Immigrati e città postindustriale

 

Immigrati e città postindustriale-globale:

esclusione, criminalizzazione e inserimento

di Salvatore Palidda

 

Questo testo propone alcune riflessioni (problematiche) a partire da diverse ricerche recenti, meno recenti e in corso su vari aspetti delle immigrazioni in alcune città italiane ed europee. I due aspetti principali qui affrontati riguardano le dinamiche della socialità e dell’inserimento socioabitativo degli immigrati, come insieme di interazioni (“positive", “negative", pacifiche o conflittuali) tra immigrati e società urbana, e le variazioni di queste dinamiche nel contesto dei mutamenti connessi allo sviluppo della città “postindustriale-globale". Lo studio di questi aspetti si rifà a un approccio di tipo etnografico che assume come oggetto di ricerca le interazioni tra gli specifici gruppi, reticoli e correnti di emigrati-immigrati e i vari segmenti della società urbana, quindi le dinamiche del loro adattamento, attraverso anche la ricostruzione delle “storie" dell'inserimento in precisi segmenti o nicchie di attività economiche in diversi spazi urbani (sincronia e diacronia).

Si propone qui l’uso dei termini reticoli o gruppi perché questi sembrano più appropriati in particolare nel caso dell’immigrazione in Italia e nell’Europa continentale.

In effetti i termini etnia e comunità sembrano idonei quando si tratta di entità sociali che non solo hanno una certa consistenza, ma comprendono gli elementi costitutivi della dimensione etnica o comunitaria: un sistema di valori e di comportamenti cui corrisponda un'autorità religiosa e un'autorità sociopolitica, dunque un controllo sociale endogeno, strutture e pratiche simboliche, sistema di relazioni con altre entità sociali e un dato posizionamento nell’ordine economico, sociale, politico e culturale. Com’è noto etnie e comunità corrispondenti a questi requisiti esistono nei paesi in cui s’è di fatto affermato un sistema di etnicizzazione di varie entità sociali (Stati Uniti, Inghilterra, Canada), in cui cioè il sistema di relazioni economiche, sociali e politiche funziona non solo sulla base di norme universali di regolazione delle relazioni tra individui e tra questi e lo stato, ma anche sulla base di norme e regole informali che attribuiscono certi diritti e doveri alle etnie o comunità e dunque ai loro membri in quanto appartenenti a tali entità sociali. Peraltro le migrazioni recenti corrispondono a piccole catene migratorie e hanno prodotto reticoli o gruppi dotati di frammenti della cultura folklorica, locale, della società d’origine più o meno ricodificati non solo nell’adattamento che implica l’immigrazione e soprattutto la stabilizzazione, ma anche attraverso l'influenza delle mode e modelli omologanti. Tuttavia, alcuni casi, per esempio gli eritrei, alcuni reticoli di filippini e dei cinesi, potrebbero permettere di parlare di piccole comunità, termine che invece appare assai discutibile a proposito dei reticoli o cerchie amicali senegalesi, di marocchini e di altri. L'etnicizzazione osservabile in questi ultimi anni è del tutto subalterna alle scelte degli attori autoctoni dominanti e meno una dinamica endogena. Ricordiamo anche che assai spesso i termini etnia, comunità o cultura sono di fatto usati come sinonimi di razza. Adottando questo approccio (che impone uno sforzo pluridisciplinare, che articola micro e macro, qualitativo e quantitativo, sincronico e diacronico) è forse possibile superare gli schematismi o modelli interpretativi come la dicotomia tra “etnicizzazione" e “assimilazione", oppure il generico se non demagogico discorso sulla città “multietnica" o “multiculturale" (Sayad 1996; Dal Lago 1998, Palidda 1996).

1. La necessità di una soddisfacente comprensione dei mutamenti (tra continuità e rotture o ricodificazioni) connessi al cosiddetto passaggio alla città “postindustriale-globale" riguarda in particolare la ridefinizione dei vari aspetti dell'immigrazione in un assetto urbano che è in profonda trasformazione. La questione è capire come l'immigrazione si inserisce in un contesto marcato da uno sviluppo contraddittorio degli aspetti postindustriali e dalla globalizzazione, sviluppo che prescinde dall'impatto della stessa immigrazione, ma a cui questa potrebbe contribuire (va ricordato che, grazie alla sua “funzione specchio", l'immigrazione permette di cogliere meglio alcuni cambiamenti significativi della società urbana).

