di tempo limitato e quindi obbliga ad un lavoro ripetitivo e ciclico senza fine;

– la tolleranza agli oppioidi aumenta con il consumo e quindi obbliga il produttore consumatore a produrne quantitativi crescenti per sperimentare gli stessi effetti;

– l’intervento sul sintomo per ammutolirlo non modifica in nulla la fonte del malessere sicché chi lo opera non può risolvere il suo problema;

– la perdita di presenza impedisce il controllo della propria dissociazione e dunque espone al rischio di rovesciamento della risorsa in veleno.]

3 Dissociazione teatralizzata dal corpo

A differenza delle fenomenologie precedenti qui siamo di fronte a un gruppo di dissociazioni intese a perseguire una maggiore presenza mediante la rappresentazione espressiva, la messa in scena di ciò che l’istituzione occulta.

“Nei lager staliniani – ad esempio – alcuni criminali comuni con condanne lunghe, stanchi della vita, si suicidavano in modo particolare: si tatuavano sulla fronte le parole ‘Schiavo di Stalin’ oppure ‘Schiavo del PCUS’. Diventavano così una sfida ambulante, un’offesa costante al potere, lasciando alle guardie l’unica alternativa di fucilarli sul posto”[20].

Nelle carceri italiane la fucilazione viene sostituita dall’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ma non è detto che questo sia meglio.

Dissociazione teatralizzata dal corpo è quella mediante cui i reclusi scrivono col sangue sulla propria carne con lame, lamette, vetri, chiodi, aghi, ferro filato o quant’altro.  Si mutilano di parti del corpo – lobi, falangi – e le inviano a magistrati o funzionari. E lo fanno autoanestetizzandosi e ostentando una capacità non ordinaria di controllo del dolore.

Generalmente, queste scrizioni sul corpo vengono considerate autoaggressive, autodistruttive e classificate con una parola magica del lessico psichiatrico: autolesionismo. Ma nel vissuto di chi le mette in atto il corpo che esse feriscono è quello “lavorato” dall’insieme delle torsioni reclusive subite.

Il silenzio insondabile e reiterato opposto dal carcere alle richieste impellenti e motivate di trasferimento, per fare un esempio, taglia il corpo del detenuto con lame invisibili per giorni e per notti, per settimane e per mesi, prima che quello stesso detenuto decida di dissociarsi dal corpo e far vedere quei tagli servendosi di una lametta.

Questa forma di dissociazione teatralizzata riporta l’attenzione sullo scempio compiuto e occultato dall’istituzione, lo mostra ricorrendo ad un linguaggio analogico: mi hai reso cieco, dunque mi cucio le palpebre; mi hai reso muto, quindi m’infilzo le labbra; mi hai tolto la sessualità, perciò mi mozzo il pene. Il corpo dissociato diventa in tal modo scena e teatro delle torture che lo hanno invisibilmente attraversato.

Automanipolare il corpo per esporre le ferite che non lasciano segni esteriori coniuga la dissociazione con il suo padroneggiamento. Come se ci venisse detto: “Dissociandomi da ‘quel corpo’ me ne riapproprio per incidere sulla sua pelle la ‘mia’ storia, la ‘mia’ narrazione, la ‘mia’ identità. Un’identità nuova, più che ribadita; una identità di transe scritta col sangue e, dunque, ancora viva.

Quanto sia relativa la nozione di autolesionismo, del resto, appare evidente da una presa di posizione di Francesco Ceraudo, presidente nazionale dei medici penitenziari, che, di fronte ai reiterati silenzi del ministero di Grazia e Giustizia alle richieste della sua categoria, ha dichiarato: «Mi farò cucire la bocca con veri e propri punti di sutura se non riceverò prontamente una risposta. E lo farò per far capire che si sono voluti imbavagliare i medici penitenziari.»[21]

Può essere di un qualche interesse anche la comparazione di questa risposta con le transe fachiriche  che si presentano nel rituale sufi di alcune tarique, segnatamente i Rifa’iyya di Skhoder, nei Balcani, e i Qadiriyya di Baghdad.

In entrambi i casi, ad una certa fase del rituale entrati in transe dopo la danza rotante ,“i devoti iniziano a compiere incredibili performances fachiriche quali trafiggersi i fianchi con delle spade o infilzarsi il capo con dei coltelli”[22].

Lo stato di coscienza e del corpo che si presenta in queste esperienze fachiriche sarebbe analogo a quello che si registra nell’anestesia ipnotica[23].

