Integrazione degli immigrati

 

L'integrazione degli immigrati tra paure e speranze

di Stefano Femminis e Francesco Occhetta

 

Negli ultimi 20 anni il nostro Paese è meta di crescenti flussi migratori. Il Ministero degli Interni ha reso noto che al 10 gennaio 2000 gli stranieri presenti in Italia con permesso di soggiorno erano 1.340.655, di cui 732.669 maschi e 607.986 femmine, pari al 2,3% della popolazione residente nel Paese (circa 57.677.000 unità). Se si considerano anche quei minori che non hanno un permesso di soggiorno individuale, la stima degli immigrati regolarmente presenti in Italia si aggira intorno a 1.520.000 unità.

Nonostante questo consistente numero, l'Italia resta la nazione europea che ospita meno immigrati in rapporto alla popolazione residente. Secondo i dati più recenti disponibili, quelli del 1998, la percentuale italiana di stranieri, pari all'1,7%, era in linea con quelle di Grecia, Spagna e Finlandia, mentre per gli altri Paesi i valori risultavano compresi tra il 3% dell'Irlanda e il 9% del Belgio e della Germania [1].

Una valutazione sia di queste cifre, sia di recenti ricerche secondo cui la nuova paura in Italia e più in generale in Europa si chiama proprio «immigrazione» [2] pone al centro l'integrazione, intesa non solo come semplice promozione di un serio «governo dell'immigrazione», ma soprattutto come crescita di una seria e condivisa «cultura dell'immigrazione» nel Paese [3].

Con questo intento ci proponiamo di analizzare il Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, coordinato da Giovanna Zincone - presidente della Commissione nazionale per le politiche di integrazione degli immigrati del Dipartimento per gli Affari Sociali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri [4] -, mantenendoci in continuità con i due presupposti di fondo del Rapporto stesso: riconoscere la piena dignità della persona immigrata con i suoi diritti e doveri fondamentali, e individuare soluzioni degli eventuali rapporti conflittuali tra immigrati e autoctoni e tra immigrati di diversa provenienza, affinché l'integrazione avvenga con un basso tasso di conflittualità.


l. Situazione demografica

Dall'analisi demografica curata dalla Commissione, emerge che la popolazione straniera risiede soprattutto nelle regioni nord-occidentali (33,1%) e centrali (28,6%), mentre il Nord-Est accoglie il 22% e il Sud solo il 13,3% della popolazione immigrata. Si tratta di una popolazione giovane: il 40% ha un'età compresa tra i 25 al 35 anni e coloro che superano i 60 anni sono poco più del 7%. L'area geografica più rappresentata è quella costituita dai Paesi dell'Europa centro-orientale (27%) che dal 1992 al 2000 sono aumentati quasi del 20% all'anno. La comunità nord-africana, la più anziana, ha avuto dal '92 ad oggi un incremento modesto (7%) e circa l'80% è costituito da cittadini marocchini e tunisini. In termini assoluti il primo Paese di provenienza resta ancora il Marocco, che al l0 gennaio 2000 contava 155.600 immigrati. Nella Tab. 1 riepiloghiamo i dati di provenienza per gli anni 1999 e 2000.

Tabella 1 [ Permessi di soggiorno nel 1999 e nel 2000 1999 2000 per aree di provenienza]

                                                 1999                        2000

 

      n.

   %

      n.

   %

 Unione Europea

  142.128

  13,0

   145.863

  10,9

 Europa centro-orient.

  261.267

  24,0 

   363.445

  27,1

 Altri Paesi europei 

    21.782

   2,0

     20.929

   1,6

 EUROPA

  425.177

  39,0

   530.237

  39,6

 Africa settentrionale

  205.413 

  18,8

   251.346

  18,7

 Africa occidentale

    75.815

   7,0

   100.144

    7,5

 Africa orientale  

    28.600

   2,6

    29.867

    2,2

 Africa centro-merid. 

      6.606

   0,6

      8.175

    0,6

 AFRICA

  316.434 

  29,0

   389.532

   29,1

 Asia occidentale  

    17.652

   1,6

     18.498

     1,4

 Asia centro-merid.   