2. Anche nell'immigrazione recente sembrano riprodursi vari aspetti e caratteristiche delle vecchie correnti migratorie (catene migratorie, riproduzione di reticoli o gruppi di immigrati, norìa, “fasi", “tappe" o “età" dell'immigrazione, dinamica del passaggio dal lavoro salariato al lavoro indipendente, dinamica delle forme di aggregazione, endogamia, ricodificazione della religiosità, ecc). (Palidda, Reyneri, 1995). Ma il contesto è profondamente mutato. L'immigrazione nelle società urbane marcate dal ruolo dominante dell'industria, anche quando si sono via via sviluppati il terziario e la proiezione delle strutture produttive verso le periferie, induceva ogni inurbato a una disciplina sociale che riguardava anche l'uso più o meno omologato delle strutture e degli spazi pubblici e privati. Va anche ricordato che l'“assimilazione" più o meno coerente o anche contraddittoria delle logiche, delle forme, dei gusti estetici e anche di vari aspetti tecnici dell'assetto degli spazi abitativi e sociali, ha spesso indotto l'immigrato a cercare di trasferirli anche nella società d'origine quando s'è costruito o ricostruito la casa o un'attività al paese. Il ruolo dei muratori e dei lavoratori delle costruzioni è stato ed è ancora assai significativo. Alcuni sono anche diventati gli imprenditori e gli artigiani a volte maggioritari tra le maestranze impegnate nello sviluppo urbano delle città d'immigrazione e anche dei comuni d'origine (Corti 1990; Miranda 1997; Palidda 1991, 1992). Così come ieri la maggioranza delle maestranze dell'edilizia a Milano è stata composta da bergamaschi e meridionali, oggi tende ad essere composta da egiziani e albanesi.

In altri termini, benché in alcuni casi si siano potuti teorizzare modelli di etnicizzazione degli spazi urbani occupati dagli immigrati (o semplicemente lasciati a disposizione di un loro inserimento etnicizzato), sin quando il modello sociale dominante è stato quello della società industriale la stessa “etnicizzazione" era subalterna a questo modello (è in tal senso che si possono rileggere gli autori della scuola di Chicago o i più recenti autori americani tra cui M. Davis). Ma non è detto che in un contesto di segmentazione eterogenea e discontinua quale quello odierno vi sia effettivo sviluppo dell'etnicizzazione conosciuta in passato piuttosto che una semplice proliferazione di specificità più o meno omologate rispetto al nuovo assetto. Se si adotta la tesi di Deleuze (1990) a proposito del cambiamento del controllo sociale nel passaggio dallasocietà disciplinare", teorizzata da Foucault, alla “società dei controlli", si potrebbe dire che gli spazi urbani etnicizzati non sono altro che segmenti di un assetto metropolitano che tende a caratterizzarsi per la proliferazione di tali entità, siano esse eterogenee e discontinue. In altri termini se da un lato si potrebbe pensare a una maggiore libertà" per la dinamica etnica", dall'altro questa dinamica sembra più subalterna alle logiche dominanti (omologanti) che sminuiscono la specificità, soprattutto quella espressione endogena (autonoma) prodotta dalla ricodificazione (nell'adattamento) di elementi e comportamenti della cultura d'origine.

È nei paesi anglosassoni che è prevalso il modello dell'etnicizzazione", mentre nell'Europa continentale è prevalso quello dell'“assimilazione" opposto alla temporaneità in vista del rientro. Ma anche laddove l'assimilazione è di fatto forzata — coniugandosi con l'acculturazione autoritaria dei figli di immigrati, con i condizionamenti del “crogiolo" delle strutture produttive di massa (Noiriel 1988, Gribaudi 1987) e con le strutture abitative “disciplinari", come le cités ouvrières o i quartieri di transito" degli anni '50, '60 e '70 (Sayad 1995) — l'appartenenza specifica a un reticolo o gruppo prodotto da una specifica catena migratoria di parenti o compaesani s'è a volte rafforzata in forme più o meno poco appariscenti, come elemento decisivo rispetto alla sfera privata, rendibilizzato rispetto all'inserimento sociale o al contrario inevitabilmente etichettante in senso negativo.