Ma, al di là di questa notazione neuro-fisiologica, l’aspetto più interessante sembra essere quello riferito allo sdoppiamento identitario. Nello stato di transe fachirica l’adepto si identifica con Ahmed Rifa’i, fondatore nel XII secolo, a Bassora, della tariqa. E, come egli ritiene riuscisse a fare questi, domina il dolore o neutralizza il veleno micidiale dei serpenti e degli scorpioni.

  La transe fachirica teatralizza il controllo del dolore realizzato mediante una dissociazione identitaria; proprio come, in contesti culturali diversi e non ritualizzati, il detenuto che manipola il corpo di cui è stato espropriato dall’istituzione, controlla il dolore delle torsioni reclusive dissociandosi da esso e riaffermando, mediante questa dissociazione, una sua identità intatta ed altra.

4. DISSOCIAZIONE ADATTATIVA: DUE VARIANTI

4.1 Sopravvivere ad ogni costo: l’identità di conversione

È una risposta frequente nelle situazioni estreme. La ritroviamo infatti sia nei campi di concentramento nazisti, con i kapò[24], che nei gulag sovietici, con gli intendenti che mantenevano l’ordine interno bastonando a più non posso e perfino uccidendo altri prigionieri[25]. Ma è comune anche tra gli ergastolani[26] e nei manicomi[27].

  Chi mette in atto questa risposta, a fronte della condizione estrema che lo sta torturando opera una dissociazione radicale dalle convinzioni etiche, morali, politiche, religiose o comunque ideologiche in precedenza acquisite. Si dissocia da quel patrimonio culturale che fino a quel momento definiva i confini della sua identità pubblica. Se esso poteva avere un valore “prima”, nel nuovo contesto sicuramente non ne ha più alcuno.

Ogni comportamento gli appare dunque legittimo pur di sopravvivere.

Ma, sopravvivere ad ogni costo significa necessariamente sopravvivere a costo di altri. E così questa scelta implica, oltre alla dissociazione dalla propria precedente identità, anche una desolidarizzazione nei confronti di chiunque (ognuno è solo contro tutti); una indifferenza per la sorte comune; e l’affermazione di un interesse esclusivo per la propria sorte.

In breve, la parte dissociata si costruisce, si organizza intorno ad un nuovo nucleo identitario che potremmo chiamare identità di conversione.

Alcuni ricercatori per definire questa condizione hanno elaborato, infatti, la nozione di conversione: “Il soggetto assume come proprio, e lo considera come unico possibile, il giudizio che dà lo staff su di lui e su tutto l’ambiente circostante” (Goffman)[28].

Prima ancora, Clemmer (1940) aveva proposto la nozione di prisonizzazione: “Processo di progressiva assunzione da parte del ristretto dei valori, dei principi e della cultura, oltre che degli atteggiamenti e delle abitudini tipiche del clima carcerario” (Clemmer 1940)[29].

Conversione e prisonizzazione, possono sfociare, per usare le parole di Goffman, in una sorta di colonizzazione: “Il soggetto si adatta alla vita istituzionale che diventa, da un certo momento in avanti, l’unica concepibile per lui”.[30]

Dopo aver dissociato il passato ecco che si compie, infine, anche lo smarrimento del futuro. Se ci sarà un “dopo” ci sarà solo grazie – e per grazia – dell’istituzione reclusiva. La propria traiettoria appare in tutto e per tutto “esterna a sé” e rispetto ad essa ci si dichiara insieme impotenti ed irresponsabili.

L’adattamento, a questo punto, assume la forma di una vera e propria dipendenza.

4.2 Sopravvivere ma non ad ogni costo

 Nell’estate del 1941, racconta Margarete Buber Neuman, le SS introdussero nella sartoria di Ravensbruck i turni di notte che aggravarono lo stato di debilitazione delle prigioniere.

Nel campo si verificarono alcuni casi di paralisi che arrivarono in breve tempo ad un centinaio.

Le malate presentavano tutte gli stessi sintomi: all’improvviso diventavano incapaci di compiere il benché minimo movimento. Fu diagnosticata una epidemia di poliomielite e fu imposta la quarantena.

Dopo circa due settimane arrivò nel campo un medico delle SS specialista in poliomielite. Saltò fuori che la paralisi era dovuta a una psicosi di massa. Alcune malate furono sottoposte a scariche elettriche che le fecero sobbalzare come ranocchie. Quando le altre lo vennero a sapere recuperarono all’istante le loro capacità di movimento.