    73.700

   6,8

     97.470

     7,3

 Asia orientale

  116.184

  10,7

   140.644

   10,5

 ASIA

   207.536

  19,0

   256.612

   19,1

 America settentrionale

    48.461

   4,4

    50.404

     3,8

 America centro-merid.  

    90.265

   8,3

   110.833

     8,3

 AMERICA

  138.726

  12,7

   161.237

   12,0

 OCEANIA

       2.282

   0,2

       2.420

     0,2

 Apolidi

          665

   0,06

    .     617

    0,05

Fonte: Elaborazione ISTAT su dati del Ministero dell'interno.

La Commissione evidenzia chiaramente che i flussi sono destinati ad aumentare sia per motivi di convenienza e di necessità, sia per effetto dei ricongiungimenti familiari. Nei prossimi anni si prevedono flussi che dovrebbero oscillare dai 50 mila agli 80 mila immigrati all'anno. In base a queste stime, la popolazione straniera in Italia nel 2007 potrebbe ammontare a una cifra compresa tra 1,9 e 2,5 milioni di persone, corrispondente a una percentuale sulla popolazione oscillante tra il 3,2% e il 4,2%; nel 2017 potrebbe essere compresa tra 2,6 milioni e 3,5 milioni di persone, con una incidenza oscillante tra il 4,5% e il 6,2%. Per avere un termine di paragone, si tenga presente che già nel '95 Francia e Germania avevano percentuali di immigrati sull'intera popolazione rispettivamente del 6,3% e dell'8,8%.

Questa crescita straordinaria, che da una parte potrebbe inquietare, dall'altra indica anche un tempo sufficientemente lungo per prepararsi a un'integrazione corretta e positiva tra popolazione autoctona e popolazione immigrata.

2. Integrazione nella scuola

Uno degli elementi decisivi al fini di una compiuta integrazione degli immigrati nel nostro Paese è rappresentato dalla scuola: essa, nella sua duplice funzione di educazione alla cittadinanza e di preparazione alla vita lavorativa, è chiamata a confrontarsi con la nuova realtà della presenza di alunni stranieri. Si pur dire che il sistema scolastico funge da «cartina di tornasole; per evidenziare limiti e carenze dell'intera società italiana nel processo di integrazione. Dal punto di vista degli stessi immigrati, poi, è evidente come la scuola rappresenti una straordinaria opportunità, oltreché di integrazione culturale, anche di mobilità sociale per uscire da una situazione di marginalità.


a) Dati numerici

Secondo i dati del Ministero della Pubblica Istruzione nell'ultimo triennio gli studenti stranieri nelle scuole italiane, dalla materna alle medie superiori, sia pubbliche sia convenzionate, hanno avuto il seguente andamento: 85.522 nel 1998-99, pari all'1,09% dell'intera popolazione scolastica, 119.679 nel 1999-2000 (1,47%) e circa 140.000 (i dati sono ancora provvisori) nel 2000-2001 (2%). Per quanto riguarda il 1999-2000 il maggior numero di presenze si rileva nella scuola elementare con 52.973 alunni, seguono le medie inferior (28.891), le scuole materne (24.103) e le superiori (13.712).

Alla base del notevole incremento di alunni stranieri vi è, da una parte l'aumento dei ricongiungimenti familiari, dall'altra la rapida crescita del numero di figli di immigrati che nascono in Italia. Questi ultimi, secondo i dati ISTAT, sono aumentati dal 1998 al 1999 del 25%, passando da 16.901 a 21.175. Accanto a queste due tipologie di alunni - bambini giunti per ricongiungimento familiari e cosiddetti «immigrati di seconda generazione» - vi sono poi i bambini entrati in Italia come profughi e i nomadi o ex-nomadi rom e sinti.