Furono per esempio i padroni delle birrerie tedesche a favorire la diffusione delle pizzerie e poi dei ristoranti “etnici", sia perché il mercato era saturo, sia perché la domanda di una nuova ristorazione prometteva grossi profitti (Palidda 1991). Per altri versi e con altre dinamiche, la formazione di quartieri o zone di commerci e attività “etnicamente" connotati in varie città europee (si pensi a Belsunce a Marsiglia o a Barbès e poi al triangolo asiatico di Choisy-avenue d'Italie-Tolbiac a Parigi e ad altri ancora (Tarrius, 1995) s'è di fatto situato in un contesto di sviluppo urbano che è stato più o meno comune a tutte le città. Artefici del ruolo degli immigrati nello sviluppo urbano sono sempre state le élites emergenti dall'immigrazione, attraverso il loro adattamento a occupare gli spazi lasciati vuoti dagli autoctoni.

3. Mentre lo sviluppo della città industriale può essere descritto innanzitutto come un processo di “internalizzazione” (Moulier-Boutang 1997), cioè come concentrazione delle strutture produttive e della manodopera nelle aree urbane dei paesi dominanti, all'opposto il paradigma dello sviluppo della città postindustriale-globale" consiste nell'“esternalizzazione”, cioè nella delocalizzazione diretta della produzione e di varie attività, o quella del subappalto in cascata, nelle società dominate. Lo sviluppo della globalizzazione è infatti passaggio da un'esternalizzazione come “indotto" nei pressi dei siti industriali tradizionali a un'esternalizzazione delocalizzata nei paesi di emigrazione. Il gioco delle delocalizzazioni (spostamenti sempre più frequenti da un paese all'altro) sembra spiegare meglio le politiche opposte alla migrazione poiché tale gioco implica l'“imbrigliamento" e dunque la fissazione della forza lavoro nelle società locali destinate alle delocalizzazioni. Allo stesso tempo tali politiche sembrano imporsi come “necessità" di restringere privilegi, reali o propagandati come prossimi, della cittadinanza dei paesi ricchi ai soli autoctoni (Dal Lago 1998). La migrazione appare dunque inconciliabile con la difesa di tali privilegi e con la delocalizzazione globale, ma resta sempre una necessità sia per certi segmenti economici, sia come fatto sociale ineliminabile in quanto profonda aspirazione alla libertà di movimento dell'essere umano, ancor più nell'epoca della globalizzazione (la migrazione odierna è spesso rischio della stessa vita). In effetti, la globalizzazione (che è sviluppo della comunicazione, dei trasporti, ecc.) accresce l'omologazione e la diffusione dei modelli sociali, delle aspirazioni sociali e, fra l'altro, anche dei modelli architettonici e urbanistici. Il migrante di oggi, prima ancora di emigrare la prima volta, ha già visto in tv le immagini delle città dei paesi ricchi (grazie alle antenne satellitari diffuse anche negli angoli più sperduti dei paesi del sud, più che in quelli del nord) e a volte ha già visto nelle città del suo paese le nuove mode architettoniche e urbanistiche (Casablanca ha quasi 5 milioni di abitanti e quartieri moderni come quelli europei). In altri termini, il migrante di oggi è per certi versi “meno spaesato" di quanto potesse essere l'originario di certe vallate del nord, del centro o del sud Italia al suo arrivo a Milano, a Parigi o altrove negli anni '50 e ancora negli anni '60. Il concetto di spaesamento" si rifà a Todorov (1996). Per evitare un uso fuorviante o superficiale dei concetti di spaesamento o di “crisi d'identità" o ancora di “patologie", è forse più opportuno parlare di variazioni dell'identità connesse all'emigrazione-immigrazione. Queste si innescano sin dal momento che si pensa l'emigrazione e comincia con la rottura di fatto rispetto alla società locale di partenza — chi non rompe resta, anche se vive nelle stesse condizioni di chi parte — e continua con varie ricodificazioni, spesso contraddittorie, dei riferimenti alla cultura di origine e alla cultura della società locale di arrivo.