  Questo episodio illustra una risposta di adattamento al lavoro forzato nel campo di concentramento che tuttavia rifiuta, di superare una certa soglia di fatica. Oltre quella soglia le internate in questione si dissociano dal proprio corpo che resta lì, paralizzato, inidoneo al lavoro e, nello stesso tempo, irresponsabile di questa inidoneità.

  Un altro episodio, raccontato ancora da Margarete Buber-Neumann e avvenuto nello stesso campo, ci fornisce ulteriori elementi per approfondire la risposta di adattamento ma non ad ogni costo.

Le 275 Testimoni di Geova internate nel campo di Ravensbruck “sembravano tutte aver completamente interiorizzato l’ordinamento del campo”. Questo blocco veniva portato ad esempio di ordine esemplare e modello anche dagli ufficiali delle SS. In realtà però non si trattava di una scelta di ‘sopravvivere ad ogni costo’ come dimostra il fatto che, le stesse internate, resistettero fermamente alla proposta di abiura della loro fede.

“In un certo senso le Testimoni di Geova si potevano ritenere delle ‘prigioniere volontarie’. Infatti per essere immediatamente rilasciate sarebbe stato sufficiente presentarsi al capo sorvegliante e firmare una dichiarazione con la quale abiuravano la loro fede. Il testo del documento suonava all’incirca così: ‘Con la presente dichiaro che da questo momento non sono più una Testimone di Geova e non presterò più il mio sostegno all’Unione Internazionale dei Testimoni di Geova, né con la predicazione, né con gli scritti’.”

L’adattamento messo in atto dalle Testimoni di Geova nel campo di Ravensbruck può essere considerato, per limpidezza di comportamenti, paradigmatico.

C’è un adattamento esemplare a norme e regolamenti estremi e perfino assurdi. Ma, insieme, c’è anche un rifiuto, altrettanto esemplare, ad abiurare, a varcare i confini del nucleo cultural-religioso della loro identità.

Le Testimoni di Geova si presentano così come internate nettamente dissociate ma pienamente in grado di controllare la loro dissociazione, presenti ad essa.

Il loro adattamento risponde a una strategia di gruppo interessata a salvaguardare il gruppo e, insieme, i valori che tessono la sua coesione. La sopravvivenza di ciascuna di esse non può in alcun caso tradire i valori comuni.

Anche i Batisti nei gulag sovietici, e molti detenuti politici italiani negli ultimi trent’anni, hanno messo in atto questo dispositivo di “adattamento non ad ogni costo”. Che possiamo schematicamente riassumere in tre linee di forza:

a) Non è importante il fine (sopravvivere) ma come ogni giorno e a quale prezzo si persegue quel fine.

b) Il patrimonio di valori etici, politici o religiosi che era stato posto a fondamento della propria vita fino al momento dell’arresto non deve essere intaccato dall’adattamento; esso peraltro corrisponde ad una rete di relazioni comunque operanti, anche se interrotte.

c) Come c’è stato un “prima”, così ci potrà essere un “dopo” l’istituzione totale, non per sua “grazia” ma nonostante essa.

d) il patrimonio di valori e la rete relazionale che lo tiene in vita, il “prima” e il “dopo” costituiscono àncore di riferimento capaci di infondere energie per un’attività interiore di resistenza alle mortificazioni inflitte dalla reclusione.

4.2.1 La salute spirituale e l’ascesa

Secondo Solzenicyn, una implicazione dell’adattamento “non ad ogni costo” sarebbe la salute spirituale. Grazie al mirabile influsso dello spirito sereno sul corpo umano chi compie questa scelta manterrebbe il suo corpo in grande forma anche nelle condizioni più avverse.

Di più, questa scelta può diventare anche la premessa di una ascesa spirituale:

“Se hai rinunciato a sopravvivere a qualunque costo, la reclusione inizia una mirabile trasformazione del tuo carattere: l’Ascesa”.

“In carcere (nell’isolamento, ma anche in celle comuni) l’uomo è contrapposto al suo dolore. Questo è una montagna, ma lui deve assimilarlo, abituarvisi, rielaborare il dolore in sé, e sé nel dolore. È l’opera morale suprema, ha sempre elevato tutti. Il duello con gli anni e le mura è un lavoro morale e una via verso l’ascesa (se uno riesce a percorrerla)”[31].