Dati interessanti sono anche quelli sulla distribuzione territoriale degli scolari stranieri. Essa è uno specchio fedele delle varietà locali del fenomeno migratorio, legate soprattutto alle condizioni del mercato del lavoro. In Lombardia, ad esempio, vive quasi un quarto (24,5%) degli studenti stranieri soggiornanti in Italia, mentre nella stessa regione vive il 21,3% del totale degli immigrati regolari. La differenza tra le due percentuali è indice di una popolazione straniera formata in gran parte da famiglie con figli. Il contrario si osserva in Campania, dove soggiorna il 5% degli stranieri, ma nelle cui scuole è presente solo l'l,1% del totale degli studenti stranieri.

Infine sono disponibili alcuni dati sulle «carriere scolastiche» dei bambini e dei ragazzi stranieri. Nell'anno scolastico 1998-1999, nelle scuole elementari risulta promosso il 95,5% degli alunni stranieri contro una percentuale complessiva di promossi pari al 98,8%, mentre nelle scuole medie il divario si amplia: 84% di promossi tra gli stranieri contro il 94,8% complessivo.

b) La competenza linguistica

Un primo strumento ai fini di una compiuta educazione interculturale, l'insegnamento della lingua italiana agli alunni stranieri, facendo attenzione comunque che non vada persa la lingua di origine. Un modello di intervento classico è la strutturazione di laboratori di italiano specifici per bambini stranieri. Ma, seppure sporadico, si fa strada un altro approccio, basato su progetti di vera e propria «integrazione linguistica»: il presupposto è che gli allievi acquisiscono una seconda lingua in maniera effettiva quando sono impegnati nell'apprendimento, e quindi non c'è bisogno di un sostegno linguistico separato.

Un'altra tipologia di interventi, infine, riguarda la valorizzazione della lingua di origine. Questa è considerata come una risorsa e un sostegno all'apprendimento dell'italiano e in qualche caso la comparazione tra le strutture linguistiche dei due idiomi è un efficace strumento didattico. A Milano e a Udine sono stati effettuati esperimenti di questo tipo con «mediatori linguistici» che offrono un supporto sia agli insegnanti sia agli allievi stranieri, i quali vengono considerati a tutti gli effetti bilingui.

c) L'educazione interculturale: alcune esperienze

Il processo di riforma complessiva che ha investito la scuola nella scorsa Legislatura - processo che sarà peraltro in gran parte bloccato, stando alle prime dichiarazioni dei leader della nuova maggioranza - ha riguardato anche i problemi posti dall'integrazione degli alunni stranieri. Alcuni documenti ministeriali, ad esempio, mettono al centro l'educazione interculturale come una componente strutturale di tutto l'insegnamento, e lo stesso contratto nazionale del comparto scuola per il 1998-2001 e la relativa contrattazione integrativa prevedono la promozione dì attività formative specificamente rivolte ai docenti di scuole dove si ha una presenza consistente di studenti stranieri.

Peraltro, sulla definizione stessa di cir che si intende per intercultura e sugli strumenti per praticarla, esistono varie correnti di pensiero. Tuttavia cir che appare chiaro e condiviso è che «l'intercultura non è una disciplina, né una tecnica, ma un approccio, uno sfondo di valori di riferimento» [5] . In questa sede ci limitiamo a descrivere alcune tipologie di esperienze che vanno in questa direzione: 1) sperimentazione dì modalità espressive di altre culture, come danze, giochi, feste, ecc., in molti casi anche coinvolgendo i genitori dei bambini; 2) gemellaggi, adozioni a distanza, scambi epistolari con scuole di altri Paesi; 3) racconti e fiabe come occasioni di confronto con universi simbolici appartenenti ad altre culture; 4) educazione allo sviluppo e all'analisi della società globalizzata, partendo ad esempio dagli stessi rapporti interpersonali nella classe; 5) studio di popoli e di culture e analisi su temi come il pregiudizio, la tolleranza, ecc.

d) Formazione degli insegnanti e nuove figure professionali

Per affrontare il rinnovamento nei metodi e nei contenuti del proprio lavoro, i docenti dispongono di un'ampia gamma di offerte formative:

1) corsi predisposti dalle istituzioni scolastiche (IRRSAE, provveditorati, circoli didattici, ecc.), relativi soprattutto alla storia e alla cultura di altri Paesi, ai riferimenti teorici dell'educazione interculturale e al sostegno linguistico;