Come osserva Signorelli (1997): «Nessuna vita umana coincide più con un solo luogo [ma] se è vero che anche il più sedentario fra noi vive ormai in una pluralità di luoghi, è vero altresì che nessuno può fare a meno di referenti spaziali». L'immigrato arriva oggi in un assetto urbano che oscilla tra degrado e riconversioni, tra una sorta di incertezza su come si ridefiniscono i vari segmenti della città e lo sviluppo delle mode omologanti. Non ha da adattarsi ad un contesto rigido, ma a una realtà “flessibile", in divenire, dove l'unica cosa che sembra certa è la tendenza alla ridefinizione di un ordine sociale perbenista che si traduce nella limitazione e poi nel divieto di accesso agli spazi pubblici per gli immigrati “malinseriti" ma anche per gli esclusi autoctoni. Tuttavia percepisce che questa esclusione “civica" corrisponde ad un meccanismo di inferiorizzazione e cerca una sua strategia di aggiramento degli ostacoli innanzitutto attraverso la rendibilizzazione del “capitale sociale" del suo reticolo o gruppo, ma anche attraverso relazioni con autoctoni “amici" o partners.

Benché ci siano ancora molte similitudini tra le migrazioni di oggi e quelle di ieri per quanto riguarda l'accesso ad una condizione socioabitativa decente, l'immigrato di oggi si trova ad affrontare alcuni problemi ben più difficilmente superabili. Come descrivono Alasia e Montaldi (1960) in Milano-Corea, o come scrive Fofi (1964) a proposito dell'immigrazione a Torino, l'indigenza marcava la condizione abitativa degli immigrati negli anni '50 e poi anche dopo (Pellicciari 1970). Ancora all'inizio degli anni '70 nella periferia di Düsseldorf si potevano scoprire in grandi “buche", scavate in vista di nuove mega-costruzioni, delle baracche in cui si intasavano decine di meridionali italiani che lavorando nell'edilizia e spesso al nero non avevano il posto letto in genere assegnato all'operaio della fabbrica e preferivano l'alloggio indigente per risparmiare al massimo e poter tornare prima al paese. Ma oggi per gli albanesi di Scutari l'indigenza abitativa più estrema (nei pressi del quartiere Vigentino a Milano) non è una “scelta" ma di fatto l'unico spazio accessibile.

4. Tuttavia, per gli immigrati stranieri degli anni ’70 sino a oggi l'inserimento nelle città italiane ed europee sembra per certi versi più difficoltoso e per altri versi meno drammatico dal punto di vista dello “spaesamento" connesso al bisogno dei referenti spaziali.

È più difficoltoso e a volte quasi impossibile a causa dell'ostilità e dell'inferiorizzazione in particolare per le nazionalità più negativamente stigmatizzate e persino criminalizzate. Questo incide sia nell'accesso a un lavoro stabile e regolare, sia a un alloggio decente (com'è noto l'esclusione abitativa concerne anche una parte degli autoctoni e si inscrive in un contesto di aggravamento dell'esclusione sociale). Ma, al di là della tragica indigenza, la capacità di adattarsi e sapersi muovere nello spazio metropolitano, di trovarvi referenti spaziali o architettonici non sembra porre grandi problemi. In ogni città italiana ogni reticolo o gruppo immigrato ha identificato un preciso spazio come suo punto di riferimento privilegiato, ha poi identificato altri spazi per soddisfare i suoi bisogni di loisir o per passarvi in gruppo il tempo libero (parchi, giardini pubblici periferici), come pure gli spazi per certe attività o per trovare le merci che predilige e l'ambiente che lo fa stare più a suo agio (mercati all'aperto). La differenza di comportamento nell'uso degli spazi rispetto agli autoctoni sembra dovuta al fatto che i primi hanno bisogno di compensare l'indigenza o i limiti spaziali del loro alloggio e il bisogno di socialità, mentre gli autoctoni oltre ad avere altre rappresentazioni degli spazi e della libertà di movimento per i loisirs, sono spesso vittime di una politica abitativa e sociale “atomizzante" che ha favorito la crisi della socialità premiando, in una congiuntura di destrutturazione sociale, l'ascesa delle paure, del sicuritarismo, delle anomie e dei razzismi (sul concetto di a-razionalità anche nei comportamenti collettivi v. Dal Lago 1994). Il mercato spontaneo di via Lorenzini a Milano è diventato “il più grande suk d'Italia" innanzitutto perché là i venditori ambulanti di ogni nazionalità, compresi gli italiani di varie regioni, hanno potuto confondersi con rigattieri di ogni sorta e hanno attirato un pubblico sempre più vasto che là si trova a suo agio e vi si reca anche per non comprare niente. È un luogo dove gli immigrati si sentono un po’ in libertà e “tra loro", è un referente spaziale ricco di molteplici contenuti e significati. Per gli autoctoni appassionati a tale tipo di ambienti è un'alternativa agli allucinanti centri commerciali e agli inquietanti “non-luoghi" della città post-moderna. Da notare che l'attuale giunta comunale di Milano ha deciso di chiudere questo mercato domenicale anziché valorizzarlo come una delle più importanti attrazioni della città al pari di questo tipo di mercati a Parigi, Berlino e altrove.