In effetti non mancano significative testimonianze su questo percorso di ascesa. Etty Hillesum, ad esempio, nei suoi Diari[32] scrive: “Com’è possibile che quel pezzetto di brughiera recintato dal filo spinato, dove si riversava e scorreva tanto dolore umano, sia diventato un ricordo quasi dolce? Che il mio spirito non sia diventato più tetro in quel luogo, ma più luminoso e sereno?”. Il centro di dolore umano a cui Etty fa riferimento è il campo di smistamento di Westerbork, da cui partirà per Auschwitz, dove incontrerà la morte nel 1943.

 4.2.2 La dissociazione autoscopica

Una variante singolare, non di gruppo, di questo orientamento è quella attuata da Bruno Bettelheim, Victor Frankl, Primo Levi, Yehiel de-Nur tra altri, nei campi di concentramento, e da molti carcerati e manicomializzati in tutto il mondo. Si tratta in breve di una dissociazione autoscopica, e cioè della maturazione di un nuovo nodo identitario: l’io che osserva ciò che fa e che viene fatto al recluso. L’io che osserva guarda freddamente ciò che fa il recluso, ciò che gli fanno, e ciò che fanno intorno tanti altri. Osserva e registra in una memoria di stato minuziosa, quella che sarà poi, in un mutato contesto, la sua testimonianza. Osserva per testimoniare.

Se esco vivo di qui, dice l’io dissociato che osserva, darò testimonianza di ciò che è successo a questo corpo e a tanti altri che ho visto…

Questa configurazione identitaria osservatrice non va confusa con quella che molti osservatori definiscono Osservatore nascosto. Quest’ultima infatti è in stretta relazione con la rete identitaria che osserva e il suo linguaggio non è verbale, mentre la prima si istituisce, sin dall’inizio, con una intenzione pubblica e un linguaggio verbale. È anch’essa un testimone, ma un testimone estroverso. Osserva per poi riferire al mondo e per questa funzione peculiare attrezza le sue censure e la sua memoria. Forse proprio questa è anche la ragione del fatto che le sue testimonianze quando finalmente vengono date lasciano che le dà sempre insoddisfatto. Qualcosa, gli sembra, non è stato detto, qualcosa di essenziale, ma cosa? Paradossalmente per quanto non sia facile ammetterlo e riconoscerlo anche questa è una configurazione identitaria di assenza.

Molti sopravvissuti ad una condizione estrema che avevano seguito questa via, riguadagnata la libertà, dopo ripetute e pubbliche testimonianze, si sono uccisi (Bettelheim, Levi); mentre altri dopo anni di smarrimento si sono lasciati morire (Antonin Artaud)[33]; ed altri ancora, pur dopo voluminose testimonianze, hanno ritenuto di non essere ancora riusciti a dire ciò che nell’internamento si erano proposti di dire; di non esserci riusciti con il pubblico ma neppure con se stessi (De Nur)[34].

Si può concludere allora con una semplice e difficile domanda: chi ha ucciso Bettelheim e Levi? Chi ha spinto Artaud a lasciarsi morire? Chi ha impedito a De Nur di dirsi e dire ciò che sentiva di dover dire?

Aleksàndr Solzenicyn ritiene che chi ha sopportato il lager “come se fosse d’acciaio” e si è disintegrato non appena riottenuta la libertà è rimasto ucciso da un “fenomeno di decompressione”.

Ma che significa in sostanza la parola “decompressione”?

Forse essa allude all’incapacità di gestire, nel nuovo contesto, le dinamiche dissolutive delle operazioni di dissociazione compiute durante il periodo di “compressione” reclusiva.

Forse essa rimarca l’assenza di una sufficiente consapevolezza della propria molteplicità identitaria. Come dire che queste “vittime della libertà” sono, prima ancora, vittime di un’epistemologia errata che porta a far coincidere l’identità dissociata costruita per far fronte alla reclusione con l’Identità tout-court.

Per questo non convince la nozione di immunizzazione che Goffman e altri hanno proposto per rappresentare quella resistenza alla depersonalizzazione che consisterebbe nel “porsi un po’ nella posizione dell’etnologo tradizionale e studiare l’ambiente come se esso fosse un mondo estraneo al proprio”[35]. Ciò può indubbiamente corazzare, come testimonia un detenuto che ha praticato questa via, contro “le multiformi sevizie” ma non può impedire al “veleno del carcere” di esercitare la sua mortificazione.

