La
  figura dello straniero nella scrittura
   
  Cesano
  Maderno, 19. 01. 2001
   
      Intervento
      del Card. Martini al convegno "Integrazione e integralismi. La via
      del dialogo è possibile?" 
  Ho
  accettato volentieri di partecipare a questo convegno sia per incontrare il
  decanato di Cesano Maderno sia per ascoltare Ilvo Diamanti parlare su un tema
  arduo, ma della massima importanza e che mi sta molto a cuore.
  
  A me è stato chiesto di illustrare soprattutto la figura dello straniero
  nella Bibbia: quali radici bibliche, quali nostre radici spirituali, religiose
  e culturali ci permettono di andare oltre la paura e oltre l'emotività di
  fronte alla presenza degli stranieri?
  
  La mia relazione prevede tre parti. Dapprima richiamerò brevemente i dati
  dell'Antico Testamento sulla figura dello straniero; in secondo luogo i
  principi teologici del Nuovo Testamento sull'accoglienza dello straniero;
  quindi accennerò alle difficoltà e alla gradualità di un cammino di
  integrazione. Infine vorrei ripropormi la domanda sull'evangelizzazione che è
  stata fatta all'inizio da chi ha presentato la serata: "nel confronto che
  siamo tenuti ad avere con le altre culture e religioni, quanto ancora abbiamo
  della forza evangelizzatrice dei primi cristiani?"
  
  I - I dati della Bibbia sulla figura dello straniero
  A modo di premessa va ricordato che Israele, il popolo ebraico vive in
  Palestina, a partire circa dal 1200 a.C., in un ambito geografico e
  geopolitico caratterizzato da molti spostamenti di popoli, da esodi e da
  migrazioni frequenti. La Palestina, infatti, è luogo di passaggio, come un
  corridoio tra l'Egitto e i grandi regni attorno all'Eufrate (Babilonia e
  Assiria), percorso continuamente da carovane ed eserciti stranieri. E' quindi
  un luogo dove l'esperienza dello straniero è un fatto quotidiano; ciò spiega
  la rilevanza del nostro tema in particolare nella Bibbia ebraica, nel Primo
  Testamento. Del resto Israele stesso è un popolo che ha vissuto una lunga e
  dolorosa esperienza di migrazione e di esilio. Ha abitato da straniero in
  Egitto per 400 anni. Dopo la caduta di Gerusalemme (586 a.C.), molti israeliti
  furono deportati in Babilonia. Per tutti questi motivi Israele ha sviluppato
  una concezione varia e articolata del fenomeno dello straniero, espressa anche
  dal vocabolario. Sono almeno tre i termini fondamentali della Bibbia ebraica
  per indicare lo "straniero" o "forestiero". Tre termini
  nei quali si può leggere qualcosa dell'esperienza sofferta e dinamica di
  Israele e del cammino della rivelazione nel cuore di questo popolo
  (suggeriscono perciò, in qualche modo, anche a noi una dinamica, un cammino):
  lo straniero lontano -zar-, lo straniero di passaggio -nokri-, lo straniero
  residente o integrato -gher o toshav-.
  
  1. La parola ebraica zar sta a significare lo straniero che abita fuori dei
  confini di Israele, colui che è del tutto estraneo al popolo. Verso questa
  figura si verifica un senso di timore, di estraneità, di paura e di
  inimicizia. La paura dello straniero ha quindi delle radici molto profonde nel
  cuore umano, e viene documentata dalla Scrittura. C'è anzi un gioco di parole
  nell'ebraico, che permette di confondere zar (straniero) con sar (il nemico da
  cui ci si deve difendere).Un gioco di parole che fa comprendere come Israele
  si sentisse un popolo piccolo e debole, circondato da popoli potenti che ne
  insidiano la sovranità. Da qui la paura e il senso di estraneità verso i
  popoli vicini aggressivi e prepotenti. Tra i tanti possibili testi, cito
  Isaia, là dove compiange le sofferenze della sua gente: "Il vostro paese
  è devastato, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i
  vostri occhi, la divorano gli stranieri" (1,7). E' chiaro che
  "stranieri" vuol dire "nemici" temibili. 
  