2) proposte formative di enti locali, ONG, associazioni culturali e di immigrati, riguardanti gli argomenti più vari: dalla conoscenza del fenomeno migratorio ai problemi dello sviluppo, dall'individuazione e decostruzione degli stereotipi a percorsi da proporre agli alunni per la valorizzazione della diversità;

3) formazione a distanza, grazie a un accordo tra Ministero della Pubblica Istruzione e RAI per la produzione di 10 trasmissione televisive, un CD-ROM e un sito Internet, centrati su tematiche utili nella nuova scuola multiculturale; il progetto - realizzato nell'annata 1999-2000 - ha coinvolto 2.500 docenti.

L'acquisizione di nuove competenze e metodologie da parte degli insegnanti non pur perr trasformare i docenti in «tuttologi». In questo senso appare determinante l'introduzione di nuove figure professionali. Un esempio è quello del «mediatore culturale», la cui funzione peraltro rimane ancora piuttosto vaga: in alcuni casi esso viene inteso come un operatore che facilita il dialogo interculturale, in altri è prioritaria la funzione di supporto all'apprendimento dell'italiano. Un'altra nuova figura professionale è quella dell'«animatore-educatore interculturale», sperimentata in un quartiere di Torino dove è particolarmente alta la presenza di immigrati: nell'anno scolastico 1999-2000 al centro del progetto vi era la realizzazione di un laboratorio teatrale rivolto a bambini, insegnanti e genitori delle scuole materna ed elementare.

In sintesi, la Commissione sottolinea che nel mondo della scuola il panorama delle esperienze interculturali si presenta quantitativamente ricco e diffuso sul territorio, ma rimane piuttosto ampia la distanza tra le indicazioni offerte dalle direttive ministeriali e la loro effettiva ricezione da parte degli insegnanti


3. Integrazione nel lavoro

Circa l'integrazione degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, la Commissione mette in rilievo alcune tendenze di fondo, pur avvertendo che in questo campo i dati statistici sono da valutare con particolare cautela, sia per il fenomeno del lavoro sommerso, sempre difficile da stimare, sia per le influenze che sui vari andamenti hanno avuto le novità legislative intervenute di anno in anno (sanatorie, nuove regole per l'assunzione, ecc.).

Il lavoro dipendente regolare è in crescita. Secondo i dati dell'INPS l'incremento nel periodo 1997-1999 si è stabilizzato intorno a un tasso annuo del 6%. La costanza della crescita è ancora più significativa se si ricorda il fortissimo aumento del 1996, legato alla sanatoria. Inoltre bisogna tenere conto che nei conteggi mancano coloro che hanno presentato domanda di regolarizzazione a fine 1998 ma che, a causa delle lungaggini delle procedure, solo a fine 2000 hanno ricevuto il permesso di soggiorno: si stima che si tratti di 164 mila persone. A fronte di questo andamento si osserva perr una ripresa dell'occupazione irregolare, che peraltro rimane molto al di sotto dei livelli dei primi anni Novanta. Secondo le ispezioni condotte dal Ministero del Lavoro la percentuale di occupati irregolari tra i lavoratori dipendenti extra-comunitari, assestata da tre anni intorno al 31-33%, è salita nel 1999 al 38%. Va detto peraltro che nel 1999 il numero delle ispezioni è cresciuto quasi del 50%. Il 12,2% sono lavoratori senza permesso, mentre nel 1998 erano l'8,8%. Questi dati confermano quanto sia diffusa la cosiddetta «clandestinità obbligata», imposta dai datori di lavoro per evitare di versare i contributi.