   5. Creazione di mondi di Senso

Ciò che mi succede è intollerabile: non potendo sottrarmi realmente alla situazione mi sottraggo istituendo un Altrove in cui autorecludermi e ricrearmi.

C’è qui il ricorso alla fantasia che consentendo una fuga immaginaria, illusoria, rende in qualche modo possibile creare un mondo sostitutivo.

Come il bruco verde si crea un bozzolo in cui rinchiudersi per attuare la sua metamorfosi in farfalla, così il recluso può crearsi una personalissima prigione di segni in cui proteggersi e tentare una riunificazione delle sue parti dissociate intorno ad una nuova identità.

Caratteristiche salienti della risposta creativa è quella di contrapporre al dolore inflitto dalla privazione del contesto relazionale aperto un atto creativo di segni che diano vita, forma ed espressione a nuove relazioni immaginarie.

Un atto e non il suo prodotto!

Questi linguaggi, infatti, non possono prescindere dalla ripetizione instancabile dell’atto che li genera, perché solo in questa ripetizione, nel suo farsi e disfarsi, il dolore esistenziale momentaneamente si acquieta e comunque si ritira sullo sfondo.

Nell’atto è il corpo stesso che si mette in gioco, gioca, appunto, e così facendo libera endorfine, beta endorfine, encefaline, vale a dire oppiacei analgesici, come nell’esperienza estatica.

  Dissociazione segnica: il mondo di segni creato è una prigione volontaria.

Nondimeno, come ogni altro atto creativo è anche una terapia. E in quanto tale può essere portatrice di autoguarigione.

Questa prigione dev’essere incessantemente reistituita, poiché è funzione dell’atto che la istituisce e non del suo prodotto.

Colui che la istituisce tendenzialmente non vorrebbe più uscirne perché fuori ritrova immediatamente i mondi reali da cui fugge.

Per la creazione di un altrove di segni il soggetto pesca nei bacini culturali già interiorizzati, nel patrimonio semiotico accumulato nel corso della vita.

Nondimeno il “nuovo mondo” manifesta una certa indifferenza ai codici vigenti nella vita ordinaria. E ciò non dipende dal grado di acculturazione e di competenza linguistica, ma dalla necessità di “stare fuori” da quelle norme che sono pur sempre il tessuto di quel mondo che ha escluso e recluso il loro autore.

Questa risposta elimina nello stesso tempo il “prima”, il “durante” e il “dopo”: lo spazio tempo che essa istituisce è puramente immaginario.

Implicazioni:

1) Il rimedio che ti salva, ti uccide. Poiché è una risposta non esce dalla relazione. La parte che ti salva porta con sé l'imprint della condizione reclusiva.

2) L’eventuale cambiamento di contesto viene rifiutato poiché distrugge il “mondo-rifugio” in cui ci si è rinserrati. Ma quel “mondo rifugio” porta con se l’imprint del contesto in cui è stato creato e nel nuovo contesto non può più funzionare come una sia pur paradossale risorsa.

3) Rischio di rovesciamento della risorsa in veleno. Chi pratica questa risorsa infatti non esce dalla reclusione che gli procura dolore; mentre, più la pratica, più da essa dipende, e più, di conseguenza, ne diventa prigioniero. Prigioniero volontario e, quindi, carcerato e carceriere di se stesso. Una nuova dissociazione che strutturandosi finisce per smarrire la sua ragione originaria e la sua funzione (che è quella di essere una risorsa in una situazione mortificante) e si trasforma in una nuova, più occulta e più dolorosa catena (Tea).

[36]

[1] Un inciso: possiamo ricondurre a questa tensione anche l’importante osservazione di Ivan Ilich secondo cui, ai nostri giorni, i guardiani dell’istituito non si limitano a difendere l’acquisito ma si attivano nel proporre i valori e i parametri culturali dell’istituzione come mito, per costruire nella situazione in cui operano la percezione sociale della loro carenza e, quindi, per fare nascere l’illusione della loro necessità.

