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 Immigrati e città postindustriale-globale: esclusione, 
  criminalizzazione e inserimento di
  Salvatore 
  Palidda   Questo testo propone alcune 
  riflessioni (problematiche) a partire da diverse ricerche recenti, meno 
  recenti e in corso su vari aspetti delle immigrazioni in alcune città italiane 
  ed europee. I due aspetti principali qui affrontati riguardano le dinamiche 
  della socialità e dell’inserimento socioabitativo degli immigrati, come 
  insieme di interazioni (“positive", “negative", pacifiche o conflittuali) tra 
  immigrati e società urbana, e le variazioni di queste dinamiche nel contesto 
  dei mutamenti connessi allo sviluppo della città “postindustriale-globale". Lo 
  studio di questi aspetti si rifà a un approccio di tipo etnografico che assume 
  come oggetto di ricerca le interazioni tra gli specifici gruppi, reticoli e 
  correnti di emigrati-immigrati e i vari segmenti della società urbana, quindi 
  le dinamiche del loro adattamento, attraverso anche la ricostruzione delle 
  “storie" dell'inserimento in precisi segmenti o nicchie di attività economiche 
  in diversi spazi urbani (sincronia e diacronia).  Si propone qui l’uso dei termini 
  reticoli o gruppi perché questi sembrano più appropriati in particolare nel 
  caso dell’immigrazione in Italia e nell’Europa continentale. 
   In effetti i termini etnia e 
  comunità sembrano idonei quando si tratta di entità sociali che non solo hanno 
  una certa consistenza, ma comprendono gli elementi costitutivi della 
  dimensione etnica o comunitaria: un sistema di valori e di comportamenti cui 
  corrisponda un'autorità religiosa e un'autorità sociopolitica, dunque un 
  controllo sociale endogeno, strutture e pratiche simboliche, sistema di 
  relazioni con altre entità sociali e un dato posizionamento nell’ordine 
  economico, sociale, politico e culturale. Com’è noto etnie e comunità 
  corrispondenti a questi requisiti esistono nei paesi in cui s’è di fatto 
  affermato un sistema di etnicizzazione di varie entità sociali (Stati Uniti, 
  Inghilterra, Canada), in cui cioè il sistema di relazioni economiche, sociali 
  e politiche funziona non solo sulla base di norme universali di regolazione 
  delle relazioni tra individui e tra questi e lo stato, ma anche sulla base di 
  norme e regole informali che attribuiscono certi diritti e doveri alle etnie o 
  comunità e dunque ai loro membri in quanto appartenenti a tali entità sociali. 
  Peraltro le migrazioni recenti corrispondono a piccole catene migratorie e 
  hanno prodotto reticoli o gruppi dotati di frammenti della cultura folklorica, 
  locale, della società d’origine più o meno ricodificati non solo 
  nell’adattamento che implica l’immigrazione e soprattutto la stabilizzazione, 
  ma anche attraverso l'influenza delle mode e modelli omologanti. Tuttavia, 
  alcuni casi, per esempio gli eritrei, alcuni reticoli di filippini e dei 
  cinesi, potrebbero permettere di parlare di piccole comunità, termine che 
  invece appare assai discutibile a proposito dei reticoli o cerchie amicali 
  senegalesi, di marocchini e di altri. L'etnicizzazione osservabile in questi 
  ultimi anni è del tutto subalterna alle scelte degli attori autoctoni 
  dominanti e meno una dinamica endogena. Ricordiamo anche che assai spesso i 
  termini etnia, comunità o cultura sono di fatto usati come sinonimi di razza. 
  Adottando questo approccio (che impone uno sforzo pluridisciplinare, che 
  articola micro e macro, qualitativo e quantitativo, sincronico e diacronico) è 
  forse possibile superare gli schematismi o modelli interpretativi come la 
  dicotomia tra “etnicizzazione" e “assimilazione", oppure il generico se non 
  demagogico discorso sulla città “multietnica" o “multiculturale" (Sayad 1996; 
  Dal Lago 1998, Palidda 1996).  1. La necessità di una 
  soddisfacente comprensione dei mutamenti (tra continuità e rotture o
  ricodificazioni) connessi al cosiddetto passaggio alla città 
  “postindustriale-globale" riguarda in particolare la ridefinizione dei vari 
  aspetti dell'immigrazione in un assetto urbano che è in profonda 
  trasformazione. La questione è capire come l'immigrazione si inserisce in un 
  contesto marcato da uno sviluppo contraddittorio degli aspetti postindustriali 
  e dalla globalizzazione, sviluppo che prescinde dall'impatto della stessa 
  immigrazione, ma a cui questa potrebbe contribuire (va ricordato che, grazie 
  alla sua “funzione specchio", l'immigrazione permette di cogliere meglio 
  alcuni cambiamenti significativi della società urbana). 2. Anche nell'immigrazione recente 
  sembrano riprodursi vari aspetti e caratteristiche delle vecchie correnti 
  migratorie (catene migratorie, riproduzione di reticoli o gruppi di immigrati,
  norìa, “fasi", “tappe" o “età" dell'immigrazione, dinamica del passaggio dal 
  lavoro salariato al lavoro indipendente, dinamica delle forme di aggregazione,
  endogamia, ricodificazione della religiosità, ecc). (Palidda, Reyneri, 1995). 