  Questa considerazione praticamente negativa dei popoli stranieri si evolve
  verso toni più positivi specialmente dal momento dell'esilio in Babilonia
  (circa VI secolo a.C.), quando affiora la percezione che l'esilio non ha
  segnato la disfatta del Dio d'Israele, quasi fosse stato sconfitto da idoli,
  da dèi più potenti di cui si vantavano gli altri popoli. Al contrario
  l'esilio fa prendere maggiormente coscienza della elezione dei figli
  d'Israele, fa emergere quanto Dio ami il suo popolo e gli affidi una missione
  in mezzo alle genti straniere. Paradossalmente la sconfitta aiuta a percepire
  la missione verso gli stranieri. 
  
  Richiamo un brano di Isaia, che si riferisce al popolo in esilio: "Io ti
  ho formato e stabilito come luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai
  ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri" (42,6). E, in 49,6:
  "Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la salvezza fino
  all'estremità della terra". Lo straniero allora non è più solo un
  nemico da temere, ma un popolo da illuminare, e la paura nei suoi confronti si
  riduce per fare posto a un senso di missione. Notiamo che una simile coscienza
  risuona anche nel Nuovo Testamento, per esempio nelle parole di Zaccaria al
  tempio: Gesù bambino è chiamato "luce per illuminare le genti e gloria
  del suo popolo Israele". Sono parole che riprendono verbalmente Isaia e
  segnano il superamento della paura dello straniero verso la coscienza di una
  missione nei suoi riguardi.
  
  2. Il secondo termine, nokri, è usato per lo straniero di passaggio,
  l'avventizio, colui che si trova momentaneamente in mezzo al popolo per motivi
  di viaggio, di commercio (una sorta di "pendolare"). 
  
  Verso il nokri ci sono alcune distinzioni che denotano ancora una lontananza,
  ma non più una paura. Un passo del Deuteronomio fa un elenco di animali puri
  e impuri, con le distinzioni legali, e dice tra l'altro: "Non mangerete
  alcuna bestia che sia morta di morte naturale; la darete al forestiero che
  risiede nelle tue città perché la mangi, o la venderai a qualche straniero,
  perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio" (14,21). Si
  mantiene una certa distanza verso gli avventizi e insieme si fanno delle
  concessioni. Comunque la regola di base è l'ospitalità, tipica della
  tradizione dell'Oriente, ospitalità che comporta rispetto e buona
  accoglienza. Chi di noi ha avuto occasione di andare presso le tende dei
  beduini, ai margini del deserto, conosce questa ospitalità, questa
  accoglienza gioiosa. 
  
  Cito in proposito l'esempio di Abramo, che accoglie tre angeli, a lui
  stranieri, non membri del suo popolo, si mette al loro servizio e prepara un
  lauto pasto: "Abramo sedeva all'ingresso della tenda, nell'ora più calda
  del giorno", quando si ha voglia di dormire, di abbandonarsi al sonno.
  "Alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui.
  Appena li vide, corse loro incontro dall'ingresso della tenda e si prostrò
  fino a terra, dicendo: Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non
  passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po' d'acqua,
  lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l'albero" (Gen 18,1-4). Fa quindi
  preparare focacce e un vitello tenero e buono. E' una bella descrizione
  dell'accoglienza riservata agli stranieri di passaggio, agli ospiti.
  
  3. Il terzo vocabolo è gher o toshav e viene impiegato per lo straniero
  residente, colui che essendo di origine straniera e non appartenendo perciò
  al popolo ebraico per nascita, risiede più a lungo o stabilmente in Israele.
  Questa figura gode di una vera protezione giuridica, come appare fin dai testi
  legislativi più antichi: "Non molesterai il forestiero né l'opprimerai,
  perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto" (Es 22,20). E' un
  testo da cui emerge una radice più profonda dell'accoglienza allo straniero:
  la ragione, il motivo del rispetto sta anche nell'esperienza di migrante
  vissuta e sofferta dal popolo eletto: il popolo è invitato a ricordarsi delle
  sofferenze passate. Proprio perché tu sei stato forestiero in terra altrui e
  hai visto quanto sia dura tale condizione, cerca di avere comprensione e
  misericordia verso coloro che fanno questa esperienza nel tuo paese. 
  
  Nel corso dei secoli, con la maturazione religiosa avvenuta nell'esilio -cioè
  nella purificazione e nella sofferenza- e anche con la evoluzione delle leggi
  e dei costumi, il gher sarà sempre più inserito nella comunità religiosa,
  come leggiamo in Dt 10,18-19: "Il Signore rende giustizia all'orfano e
  alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il
  forestiero". L'amore per il forestiero è visto quale imitazione di Dio
  stesso. Emerge un parallelo tra la concezione che il popolo ha di Dio e la
  concezione dello straniero. Se Dio ama i deboli -l'orfano, la vedova, lo
  straniero- noi pure dobbiamo amarli.
  