[2] Foucault Michel, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 1993, Einaudi

[3] L’incorreggibile, per Foucault, è “colui che oppone resistenza a ogni disciplina”. Esso manifesta il fallimento delle tecniche di addestramento e delle procedure di raddrizzamento familiari. proprio per ciò richiama una nuova tecnologia del raddrizzameznto e della correzione. La nozione di incorreggibile  nasce nel XVIII secolo e implica la genesi delle istituzioni correzionali e trattamentali moderne. Michel Foucault, Gli anormali, Milano 2000, Feltrinelli

[4] Franco Basaglia, L’istituzione negata, Milano1968, Einaudi, p. 115

[5] Franco Basaglia, L’esclusione (la soluzione finale), in AA.VV., Le scelte del 68, Milano 1998, Libro del Leoncavallo

[6] Franco Basaglia, L’istituzione negata, Milano1968, Einaudi

[7]Antonella Sapio, Cosicomesei, Dogliani 2000, Sensibili alle foglie

[8] Janet Pierre, Disaggregazione spiritismo doppie personalità, Roma 1996, Sensibili alle foglie

[9] Il termine “attuariale” richiama la matematica applicata alle assicurazioni. “Dal punto di vista della logica assicurativa esiste un complesso di fattori di rischio (ineliminabili) che sono distribuiti casualmente nell’ambito di una collettività e che dunque non sono direttamente riferibili a singoli soggetti, se non in quanto questi rientrino in gruppi determinati e qualificati in base a maggiori o minori tassi di rischiosità” (Alessandro De Giorgi, Le teorie della penologia attuariale, Tesi di Laurea in diritto penale avanzato, Università degli studi di Bologna, Facoltà di Giurisprudenza, Anno Accademico 1997/1998).

[10] Una interessante rassegna degli orientamenti criminologici di impostazione attuariale la offre Alessandro De Giorgi, Le teorie della penologia attuariale, Tesi di Laurea in diritto penale avanzato, Università degli studi di Bologna, Facoltà di Giurisprudenza, Anno Accademico 1997/1998

[11] Intervista al filosofo Giorgio Agamben (16/02/2000), Archivio personale

[12] Francis Fukuyama, La fin de l’histoire dix ans aprés, Le Monde, 17 giugno 199; Patrick Viveret, Una sfida all’umanesimo, Le Monde Diplomatique-Il manifesto, 22 febbraio 1999

[13] In Facce e maschere, n. 2, Luglio 1997, Giornale prodotto dal Progetto Ekotonos, Carcere di San Vittore, Milano

[14] Pierre Janet, L’Automatisme psychologique, … …; tr. it.: Disaggregazione, spiritismo, doppie personalità, Roma 1996, Sensibili alle foglie

[15] Hetty Hillesum, Diario 1941-43, Milano 1987, Adelphi

[16] Roger Callois, Il gioco e gli uomini, Milano 1995

[17] In Nel Bosco di Bistorco abbiamo dedicato un capitolo al sonno dei cacerati.

[18] Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e Hitler”, Bologna 1994, Il Mulino

[19] Marco Margnelli, L’estasi, Roma …, Sensibili alle foglie

[20] Victor Zaglavsky, in Margarete Buber-Neumann ……

[21] Carceri, tutti contro Flick, il Manifesto, 16-06-1998

[22] Pietro Fumarola, Georges Lapassade, Guglielmo Zappatore, Estasi, Possessione e simbolismi sincretici nel mondo islamico, Lecce  …, Lacaita editore

[23] Marco Margnelli, L’estasi, Roma 1996, Sensibili alle foglie.

[24] Alcuni internati nei campi di concentramento nazisti cercavano di vestirsi come le SS e imitavano i loro giochi di ardimento (chi regge più frustate, ad esempio).

[25] Aleksànder Solzenicin, Arcipelago Gulag V, VI, VII, Milano …, Mondadori, p. 74

[26] Nicola Valentino, Ergastolo, Roma 1994, Sensibili alle foglie. In particolare pp. 65-67.

[27] Nicola Valentino, Ergastolo, Roma 1994, Sensibili alle foglie. In particolare p. 65.

[28] Goffman E., Asylums, Torino 1968, Einaudi

[29] Clemmer D., The prison community, Christopher Houge Bogton, 1940

[30] Goffman E., Asylums, Torino 1968, Einaudi

[31] Aleksàndr Solzenicyn, Arcipelago gulag, Milano 1975, Mondadori

[32] Hetty Hillesum, Diario 1941-1943, Milano 1985, Adelphi Edizioni

[33] Antonin Artaud, Nel vortice dell’elettroschoc, Roma 1998, Sensibili alle foglie

[34] Ka-Tzetnik 135633, Shiviti. Una visione, Roma 1997, Sensibili alle foglie

[35] Aldo Ricci e Giulio Salierno, Il carcere in Italia, Torino 1971, Einaudi

Coop. Sensibili alle Fogli (Renato Curcio)

 

 

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