  Ma il contesto è profondamente mutato. L'immigrazione nelle società urbane 
  marcate dal ruolo dominante dell'industria, anche quando si sono via via 
  sviluppati il terziario e la proiezione delle strutture produttive verso le 
  periferie, induceva ogni inurbato a una disciplina sociale che riguardava 
  anche l'uso più o meno omologato delle strutture e degli spazi pubblici e 
  privati. Va anche ricordato che l'“assimilazione" più o meno coerente o anche 
  contraddittoria delle logiche, delle forme, dei gusti estetici e anche di vari 
  aspetti tecnici dell'assetto degli spazi abitativi e sociali, ha spesso 
  indotto l'immigrato a cercare di trasferirli anche nella società d'origine 
  quando s'è costruito o ricostruito la casa o un'attività al paese. Il ruolo 
  dei muratori e dei lavoratori delle costruzioni è stato ed è ancora assai 
  significativo. Alcuni sono anche diventati gli imprenditori e gli artigiani a 
  volte maggioritari tra le maestranze impegnate nello sviluppo urbano delle 
  città d'immigrazione e anche dei comuni d'origine (Corti 1990; Miranda 1997; 
  Palidda 1991, 1992). Così come ieri la maggioranza delle maestranze 
  dell'edilizia a Milano è stata composta da bergamaschi e meridionali, oggi 
  tende ad essere composta da egiziani e albanesi.  In altri termini, benché in alcuni 
  casi si siano potuti teorizzare modelli di etnicizzazione degli spazi urbani 
  occupati dagli immigrati (o semplicemente lasciati a disposizione 
  di un loro inserimento etnicizzato), sin quando il modello sociale dominante è stato quello della società industriale la 
  stessa “etnicizzazione" era subalterna a questo modello (è in tal senso che si possono rileggere gli autori 
  della scuola di Chicago o i più recenti autori americani tra cui M. Davis). Ma 
  non è detto che in un contesto di segmentazione eterogenea e discontinua quale 
  quello odierno vi sia effettivo sviluppo dell'etnicizzazione conosciuta in 
  passato piuttosto che una semplice proliferazione di specificità più o meno 
  omologate rispetto al nuovo assetto. Se si adotta la tesi di Deleuze (1990) a 
  proposito del cambiamento del controllo sociale nel passaggio dalla “società disciplinare", teorizzata da Foucault, alla 
  “società dei controlli", si potrebbe dire che gli spazi urbani etnicizzati non 
  sono altro che segmenti di un assetto metropolitano che tende a 
  caratterizzarsi per la proliferazione di tali entità, siano esse eterogenee e 
  discontinue. In altri termini se da un lato si potrebbe pensare a una maggiore “libertà" per la dinamica “etnica", dall'altro questa dinamica sembra più 
  subalterna alle logiche dominanti (omologanti) che sminuiscono la specificità, 
  soprattutto quella espressione endogena (autonoma) prodotta dalla 
  ricodificazione (nell'adattamento) di elementi e comportamenti della cultura 
  d'origine.  È nei paesi anglosassoni che è 
  prevalso il modello dell'“etnicizzazione", mentre nell'Europa continentale è 
  prevalso quello dell'“assimilazione" opposto alla temporaneità in vista del 
  rientro. Ma anche laddove l'assimilazione è di fatto forzata — coniugandosi 
  con l'acculturazione autoritaria dei figli di immigrati, con i condizionamenti 
  del “crogiolo" delle strutture produttive di massa (Noiriel 1988, Gribaudi 
  1987) e con le strutture abitative “disciplinari", come le cités 
  ouvrières o i “quartieri di 
  transito" degli anni '50, '60 e 
  '70 (Sayad 1995) — l'appartenenza specifica a un reticolo o gruppo prodotto da 
  una specifica catena migratoria di 
  parenti o compaesani s'è a volte rafforzata in forme più o meno poco 
  appariscenti, come elemento decisivo rispetto alla sfera privata, 
  rendibilizzato rispetto all'inserimento sociale o al contrario inevitabilmente 
  etichettante in senso negativo.  Furono per esempio i padroni delle 
  birrerie tedesche a favorire la diffusione delle pizzerie e poi dei ristoranti 
  “etnici", sia perché il mercato era saturo, sia perché la domanda di una nuova 
  ristorazione prometteva grossi profitti (Palidda 1991). Per altri versi e con altre dinamiche, la formazione di 