  II - I principi teologici dell'accoglienza dello straniero nel Nuovo
  Testamento
  Il Nuovo Testamento segna un passo ulteriore e decisivo nel rapporto con lo
  straniero. Il discorso sarebbe molto lungo e volendo riassumere in breve le
  motivazioni che nel Nuovo Testamento fondano il comportamento cristiano verso
  il forestiero, le esprimo così: una motivazione cristologica, una carismatica
  e una escatologica.
  
  1. Il motivo cristologico è ricordato in Matteo 25, nella scena del giudizio
  finale, là dove Gesù proclama che chi accoglie il forestiero accoglie lui
  stesso: "ero forestiero e mi avete ospitato...Ogni volta che avete fatto
  queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a
  me". Si dice dunque molto di più del testo del Deuteronomio (Dio ama il
  forestiero e tu devi imitarlo). L'accoglienza dello straniero non è una
  semplice opera buona, che verrà ripagata da Dio, bensì l'occasione per
  vivere un rapporto personale con Gesù.
  
  Mi viene in mente Madre Teresa di Calcutta, che ha ripetuto infinite volte la
  parola "lo avete fatto a me", facendone il fulcro di tutta la sua
  missione. E' certamente una parola chiave per il rapporto col prossimo e anche
  con lo straniero.
  
  2. Il secondo motivo, che chiamo carismatico, sta nel primato della carità.
  "Aspirate ai carismi più grandi", insegna san Paolo in 1Cor 12, 31
  e, nel capitolo 13 dice che il carisma più grande è la carità.
  L'accoglienza dello straniero è una delle attuazioni dell'amore, amore che è
  la legge fondamentale del cristiano. "Ama il prossimo tuo come te
  stesso", risponde Gesù a chi gli chiede qual è il primo dei
  comandamenti (cf Mc 12,31); e in Mt 7,12 Gesù riassume la Legge e i Profeti
  nella cosiddetta regola d'oro: "Tutto quanto volete che gli uomini
  facciano a voi, anche voi fatelo a loro". La carità, dono superiore a
  ogni altro, si esercita verso tutti, quindi pure verso lo straniero, come
  sottolinea la parabola del buon samaritano. Costui, considerato straniero dal
  popolo ebraico, non ha esitato a soccorrere un ebreo ferito che si trovava sul
  ciglio della strada; ha superato le barriere razziali e religiose, "si è
  fatto prossimo" (cf Lc 10,36), ha vissuto il carisma della carità.
  
  3. Il terzo motivo che emerge da alcuni passi del Nuovo Testamento è di
  carattere escatologico, concerne le cose ultime, la destinazione dell'uomo
  alla vita eterna. In tale visuale, tutti i credenti in Cristo sono pellegrini
  e stranieri in questo mondo: "Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma
  cerchiamo quella futura"(Eb 13,14; cf Eb 11,10-16).
  
  Dunque, come il ricordo di essere stati migranti e forestieri in Egitto,
  costituiva per gli Israeliti un invito all'ospitalità verso gli stranieri, ad
  avere compassione e solidarietà per coloro che partecipavano alla medesima
  sorte, così i cristiani, sentendosi pellegrini in questa terra, sono invitati
  a comprendere le sofferenze e i bisogni di quanti sono stranieri e pellegrini
  rispetto alla patria terrena. Un cristiano dei primi secoli descriveva lo
  stato di "pellegrino" proprio del cristiano in un modo molto bello:
  "I cristiani abitano la propria patria, partecipano a tutto come dei
  cittadini, e però tutto sopportano come stranieri. Ogni terra straniera è la
  loro patria e ogni patria è terra straniera" (Lettera a Diogneto). E non
  perché i cristiani si disinteressano della città terrena, bensì perché
  sanno di essere in cammino verso quella città che Dio stesso ci sta
  preparando.
  
  Davvero la Bibbia ci pone davanti a un grande messaggio che sentiamo tanto
  lontano dai nostri comportamenti, dalle nostre capacità. Ci fa comprendere
  che la morte di Gesù in croce abbatte ogni frontiera e ci fa membri di
  un'umanità che trova la sua unità in Cristo. E lo Spirito del Risorto
  suscita in ogni credente il carisma della accoglienza. Dobbiamo sentire che,
  sospinti da questa forza, noi possiamo aprirci alla scoperta di Cristo nello
  straniero che bussa alla nostra porta. Abbiamo tanti motivi, umani e civili,
  per accogliere lo straniero, motivi a cui forse pensiamo poco e che sono
  certamente molto esigenti e radicali.
  