Una tendenza importante è l'acuirsi delle differenze regionali per quanto riguarda l'inserimento nel mercato del lavoro regolare. Alcuni esempi: nei settori dell'industria e dei servizi, nel 1999, il 36,6% degli occupati regolari si trovavano nel Nord-Ovest (il 26,7% in Lombardia), il 28,1% nel Nord-Est, il 32% nel Centro e solo il 3,3% nel Sud e nelle Isole. Nello stesso anno, in Lazio e in Lombardia si concentravano quasi il 55% degli immigrati occupati come domestici. Si assiste a una elevata mobilità interna: oltre il 60% degli immigrati che hanno ricevuto il permesso di soggiorno in una regione meridionale e che hanno trovato un'occupazione regolare, l'hanno trovata in una regione diversa.

Altri importanti rilievi che emergono dal Rapporto sono i seguenti:

1) la scarsa qualificazione professionale dei lavori a cui sono destinati gli immigrati, che pure in molti casi sono in possesso di titoli di studio medio-alti: il 77% delle assunzioni al lavoro nel 1999 erano relative a mansioni di operaio comune, mentre i ruoli impiegatizi superavano di poco il 2%;

2) la crescita di domanda di lavoratori immigrati da parte degli stessi imprenditori - perlomeno in alcune zone del Paese e per alcune attività -, con prese di posizione esplicite a favore di un incremento dei flussi programmati (per il 2001 la quota di ingressi programmati è stata fissata in 83 mila persone, di cui 33 mila lavoratori stagionali e 50 mila lavoratori a tempo determinato o indeterminato) e di una stabilizzazione e qualificazione dei lavoratori immigrati: in base a un'indagine campionaria svolta nel 1999, per il biennio successivo le imprese prevedevano di assumere circa 200 mila immigrati, quasi un quarto del totale delle nuove assunzioni;

3) la conferma della relazione inversa tra presenza di immigrati e livello di disoccupazione, che smentisce così il vecchio pregiudizio secondo cui «gli immigrati sottraggono il lavoro agli italiani»;

4) il diffondersi di esperienze di imprenditorialità da parte di extra-comunitari, esperienze su cui si riversano probabilmente le aspirazioni di mobilità sociale che non trovano espressione nel lavoro dipendente: tra le comunità più attive in questo senso si segnalano gli egiziani, i cinesi e i peruviani.


4. Condizioni abitative

Uno degli aspetti in cui si registrano i maggiori ritardi nel processo di integrazione degli immigrati è, secondo la Commissione, quello dell'abitazione. In generale si osserva una polarizzazione delle sistemazioni abitative: da un lato, un miglioramento per quote di immigrati, dall'altro una persistente precarietà per le componenti più deboli e per quelle, all'inizio del percorso migratorio. Al di là di azioni innovative a livello locale, la sensazione è che manchi una politica organica capace di produrre una nuova «edilizia sociale».

Un impulso positivo potrebbe venire dalla nuova legislazione sull'affitto, varata nel 1998 - che prevede ad esempio l'istituzione del Fondo sociale per il sostegno all'accesso all'affitto -, e da alcune norme in merito della stessa legge Turco-Napolitano, che assegna un ruolo fondamentale a Regioni, enti locali e organizzazioni del settore non-profit. Ma la Commissione denuncia una carenza di strumenti legislativi per affrontare situazioni di bisogno estremo.

Emerge infatti uno stretto rapporto tra esclusione abitativa ed esclusione sociale: la presenza di immigrati tra i senza dimora delle metropoli italiane è consistente. A Milano, ad esempio, secondo la Caritas, metà dei 4.000 senza casa sono stranieri. A livello nazionale, stando alle stime del Ministero per la Solidarietà Sociale, gli stranieri sarebbero il 35-40% dei 70-80 mila senza dimora che hanno contatto con enti pubblici e associazioni di volontariato. La Commissione sottolinea due aspetti: anzitutto, pur essendovi una certa relazione tra irregolarità e mancanza di abitazione, non bisogna pensare a una relazione univoca: in situazioni di precarietà infatti si trovano anche quote rilevanti di immigrati regolari. In secondo luogo, emerge una differenza rispetto al disagio abitativi dei cittadini italiani: «mentre per gli italiani oggi i percorsi che iniziano con la perdita di casa non sono predominanti, per gli immigrati i percorsi di emarginazione partono spesso proprio da situazioni di esclusione abitativa»[6].