  quartieri o zone di commerci e attività “etnicamente" connotati in varie città 
  europee (si pensi a Belsunce a Marsiglia o a Barbès e poi al triangolo 
  asiatico di Choisy-avenue d'Italie-Tolbiac a Parigi e ad altri ancora (Tarrius, 1995) s'è di fatto situato in un contesto di sviluppo urbano che è 
  stato più o meno comune a tutte le città. Artefici del ruolo degli immigrati 
  nello sviluppo urbano sono sempre state le élites emergenti 
  dall'immigrazione, attraverso il loro adattamento a occupare gli spazi 
  lasciati vuoti dagli autoctoni. 3. Mentre lo sviluppo della città 
  industriale può essere descritto innanzitutto come un processo di 
  “internalizzazione” (Moulier-Boutang 1997), cioè come concentrazione delle 
  strutture produttive e della manodopera nelle aree urbane dei paesi dominanti, 
  all'opposto il paradigma dello sviluppo della città “postindustriale-globale" consiste nell'“esternalizzazione”, 
  cioè nella delocalizzazione diretta della produzione e di varie attività, o 
  quella del subappalto in cascata, nelle 
  società dominate. Lo sviluppo della globalizzazione è infatti passaggio 
  da un'esternalizzazione come “indotto" nei pressi dei siti industriali 
  tradizionali a un'esternalizzazione delocalizzata nei paesi di emigrazione. Il 
  gioco delle delocalizzazioni (spostamenti sempre più frequenti da un paese 
  all'altro) sembra spiegare meglio le politiche opposte alla migrazione poiché 
  tale gioco implica l'“imbrigliamento" e dunque la fissazione della forza 
  lavoro nelle società locali destinate alle delocalizzazioni. Allo stesso tempo 
  tali politiche sembrano imporsi come “necessità" di restringere privilegi, 
  reali o propagandati come prossimi, della cittadinanza dei paesi ricchi ai 
  soli autoctoni (Dal Lago 1998). La migrazione appare dunque inconciliabile con 
  la difesa di tali privilegi e con la delocalizzazione globale, ma resta sempre 
  una necessità sia per certi segmenti economici, sia come fatto sociale 
  ineliminabile in quanto profonda aspirazione alla libertà di movimento 
  dell'essere umano, ancor più nell'epoca della globalizzazione (la migrazione 
  odierna è spesso rischio della stessa vita). In effetti, la globalizzazione 
  (che è sviluppo della comunicazione, dei trasporti, ecc.) accresce 
  l'omologazione e la diffusione dei modelli sociali, delle aspirazioni sociali 
  e, fra l'altro, anche dei modelli architettonici e urbanistici. Il migrante di 
  oggi, prima ancora di emigrare la prima volta, ha già visto in tv le immagini 
  delle città dei paesi ricchi (grazie alle antenne satellitari diffuse anche 
  negli angoli più sperduti dei paesi del sud, più che in quelli del nord) e a 
  volte ha già visto nelle città del suo paese le nuove mode architettoniche e 
  urbanistiche (Casablanca ha quasi 5 milioni di abitanti e quartieri moderni 
  come quelli europei). In altri termini, il migrante di oggi è per certi versi 
  “meno spaesato" di quanto potesse essere l'originario di certe vallate del 
  nord, del centro o del sud Italia al suo arrivo a Milano, a Parigi o altrove 
  negli anni '50 e ancora negli anni '60. Il concetto di “spaesamento" si rifà a Todorov (1996). Per evitare un uso fuorviante o 
  superficiale dei concetti di spaesamento o di “crisi d'identità" o ancora di 
  “patologie", è forse più opportuno parlare di variazioni dell'identità 
  connesse all'emigrazione-immigrazione. Queste si innescano sin dal momento che 
  si pensa l'emigrazione e comincia con la rottura di fatto rispetto alla 
  società locale di partenza — chi non rompe resta, anche se vive nelle stesse 
  condizioni di chi parte — e continua con varie ricodificazioni, spesso 
  contraddittorie, dei riferimenti alla cultura di origine e alla cultura della 
  società locale di arrivo.  Come osserva Signorelli (1997): 
  «Nessuna vita umana coincide più con un solo luogo [ma] se è vero che anche il 
  più sedentario fra noi vive ormai in una pluralità di luoghi, è vero altresì 