  III - Le difficoltà e la gradualità di un cammino di integrazione
  Vogliamo allora chiederci: in quale contesto ci raggiunge il messaggio
  biblico? quali reazioni e quali resistenze suscita in noi?
  
  A me sembra infatti che la questione degli stranieri oggi -in Italia e in
  Europa- non sia soltanto delicata e difficile, ma pure un segno dei tempi e
  anche un segno di contraddizione.
  
  L'atteggiamento più o meno ospitale degli europei, in particolare dei
  cristiani, nei confronti degli stranieri acquista, per le scelte globali che
  implica, una rilevanza speciale e costituisce probabilmente un tornante
  decisivo per la nostra cultura e la nostra storia. 
  
  Le cifre e le tendenze sono state già indicate dalla relazione di Ilvo
  Diamanti, e mi limito quindi ad alcune riflessioni di carattere generale. 
  
  Riguardo alla situazione, la presenza degli stranieri tra noi, pur con tutti i
  progressi compiuti, non è ancora ben assimilata e nemmeno ben tollerata. Vi
  sono delle reazioni negative comprensibili, dovute a momenti particolarmente
  drammatici: per esempio, quando gli stranieri commettono dei reati. In questi
  casi l'orrore e il rifiuto sono giustificabili, come pure la domanda di
  legalità e di difesa dell'ordine pubblico è più che legittima.
  
  Ma, al di là di tali circostanze, permane nella gente un timore e una
  diffidenza verso gli stranieri.
  
  Riguardo allo scenario di fondo, siamo di fronte a un nuovo, grande processo
  di rimescolamento delle genti, per una serie di fattori che conosciamo.
  L'Europa e il Nord America vivono un'epoca di benessere e di democrazia tra i
  più alti della storia. Di conseguenza, il sud del mondo, povero e spesso
  sottosviluppato, preme verso il nord del mondo. L'ideale sarebbe lo sviluppo
  di questi paesi nelle loro terre, in modo che ogni persona trovi cibo, lavoro
  e libertà a casa propria. A livello internazionale occorre certamente puntare
  sullo sviluppo e la promozione del sud. Non è però una soluzione attuabile a
  breve termine, per motivi sia politici sia socio-economici, motivi che in
  questa sede non è possibile approfondire.
  
  Quali sono dunque gli sviluppi prevedibili della situazione attuale, in
  particolare per gli stranieri extracomunitari che fanno più fatica a essere
  integrati? In proposito si è parlato molto negli ultimi mesi dell'Islam e
  delle probabilità maggiori o minori che ha di integrarsi con la nostra
  cultura e le nostre tradizioni. A mio avviso siamo di fronte a tre ipotesi
  possibili: secolarizzazione, integralismo, integrazione.
  
  * C'è l'ipotesi di una secolarizzazione o omogenizzazione dei nuovi venuti
  che accettano la modernità europea, con il suo scetticismo, il suo
  individualismo, il suo indifferentismo, e abbandonano a poco a poco le
  tradizioni d'origine mescolandosi con l'ambiente circostante.
  
  * L'ipotesi contraria è quella del costituirsi di ghetti, di luoghi di
  chiusura e di resistenza, in cui si conservino rigidamente le tradizioni e la
  coscienza della propria estraneità, magari con la prospettiva
  ''medicale", di una conquista graduale del territorio, grazie soprattutto
  alla crescita della natalità.
  
  * Una terza ipotesi possibile è quella di una integrazione graduale e
  progressiva, nel rispetto dell'identità e nel quadro della legalità e della
  cultura del paese ospitante.
  
  Non sappiamo quale di queste prospettive si realizzerà, e molto dipende anche
  da noi. Mi pare tuttavia che la terza ipotesi -integrazione graduale e
  progressiva, nel rispetto dell'identità e nel quadro della legalità e della
  cultura del paese ospitante- sia l'unica accettabile. E' una prospettiva
  ardua, per la quale occorre operare non solo nel quadro del superamento delle
  paure, non solo nel quadro della legalità, ma con una pedagogia che insista
  specialmente sui bambini e sui ragazzi, figli degli immigrati, dal momento che
  sono più facilmente adattabili alle situazioni nelle quali vivono. Per loro
  è un bene potersi integrare con serenità nell'ambiente dove imparano ogni
  giorno a vivere. Non chiediamo, naturalmente, che rinuncino ai tratti civili e
  morali che li caratterizzano, purché siano rispettosi della cultura del paese
  ospitante. Chiediamo dunque, anzi esigiamo il rispetto delle leggi proprie del
  paese.
  