Sembra comunque difficile dire che l'impatto dell'immigrazione abbia effettivamente “etnicizzato" spazi della città più di quanto si sia invece innestato nella proliferazione della segmentazione eterogenea tipica appunto di ogni assetto urbano postindustriale. Si potrebbe anche dire che se effettivamente gli immigrati potessero essere liberi di maturare i loro percorsi di adattamento e di inserimento nei vari spazi pubblici della città (ovviamente nel rispetto delle norme di convivenza e di preservazione del bene pubblico) ci sarebbero forse molto meno situazioni critiche o conflittuali. In effetti la dinamica dello sviluppo della socialità degli immigrati mette a nudo il fatto che parte degli autoctoni è più o meno marcata dalla destrutturazione sociale, dalla crisi delle forme, luoghi, momenti di socialità e di rassicurazione tradizionali, affetti dall'atomizzazione esasperata, da manie sicuritarie, a volte da un nuovo “perbenismo" e altre volte dalla paura di scivolare nell'esclusione sociale (sarebbe forse prioritaria un'animazione o mediazione sociale che costruisca nuova socialità tra gli autoctoni più anomici o “destrutturati" e allo stesso tempo mediazione rispetto ai conflitti tra inclusi ed esclusi, tra autoctoni e immigrati).

5. La negazione dello sviluppo della socialità degli immigrati non può che condurre a situazioni anomiche o conflittuali. È questa, da anni, una delle cause principali di conflitti quasi sempre mediatizzati come “rivolte dei cittadini contro gli immigrati violenti", ecc. Non trovando molti luoghi disponibili per una loro propria socialità, né sufficienti e aperti luoghi di socializzazione comune con gli autoctoni, “inevitabilmente" si produce l'effetto di una concentrazione eccessiva nei pochi punti di riferimento creati per gli immigrati o dagli immigrati, concentrazione che tende a coinvolgere anche gli spazi pubblici. Comportamenti che non a caso sono comuni ai giovani che com'è noto finiscono spesso per “squattare" aree dismesse o fabbriche e immobili abbandonati. In altri termini è appunto la ridefinizione dell'ordine sociale urbano che diventa l'ostacolo insormontabile a ogni sviluppo dell'inserimento, tanto più che le amministrazioni locali anziché pensare a creare spazi favorevoli all'inserimento degli immigrati, come dei giovani, si mobilitano per la loro criminalizzazione ed esclusione “dalle mura della cittadella". È nel quadro di questa generale intolleranza rispetto ai cosiddetti problemi giovanili che si situa la specificità dell'immigrazione giovanile, spesso ignorata mentre in realtà è sovente la componente prevalente di varie correnti migratorie non a caso tra le più criminalizzate (si pensi ai problemi dei giovani immigrati nei rapporti coi “mondi" giovanili autoctoni, tra cui le discoteche, certi locali e gli stessi centri sociali autogestiti che a volte escludono gli immigrati tanto quanto gli autoctoni perbenisti di ogni sorta di appartenenza politica).