  che nessuno può fare a meno di referenti spaziali». L'immigrato arriva oggi in 
  un assetto urbano che oscilla tra degrado e riconversioni, tra una sorta di 
  incertezza su come si ridefiniscono i vari segmenti della città e lo sviluppo 
  delle mode omologanti. Non ha da adattarsi ad un contesto rigido, ma a una 
  realtà “flessibile", in divenire, dove l'unica cosa che sembra certa è la 
  tendenza alla ridefinizione di un ordine sociale perbenista che si traduce 
  nella limitazione e poi nel divieto di accesso agli spazi pubblici per gli 
  immigrati “malinseriti" ma anche per gli esclusi autoctoni. Tuttavia 
  percepisce che questa esclusione “civica" corrisponde ad un meccanismo di 
  inferiorizzazione e cerca una sua strategia di aggiramento degli ostacoli 
  innanzitutto attraverso la rendibilizzazione del “capitale sociale" del suo 
  reticolo o gruppo, ma anche attraverso relazioni con autoctoni “amici" o partners. Benché ci siano ancora molte 
  similitudini tra le migrazioni di oggi e quelle di ieri per quanto riguarda 
  l'accesso ad una condizione socioabitativa decente, l'immigrato di oggi si 
  trova ad affrontare alcuni problemi ben più difficilmente superabili. Come 
  descrivono Alasia e Montaldi (1960) in Milano-Corea, o come scrive Fofi 
  (1964) a proposito dell'immigrazione a Torino, l'indigenza marcava la 
  condizione abitativa degli immigrati negli anni '50 e poi anche dopo 
  (Pellicciari 1970). Ancora all'inizio degli anni '70 nella periferia di 
  Düsseldorf si potevano scoprire in grandi “buche", scavate in vista di nuove 
  mega-costruzioni, delle baracche in cui si intasavano decine di meridionali 
  italiani che lavorando nell'edilizia e spesso al nero non avevano il posto 
  letto in genere assegnato all'operaio della fabbrica e preferivano l'alloggio 
  indigente per risparmiare al massimo e poter tornare prima al paese. Ma oggi 
  per gli albanesi di Scutari l'indigenza abitativa più estrema (nei pressi del 
  quartiere Vigentino a Milano) non è una “scelta" ma di fatto l'unico spazio 
  accessibile. 4. Tuttavia, per gli immigrati 
  stranieri degli anni ’70 sino a oggi l'inserimento nelle città italiane ed 
  europee sembra per certi versi più difficoltoso e per altri versi meno 
  drammatico dal punto di vista dello “spaesamento" connesso al bisogno dei 
  referenti spaziali.  È più difficoltoso e a volte quasi 
  impossibile a causa dell'ostilità e dell'inferiorizzazione in particolare per 
  le nazionalità più negativamente stigmatizzate e persino criminalizzate. 
  Questo incide sia nell'accesso a un lavoro stabile e regolare, sia a un 
  alloggio decente (com'è noto l'esclusione abitativa concerne anche una parte 
  degli autoctoni e si inscrive in un contesto di aggravamento dell'esclusione 
  sociale). Ma, al di là della tragica indigenza, la capacità di adattarsi e 
  sapersi muovere nello spazio metropolitano, di trovarvi referenti spaziali o 
  architettonici non sembra porre grandi problemi. In ogni città italiana ogni 
  reticolo o gruppo immigrato ha identificato un preciso spazio come suo punto 
  di riferimento privilegiato, ha poi identificato altri spazi per soddisfare i 
  suoi bisogni di loisir o per passarvi in gruppo il tempo libero 
  (parchi, giardini pubblici periferici), come pure gli spazi per certe attività 
  o per trovare le merci che predilige e l'ambiente che lo fa stare più a suo 
  agio (mercati all'aperto). La differenza di comportamento nell'uso degli spazi 
  rispetto agli autoctoni sembra dovuta al fatto che i primi hanno bisogno di 
  compensare l'indigenza o i limiti spaziali del loro alloggio e il bisogno di 
  socialità, mentre gli autoctoni oltre ad avere altre rappresentazioni degli spazi e 
  della libertà di movimento per i loisirs, sono 
  spesso vittime di una politica abitativa e sociale “atomizzante" che ha 
  favorito la crisi della socialità premiando, 
  in una congiuntura di 
  destrutturazione sociale, l'ascesa 
  delle paure, del sicuritarismo, delle anomie e dei 
  razzismi (sul concetto di a-razionalità anche nei comportamenti collettivi v. 