  IV - La domanda più specificamente religiosa
  Rimane la domanda più specificamente religiosa che è stata posta all'inizio
  del nostro incontro, la domanda sul mandato di Gesù: "Andate e predicate
  il Vangelo".
  
  Nel confronto che siamo tenuti ad avere con le altre religioni e culture,
  quanto c'è ancora della forza evangelizzatrice che avevano i primi cristiani?
  
  La risposta va articolata. Vi sono, infatti, gli immigrati cristiani (circa la
  metà), in parte cattolici e in parte ortodossi, che stanno già portando
  un'iniezione di vitalità e di generosità nelle nostre parrocchie e nei loro
  luoghi di culto; basta partecipare ad alcune delle loro feste per rendersene
  conto. Ogni anno sono invitato al Natale dei copti ortodossi originari
  dell'Egitto, presenti in gran numero a Milano: la sera del 6 gennaio celebrano
  il Natale ed è impressionante vedere quanti giovani, donne, uomini, bambini
  pregano intensamente. Aggiungo, tra l'altro, che, pur essendo ortodossi, mi
  accolgono alla porta della chiesa con inchini e danze per condurmi poi
  all'altare maggiore dove il Vescovo presidente mi rivolge un saluto con
  espressioni piene di affetto. E' una realtà immigrata che ci aiuta attraverso
  una forte testimonianza cristiana. 
  
  Penso inoltre ad alcune celebrazioni vissute con la comunità filippina, molto
  fervente, profondamente cattolica, e a celebrazioni solennissime di comunità
  latino-americane, come i peruviani. 
  
  La domanda sull'evangelizzazione non riguarda quindi lo straniero in genere,
  bensì i non cristiani, in maniera speciale l'Islam. E al riguardo rispondo
  ricordando anzitutto la parola di san Paolo: ''Guai a me se non
  evangelizzo" (1Cor 9,16). Il cristiano è sempre tenuto a testimoniare la
  sua fede ovunque e a chiunque, tenendo ovviamente conto della diversità delle
  situazioni e della molteplicità degli approcci. Bisogna per questo
  evangelizzare col Vangelo della carità, dell'accoglienza e anche col Vangelo
  della pazienza. E' la prima testimonianza che rende presente il Dio che
  amiamo. 
  
  C'è poi l'evangelizzazione fatta col Vangelo della vita, vivendo l'onestà,
  la sincerità, la trasparenza nei rapporti di lavoro, l'accoglienza e la mutua
  fiducia.
  
  Infine, il Vangelo della parola, che può essere particolarmente arduo da
  annunciare in certe circostanze. Sarà necessario cominciare togliendo i
  pregiudizi, chiarendo le idee sbagliate, crescendo nella conoscenza reciproca.
  Non dobbiamo però mai tralasciare di proporre la verità, in cui crediamo e
  che amiamo, nella maniera più adeguata alle singole situazioni, cioè nei
  tempi e nei modi opportuni.
  
  Conclusione
  Concludo riferendomi al racconto di Luca dei dieci lebbrosi guariti da Gesù,
  di cui soltanto uno, lo straniero, ritorna a ringraziarlo; e Gesù, stupito e
  amareggiato, domanda: "Non sono forse stati guariti tutti e dieci? Dove
  sono gli altri nove? Non si è trovato chi tornasse a rendere gloria a Dio,
  all'infuori di questo straniero?'' (17, 17-18). Noi ci troviamo più volte tra
  i nove che non sanno ringraziare, non sanno apprezzare il dono della fede
  perché lo ritengono quasi ovvio e scontato, e che hanno dunque perso qualcosa
  della forza evangelizzatrice dei primi cristiani.
  
  La presenza crescente di stranieri nel nostro paese è davvero un'occasione
  provvidenziale per noi di ritornare indietro da Gesù, di guardare alla nostra
  origine, al nostro battesimo, al dono della fede. Se ci lasceremo invadere
  dalla gratitudine per tanto dono e lo vedremo bello ed entusiasmante per noi
  stessi, sarà più facile farlo comprendere e trasmetterlo ad altri.
  
  Mi auguro che questo sia anche il frutto del vostro lavoro.