6. Una periodizzazione delle immigrazioni in un caso specifico, quello milanese, consente di cogliere meglio l'interesse di un approccio in termini di reticoli. L'immigrazione straniera a Milano (e in Italia) ha ormai una sua “storia" che data almeno 25 anni e che succede alle varie “storie" di molteplici esperienze di immigrazione o inurbamento. Come sempre con ogni nuovo flusso si produce gerarchizzazione e sostituzione di chi è arrivato prima con chi arriva dopo, nelle attività lavorative, nell'alloggio, negli spazi pubblici. La prima attività in cui appare più visibile la “riuscita" degli immigrati è sempre stata la ristorazione (negli anni '50 si diffondono le trattorie toscane, emiliane, poi pugliesi; oggi è il turno di egiziani e  cinesi; lo stesso è avvenuto a Parigi dove prima fu la volta di auvergnats, bretoni o alsaziani e occitani, poi quello di italiani e spagnoli, ma oggi le pizzerie sono quasi tutte di egiziani e pieds-noirs e i ristoranti e take away sono asiatici) (Palidda 1991). Si può ipotizzare una periodicizzazione della recente immigrazione straniera a Milano in relazione ad alcuni elementi e aspetti significativi che hanno caratterizzato le varie sottocorrenti migratorie (persone sole o famiglie, giovani o no, uomini o donne, tipo di lavoro, origini, contesto di arrivo).

Il primo periodo è stato quello di un’immigrazione quasi totalmente irregolare che in parte tendeva alla stabilizzazione come immigrazione familiare (eritrei ed egiziani, cioè i gruppi con più anzianità), e in parte da persone sole: le donne (soprattutto filippine) e i giovani (tunisini, marocchini, senegalesi e alcuni latino-americani). L’interazione tra questi diversi tipi di immigrati e diversi contesti ed attori della società milanese ha prodotto vari tipi di inserimento lavorativo e socioabitativo e varie forme di socialità: le famiglie eritree ed egiziane hanno avuto in parte accesso a case popolari o ad abitazioni in affitto nel mercato privato; le colf hanno avuto alloggi presso le famiglie dove lavoravano o attraverso queste per poi “emanciparsi” dal punto di vista abitativo; molti giovani maghrebini si sono installati nelle cascine occupate o in strutture dismesse/abbandonate; le piccole cerchie dei senegalesi hanno cercato alloggi privati che abitavano/abitano “collettivamente”; altri hanno trovato alloggio presso o attraverso amici italiani o presso o grazie ad associazioni di aiuto agli immigrati o infine in baracche fatiscenti costruite nelle periferie o in aree dismesse.

Già con questa prima fase si ha la formazione di reticoli o gruppi più o meno coesi per via delle origini comuni, dello stesso percorso migratorio (catena migratoria), del simile processo di inserimento lavorativo e socio-abitativo, dei legami di parentela più o meno allargata. Queste aggregazioni sono state alimentate da forme, luoghi e momenti di socialità che gli immigrati coinvolti hanno trovato (piazze, parrocchie, bar, ecc.). L’input o la spinta a creare associazioni riconosciute (da parte del volontariato o da attori politici) ha a volte prodotto associazioni che in realtà non corrispondono a una precisa entità immigrata (senza “nocciolo duro” costituito da un reticolo coeso l’associazione è difficilmente rappresentativa; a sua volta la formalizzazione di un’aggregazione informale può anche condurre alla crisi: Catani, Palidda 1987). Comunque, sia i reticoli o gruppi informali costituiti soprattutto da famiglie con legami di parentela o di origine comune, sia quelli costituiti da donne o uomini “soli” (non sposati, giovani o con le famiglie al paese, vedi senegalesi) hanno di fatto prodotto in quanto tali un “controllo sociale endogeno” che ha assicurato e spesso assicura ancora (anche se muta) una certa disciplina dell’inserimento economico e sociale (sia nei suoi aspetti formali-legali, sia nei suoi aspetti informali, sia nei suoi aspetti devianti-illegali, come appunto avviene per ogni sorta di cerchia sociale o anche professionale e di riconoscimento morale, sia essa di autoctoni o di immigrati). È già in questa prima fase che si delineano sia una socialità connessa alla religiosità, al divertimento o al tempo di non-lavoro, siano un nuovo insediamento socioabitativo e in particolare la creazione di un mercato dell’alloggio degli immigrati a Milano. Se da un lato ci sono i tristemente noti centri di prima accoglienza, dall’altro si innesca un mercato informale che ancor oggi è prevalente rispetto a quello formale (i messi comunali conoscono più o meno la tipologia delle situazioni abitative degli immigrati).