  Dal Lago 1994). Il mercato spontaneo di via Lorenzini a Milano è diventato “il 
  più grande suk d'Italia" innanzitutto perché là i venditori ambulanti di ogni 
  nazionalità, compresi gli 
  italiani di varie regioni, 
  hanno potuto confondersi con rigattieri di ogni 
  sorta e hanno attirato un pubblico sempre più vasto che là si trova a suo agio 
  e vi si reca anche per non comprare niente. È un luogo dove gli immigrati si 
  sentono un po’ in libertà e “tra loro", è un referente spaziale ricco di 
  molteplici contenuti e significati. Per gli autoctoni appassionati a tale tipo 
  di ambienti è un'alternativa agli allucinanti centri commerciali e agli 
  inquietanti “non-luoghi" della città post-moderna. Da notare che l'attuale 
  giunta comunale di Milano ha deciso di chiudere questo mercato domenicale 
  anziché valorizzarlo come una delle più importanti attrazioni della città al 
  pari di questo tipo di mercati a Parigi, Berlino e altrove. 
   Sembra comunque difficile dire che 
  l'impatto dell'immigrazione abbia effettivamente “etnicizzato" spazi della 
  città più di quanto si sia invece innestato nella proliferazione della 
  segmentazione eterogenea tipica appunto di ogni assetto urbano 
  postindustriale. Si potrebbe anche dire che se effettivamente gli immigrati 
  potessero essere liberi di maturare i loro percorsi di 
  adattamento e di inserimento nei vari spazi pubblici della città (ovviamente 
  nel rispetto delle norme di convivenza e di preservazione del bene pubblico) 
  ci sarebbero forse molto meno situazioni critiche o conflittuali. In effetti 
  la dinamica dello sviluppo della socialità degli immigrati mette a nudo il 
  fatto che parte degli autoctoni è più o meno marcata dalla destrutturazione 
  sociale, dalla crisi delle forme, luoghi, momenti di socialità e di 
  rassicurazione tradizionali, affetti dall'atomizzazione esasperata, da manie 
  sicuritarie, a volte da un nuovo “perbenismo" e altre volte dalla paura di 
  scivolare nell'esclusione sociale (sarebbe forse prioritaria un'animazione o 
  mediazione sociale che costruisca nuova socialità tra gli autoctoni più 
  anomici o “destrutturati" e allo stesso tempo mediazione rispetto ai conflitti 
  tra inclusi ed esclusi, tra autoctoni e immigrati).  5. La negazione dello sviluppo 
  della socialità degli immigrati non può che condurre a situazioni anomiche o 
  conflittuali. È questa, da anni, una delle cause principali di conflitti quasi 
  sempre mediatizzati come “rivolte dei cittadini contro gli immigrati 
  violenti", ecc. Non trovando molti luoghi disponibili per una loro propria socialità, né 
  sufficienti e aperti luoghi di socializzazione comune con gli autoctoni, 
  “inevitabilmente" si produce l'effetto di una concentrazione eccessiva nei 
  pochi punti di riferimento creati per gli immigrati o dagli immigrati, 
  concentrazione che tende a coinvolgere anche gli spazi pubblici. Comportamenti 
  che non a caso sono comuni ai giovani che com'è noto finiscono spesso per 
  “squattare" aree dismesse o fabbriche e immobili abbandonati. In altri termini 
  è appunto la ridefinizione dell'ordine sociale urbano che diventa l'ostacolo 
  insormontabile a ogni sviluppo dell'inserimento, tanto più che le 
  amministrazioni locali anziché pensare a creare spazi favorevoli 
  all'inserimento degli immigrati, 
  come dei giovani, si 
  mobilitano per la loro 
  criminalizzazione ed esclusione “dalle mura della cittadella". È nel quadro di 
  questa generale intolleranza rispetto ai cosiddetti problemi giovanili che si 
  situa la specificità dell'immigrazione giovanile, spesso ignorata mentre in 
  realtà è sovente la componente prevalente di varie correnti migratorie non a 
  caso tra le più criminalizzate (si pensi ai problemi dei giovani immigrati nei 
  rapporti coi “mondi" giovanili autoctoni, tra cui le discoteche, certi locali 
  e gli stessi centri sociali autogestiti che a volte escludono gli immigrati 
  tanto quanto gli autoctoni perbenisti di ogni sorta di appartenenza 
  politica). 6. Una periodizzazione delle 
  immigrazioni in un caso specifico, quello milanese, consente di cogliere 
  meglio l'interesse di un approccio in termini di reticoli. L'immigrazione 
  straniera a Milano (e in Italia) ha ormai una sua “storia" che data almeno 25 
  anni e che succede alle varie “storie" di molteplici esperienze di 
  immigrazione o inurbamento. Come sempre con ogni nuovo flusso si produce 
  gerarchizzazione e sostituzione di chi è arrivato prima con chi arriva dopo, 
  nelle attività lavorative, nell'alloggio, negli spazi pubblici. La prima 
  attività in cui appare più visibile la “riuscita" degli immigrati è sempre 
  stata la ristorazione (negli anni 
  '50 si diffondono le 
  trattorie toscane, emiliane, poi pugliesi; oggi è il turno di egiziani 
  e  cinesi; lo stesso è avvenuto a 
  Parigi dove prima fu la volta di auvergnats, bretoni o alsaziani e 
  occitani, poi quello di italiani e spagnoli, ma oggi le pizzerie sono quasi 
  tutte di egiziani e pieds-noirs e i ristoranti e take away sono 
  asiatici) (Palidda 1991). Si può ipotizzare una periodicizzazione della 
  recente immigrazione straniera a Milano in relazione ad alcuni elementi e 
  aspetti significativi che hanno caratterizzato le varie sottocorrenti 
  migratorie (persone sole o famiglie, giovani o no, uomini o donne, tipo di 
  lavoro, origini, contesto di arrivo). Il primo periodo è stato quello di 
  un’immigrazione quasi totalmente irregolare che in parte tendeva alla 
  stabilizzazione come immigrazione familiare (eritrei ed egiziani, cioè i 
  gruppi con più anzianità), e in parte da persone sole: le donne (soprattutto 
  filippine) e i giovani (tunisini, marocchini, senegalesi e alcuni 
  latino-americani). L’interazione tra questi diversi tipi di immigrati e 
  diversi contesti ed attori della società milanese ha prodotto vari tipi di 
  inserimento lavorativo e socioabitativo e varie forme di socialità: le 
  famiglie eritree ed egiziane hanno avuto in parte accesso a case popolari o ad 
  abitazioni in affitto nel mercato privato; le colf hanno avuto alloggi presso 
  le famiglie dove lavoravano o attraverso queste per poi “emanciparsi” dal 
  punto di vista abitativo; molti giovani maghrebini si sono installati nelle 
  cascine occupate o in strutture dismesse/abbandonate; le piccole cerchie dei 
  senegalesi hanno cercato alloggi privati che abitavano/abitano 
  “collettivamente”; altri hanno trovato alloggio presso o attraverso amici 
  italiani o presso o grazie ad associazioni di aiuto agli immigrati o infine in 
  baracche fatiscenti costruite nelle periferie o in aree dismesse. 
   Già con questa prima fase si ha la 
  formazione di reticoli o gruppi più o meno coesi per via delle origini comuni, 
  dello stesso percorso migratorio (catena migratoria), del simile processo di 
  inserimento lavorativo e socio-abitativo, dei legami di parentela più o meno 
  allargata. Queste aggregazioni sono state alimentate da forme, luoghi e 
  momenti di socialità che gli immigrati coinvolti hanno trovato (piazze, 
  parrocchie, bar, ecc.). L’input o la spinta a creare associazioni riconosciute 
  (da parte del volontariato o da attori politici) ha a volte prodotto 
  associazioni che in realtà non corrispondono a una precisa entità immigrata 
  (senza “nocciolo duro” costituito da un 
  reticolo coeso 
  l’associazione è difficilmente rappresentativa; a sua volta la formalizzazione 
  di un’aggregazione informale può anche condurre alla crisi: Catani, Palidda 
  1987). Comunque, sia i reticoli o gruppi informali costituiti soprattutto da 
  famiglie con legami di parentela o di origine comune, sia quelli costituiti da 
  donne o uomini “soli” (non sposati, giovani o con le famiglie al paese, vedi 
  senegalesi) hanno di fatto prodotto in quanto tali un “controllo sociale 
  endogeno” che ha assicurato e spesso assicura ancora (anche se muta) una certa 
  disciplina dell’inserimento economico e sociale (sia nei suoi aspetti 
  formali-legali, sia nei suoi aspetti informali, sia nei suoi aspetti devianti-illegali, come appunto avviene per ogni sorta di 
  cerchia sociale o anche professionale e di riconoscimento morale, sia essa di 
  autoctoni o di immigrati). È già in questa prima fase che si delineano sia una 
  socialità connessa alla religiosità, al divertimento o al tempo di non-lavoro, 
  siano un nuovo insediamento socioabitativo e in particolare la creazione di un 
  mercato dell’alloggio degli immigrati a Milano. Se da un lato ci sono i 
  tristemente noti centri di prima accoglienza, dall’altro si innesca un mercato 
  informale che ancor oggi è prevalente rispetto a quello formale (i messi 
  comunali conoscono più o meno la tipologia delle situazioni abitative degli 
  immigrati).  Il secondo periodo 
  dell'immigrazione straniera a Milano appare caratterizzato da due aspetti 
  apparentemente opposti ed estranei l’uno all’altro: la stabilizzazione e 
  l’inserimento “riuscito” di una parte dei “primi arrivati” come inserimento di 
  famiglie di immigrati (eritrei, egiziani, filippine, cingalesi, ma anche 
  famiglie di marocchini e di qualche altra nazionalità); l’arrivo di altri 
  immigrati irregolari, spesso giovani solo in parte legati ai “primi arrivati”. 