Il secondo periodo dell'immigrazione straniera a Milano appare caratterizzato da due aspetti apparentemente opposti ed estranei l’uno all’altro: la stabilizzazione e l’inserimento “riuscito” di una parte dei “primi arrivati” come inserimento di famiglie di immigrati (eritrei, egiziani, filippine, cingalesi, ma anche famiglie di marocchini e di qualche altra nazionalità); l’arrivo di altri immigrati irregolari, spesso giovani solo in parte legati ai “primi arrivati”. Il contesto dell’“offerta socioabitativa” è mutato: non ci sono più le cascine occupate, sono in via d’estinzione i centri di prima accoglienza, ma c’è un’“offerta” (informale) gestita in parte da immigrati “più anziani” o anche da italiani e una di un volontariato più qualificato e selettivo di prima (in particolare le varie strutture che fanno capo al segretariato esteri della Curia che oggi gestisce un notevole numero di posti letto). Catene migratorie e reticoli corrispondenti riescono comunque a inserire più neoimmigrati di quanti se ne inseriscano attraverso l’azione degli attori istituzionali o del volontariato o del mercato formale. Luoghi, forme e momenti di socialità si rinnovano, cambiano, si consolidano. Quanto all’associazionismo formale prevale quello indotto o creato su input di attori istituzionali o politici autoctoni. È in questa seconda fase che si delineano in modo più appariscente alcuni nuovi reticoli informali tra cui notoriamente quello dei cinesi, dei somali, degli originari della zona di Beni Mellal, ecc. E si consolidano anche le varie piccole cerchie di senegalesi e di marocchini, spesso ognuna di esse nell’ignoranza delle altre, anche se della stessa nazionalità. Ma l’aspetto forse più importante di questa seconda fase, che poi si rafforza nella terza, è l'etnicizzazione di alcuni segmenti del mercato del lavoro (legale, informale ed illegale) degli immigrati, insieme allo sviluppo di una certa imprenditorialità. Tuttavia a essa corrisponde raramente un’etnicizzazione vera e propria di strutture produttive, abitative e di segmenti del territorio urbano o periurbano. È sempre un fenomeno che convive o si articola con attori e segmenti autoctoni (ma non sempre con gli autoctoni più vicini).

Ogni reticolo o gruppo di immigrati ha prodotto nella terza fase forme, luoghi e momenti di socialità e di inserimento socioabitativo propri. La composizione sociale degli immigrati è assai mutata (aumentano l’inserimento “riuscito”, gli alunni stranieri, la quota di lavoratori autonomi e di coppie “miste”; la quota di irregolari si riduce grazie anche all’ultima sanatoria, ma la deriva degli immigrati inseriti nelle attività devianti si accentua); la dimensione socio-politica è più sviluppata, anche se non esistono ancora vere e proprie aggregazioni espressione “autonoma” di reticoli o gruppi. Ma vi sono vari elementi ignorati: il fallimento scolastico di parte dei figli di immigrati “ben inseriti"; i problemi dell'immigrazione giovanile rispetto ai mondi dei giovani autoctoni; la riproduzione “inevitabile" del neorazzismo. La candidatura di ex immigrati in quasi tutte le liste alle scorse elezioni comunali è in sé un fatto rivelatore del peso sociopolitico acquisito dalla “questione immigrazione" che va ben al di là del reale peso socioeconomico e demografico del fenomeno. Ma vari attori economici autoctoni cominciano a cogliere il potenziale business che può costituire un'immigrazione non più recente (trasferimenti di fondi, comunicazioni di ogni tipo, viaggi frequenti, depositi bancari, uso dell'imprenditorialità immigrata come potenziale pedina nelle delocalizzazioni).