  Il contesto dell’“offerta socioabitativa” è mutato: non ci sono più le cascine 
  occupate, sono in via d’estinzione i centri di prima accoglienza, ma c’è 
  un’“offerta” (informale) gestita in parte da immigrati “più anziani” o anche 
  da italiani e una di un volontariato più qualificato e selettivo di prima (in 
  particolare le varie strutture che fanno capo al segretariato esteri della 
  Curia che oggi gestisce un notevole numero di posti letto). Catene migratorie 
  e reticoli corrispondenti riescono comunque a inserire più neoimmigrati di 
  quanti se ne inseriscano attraverso l’azione degli attori istituzionali o del 
  volontariato o del mercato formale. Luoghi, forme e momenti di socialità si 
  rinnovano, cambiano, si consolidano. Quanto all’associazionismo formale 
  prevale quello indotto o creato su input di attori istituzionali o politici 
  autoctoni. È in questa seconda fase che si delineano in modo più appariscente 
  alcuni nuovi reticoli informali tra cui notoriamente quello dei cinesi, dei 
  somali, degli originari della zona di Beni Mellal, ecc. E si consolidano anche 
  le varie piccole cerchie di senegalesi e di marocchini, spesso ognuna di esse 
  nell’ignoranza delle altre, anche se della stessa nazionalità. Ma l’aspetto 
  forse più importante di questa seconda fase, che poi si rafforza nella terza, 
  è l'etnicizzazione di alcuni segmenti del mercato del lavoro (legale, 
  informale ed illegale) degli immigrati, insieme allo sviluppo di una certa 
  imprenditorialità. Tuttavia a essa corrisponde raramente un’etnicizzazione 
  vera e propria di strutture produttive, abitative e di segmenti del territorio 
  urbano o periurbano. È sempre un fenomeno che convive o si articola con attori 
  e segmenti autoctoni (ma non sempre con gli autoctoni più vicini). 
   Ogni reticolo o gruppo di 
  immigrati ha prodotto nella terza fase forme, luoghi e momenti di socialità e 
  di inserimento socioabitativo propri. La composizione sociale degli immigrati 
  è assai mutata (aumentano l’inserimento “riuscito”, gli alunni stranieri, la 
  quota di lavoratori autonomi e di coppie “miste”; la quota di irregolari si 
  riduce grazie anche all’ultima sanatoria, ma la deriva degli immigrati 
  inseriti nelle attività devianti si accentua); la dimensione socio-politica è 
  più sviluppata, anche se non esistono ancora vere e proprie aggregazioni 
  espressione “autonoma” di reticoli o gruppi. Ma vi sono vari elementi 
  ignorati: il fallimento scolastico di parte dei figli di immigrati “ben 
  inseriti"; i problemi dell'immigrazione giovanile rispetto ai mondi dei 
  giovani autoctoni; la riproduzione “inevitabile" del neorazzismo. La 
  candidatura di ex immigrati in quasi tutte le liste alle scorse elezioni 
  comunali è in sé un fatto rivelatore del peso sociopolitico acquisito dalla 
  “questione immigrazione" che va ben al di là del reale peso socioeconomico e 
  demografico del fenomeno. Ma vari attori economici autoctoni cominciano a 
  cogliere il potenziale business che può costituire un'immigrazione non più 
  recente (trasferimenti di fondi, comunicazioni di ogni tipo, viaggi frequenti, 
  depositi bancari, uso dell'imprenditorialità immigrata come potenziale pedina 
  nelle delocalizzazioni). Il confronto tra il caso milanese 
  e altre città permette anche di notare che il declino industriale, il degrado, 
  le anomie e anche l'ostilità o i razzismi non sempre impediscono l'inserimento 
  degli immigrati (fatto evidente a Torino e a Genova; per una tipologia dei 
  contesti urbani di inserimento, Palidda 1998a). A Milano si sono infatti 
  creati tanti nuovi posti di lavoro tra formale, informale e anche illegale, 
  posti che peraltro costituiscono spesso la principale domanda di manodopera 
  immigrata, le imprese di pulizia, la stessa edilizia, i fattorini, la 
  ristorazione, i mercati di strada, ecc., tutti lavori spesso al nero o 
  malpagati e sempre precari, aspetto che spiega anche la riproduzione 
  dell'irregolarità e la crisi del mito dell'immigrazione “riuscita" attraverso 
  il lavoro, mentre ha successo tra i giovani l'illusione della riuscita 
  attraverso i modelli devianti (Palidda 1998b).  Allo stesso tempo, a Milano 
  l'imprenditorialità degli immigrati, insieme allo sviluppo della loro 
  socialità, sembrano avere più successo che altrove, perché si innestano in un 
  contesto fluido di intenso sviluppo della segmentazione eterogenea e 
  discontinua dell'assetto economico e sociale che peraltro favorisce 
  l'etnicizzazione.Al contrario, in contesti come quelli della nuova “terza 
  Italia" sembra prevalere un modello da “svizzera italiana" con una forte 
  selezione o “chirurgia sociale" (Chevalier 1958) favorevole all'inserimento 
  del salariato e a un disciplinamento piuttosto rigido invocato da buona parte 
  dei cittadini, con l'esito di ostacolare anche le dinamiche della 
  socialità. 
 Conclusioni 
 La riuscita o il fallimento 
  dell'inserimento degli immigrati nelle città italiane ed europee sembrano 
  innestarsi nella realtà marcata da un mutamento profondo e ancora in pieno 
  corso. Questo cambiamento sembra investire un po’ tutti gli aspetti della 
  società urbana, gli autoctoni e gli immigrati. V'è dunque una continua 
  ridefinizione dell'uso degli spazi pubblici e privati come dei loro contenuti, 
  significati, ruoli, tempi, ritmi e abitudini da parte dei vari segmenti della 
  società urbana. Le caratteristiche sociologiche e culturali della popolazione 
  urbana si ridefiniscono e si differenziano e ogni mutamento è soggetto a 
  un’accelerazione crescente. In tale contesto i modelli di inserimento 
  tradizionale sono inevitabilmente meno probabili (ma non impossibili). La 
  stessa etnicizzazione (che si produce sempre se è innanzitutto favorita dagli 
  attori dominanti e sempre meno come espressione autonoma e spontanea degli 
  immigrati) va comunque intesa non tanto rispetto a spazi pubblici e a 
  strutture socio-abitative, quanto rispetto a segmenti o solo momenti di un 
  quotidiano urbano che sembra destinato ad essere sempre più instabile, 
  eterogeneo, cangiante. Sembra allora il caso di chiedersi sino a che punto la 
  difficoltà di adattarsi ai mutamenti in corso sia più grande per gli immigrati 
  piuttosto che per una buona parte degli autoctoni. In quanto attore sociale 
  caratterizzato dalla dinamica dell'adattamento, l'immigrato non può essere 
  forse più capace di adeguarsi allo sviluppo della città postindustriale (a 
  condizione di non essere criminalizzato e a condizione che riesca a governare 
  la variazione d'identità)?  
   A partire dalle considerazioni di 
  Signorelli e di Roncayolo a 
  proposito del libro di Miranda (1997) e a partire dalla ricerca di 
  Barbesino e Quassoli (1997) si può dire che gli immigrati sono come dei 
  «pendolari tra più ancoraggi»: formula che Miranda conia a proposito di una 
  migrazione che si rigenera da più di un secolo, quella dei ciociari, simile al 
  concetto di «bilateralità delle referenze e reversibilità delle scelte» 
  (Catani, Palidda 1987), e alla teoria delle variazioni di identità propria 
  alla migrazione (Palidda 1996).  E come suggerisce Roncayolo, 
  l'auspicio è allora quello di una ricerca che «superi le opposizioni troppo 
  retoriche tra mobilità e territorialità, delocalizzazione, uniformità, 
  identità, per meglio cogliere gli intrecci e le articolazioni attuali». 
   Riferimenti bibliografici Alasia F., 
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