Il confronto tra il caso milanese e altre città permette anche di notare che il declino industriale, il degrado, le anomie e anche l'ostilità o i razzismi non sempre impediscono l'inserimento degli immigrati (fatto evidente a Torino e a Genova; per una tipologia dei contesti urbani di inserimento, Palidda 1998a). A Milano si sono infatti creati tanti nuovi posti di lavoro tra formale, informale e anche illegale, posti che peraltro costituiscono spesso la principale domanda di manodopera immigrata, le imprese di pulizia, la stessa edilizia, i fattorini, la ristorazione, i mercati di strada, ecc., tutti lavori spesso al nero o malpagati e sempre precari, aspetto che spiega anche la riproduzione dell'irregolarità e la crisi del mito dell'immigrazione “riuscita" attraverso il lavoro, mentre ha successo tra i giovani l'illusione della riuscita attraverso i modelli devianti (Palidda 1998b).

Allo stesso tempo, a Milano l'imprenditorialità degli immigrati, insieme allo sviluppo della loro socialità, sembrano avere più successo che altrove, perché si innestano in un contesto fluido di intenso sviluppo della segmentazione eterogenea e discontinua dell'assetto economico e sociale che peraltro favorisce l'etnicizzazione.Al contrario, in contesti come quelli della nuova “terza Italia" sembra prevalere un modello da “svizzera italiana" con una forte selezione o “chirurgia sociale" (Chevalier 1958) favorevole all'inserimento del salariato e a un disciplinamento piuttosto rigido invocato da buona parte dei cittadini, con l'esito di ostacolare anche le dinamiche della socialità.

 

Conclusioni

 

La riuscita o il fallimento dell'inserimento degli immigrati nelle città italiane ed europee sembrano innestarsi nella realtà marcata da un mutamento profondo e ancora in pieno corso. Questo cambiamento sembra investire un po’ tutti gli aspetti della società urbana, gli autoctoni e gli immigrati. V'è dunque una continua ridefinizione dell'uso degli spazi pubblici e privati come dei loro contenuti, significati, ruoli, tempi, ritmi e abitudini da parte dei vari segmenti della società urbana. Le caratteristiche sociologiche e culturali della popolazione urbana si ridefiniscono e si differenziano e ogni mutamento è soggetto a un’accelerazione crescente. In tale contesto i modelli di inserimento tradizionale sono inevitabilmente meno probabili (ma non impossibili). La stessa etnicizzazione (che si produce sempre se è innanzitutto favorita dagli attori dominanti e sempre meno come espressione autonoma e spontanea degli immigrati) va comunque intesa non tanto rispetto a spazi pubblici e a strutture socio-abitative, quanto rispetto a segmenti o solo momenti di un quotidiano urbano che sembra destinato ad essere sempre più instabile, eterogeneo, cangiante. Sembra allora il caso di chiedersi sino a che punto la difficoltà di adattarsi ai mutamenti in corso sia più grande per gli immigrati piuttosto che per una buona parte degli autoctoni. In quanto attore sociale caratterizzato dalla dinamica dell'adattamento, l'immigrato non può essere forse più capace di adeguarsi allo sviluppo della città postindustriale (a condizione di non essere criminalizzato e a condizione che riesca a governare la variazione d'identità)? 

A partire dalle considerazioni di Signorelli e di Roncayolo a proposito del libro di Miranda (1997) e a partire dalla ricerca di Barbesino e Quassoli (1997) si può dire che gli immigrati sono come dei «pendolari tra più ancoraggi»: formula che Miranda conia a proposito di una migrazione che si rigenera da più di un secolo, quella dei ciociari, simile al concetto di «bilateralità delle referenze e reversibilità delle scelte» (Catani, Palidda 1987), e alla teoria delle variazioni di identità propria alla migrazione (Palidda 1996).

E come suggerisce Roncayolo, l'auspicio è allora quello di una ricerca che «superi le opposizioni troppo retoriche tra mobilità e territorialità, delocalizzazione, uniformità, identità, per meglio cogliere gli intrecci e le articolazioni attuali».

Riferimenti bibliografici

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