5. Condizioni sanitarie

Un primo indicatore delle condizioni di salute della popolazione immigrata è la scarsa sicurezza sui luoghi di lavoro. In realtà, più ancora che per gli stessi lavoratori italiani, è questa una piaga in cui la parte sommersa del fenomeno è probabilmente molto ampia. Infatti, è presumibile che la situazione di irregolarità di diversi lavoratori stranieri porti all'occultamento di eventuali infortuni Inoltre, anche le rilevazioni ufficiali effettuate dall'INAIL, denuncia la Commissione, non prevedono una disaggregazione delle statistiche per nazionalità delle vittime.

Un dato riferito al 1998 che, seppure indirettamente, offre qualche indicazione è quello sui ricoveri effettuati in tutti gli istituti presenti in Italia: i «traumi» rappresentano il 17,5% delle cause di ricovero in degenza ordinaria per i non residenti e il 10,5% per i residenti, in entrambi i casi percentuali superiori a quelle analoghe registrate per gli italiani. E' probabile che in questi ricoveri si annidino anche gravi casi di infortuni sul lavoro non denunciati.

Un fenomeno decisamente allarmante che emerge dal Rapporto è quello sulle interruzioni volontarie di gravidanza (IVG) praticate da donne straniere. L'IVG rappresenta la causa del 56% dei ricoveri in day hospital per le straniere non residenti e oltre il 27% per quelle residenti, mentre nelle donne italiane rappresenta solo il 4%. Per i ricoveri superiori a un giorno, I'IVG rappresenta il 2% per le straniere non residenti e l'1,7% per quelle residenti, contro lo 0,5% delle italiane. Inoltre, una stima effettuata dall'ISTAT rivela che il tasso di abortività per le donne con cittadinanza straniera tra i 18 e 1 49 anni era nel 1998 del 28,7%o, un valore quasi triplo rispetto a quello osservato per le donne italiane.

Infine, molti dati riguardano la salute dei bambini stranieri. In particolare, una ricerca multietnica effettuata in vari ospedali ha valutato le condizioni sanitarie di oltre 8.000 neonati di diversa etnia e di quasi 7.000 bambini italiani. E stata registrata un'incidenza significativamente più elevata di asfissia nei bambini africani e nei rom, mentre neonati latinoamericani e rom presentano più frequentemente di altri disturbi respiratori. Inoltre, è emersa l'abitudine da parte dei genitori stranieri di non far visitare i bambini affetti da patologie leggere, il che aumenta il rischio di successive complicazioni.


6. Partecipazione e rappresentanza

In Italia gli immigrati non hanno il diritto di voto. Da tempo gli ordinamenti di Svezia, Danimarca, Olanda e Irlanda prevedono il diritto di voto amministrativo. Il Belgio nel '98 e all'inizio del 2000 anche la Spagna hanno introdotto, attraverso la revisione delle loro rispettive Costituzioni, il diritto di voto per gli stranieri. Nel nostro Paese vi è ancora molto scetticismo nonostante l'art. 8 del Trattato di Maastricht, divenuto poi articolo 19 del Trattato di Amsterdam, preveda il riconoscimento del diritto di voto sia per le amministrazioni locali sia per gli organismi europei agli stranieri residenti nei Paesi dell'UE.

A livello politico il diritto di voto locale continua a dividere i partiti. Nella scorsa Legislatura si sono registrati due tentativi, entrambi falliti, di introdurre tale diritto: un articolo della legge Turco-Napolitano che prevedeva di far votare chi è in possesso della carta di soggiorno, quindi con almeno 5 anni di presenza, è stato successivamente stralciato; un apposito disegno di legge di riforma costituzionale presentato nel '97 dal Governo Prodi non è stato approvato. Attualmente solo la legge n. 142/90 riconosce la possibilità ai singoli Comuni di prevedere nei loro statuti il voto degli stranieri nei referendum locali [7].

La Commissione comunque non limita il concetto di partecipazione civica al solo diritto di voto attivo e passivo a livello locale, ma lo estende all'adesione ad associazioni, sindacati e movimenti politici. Nel caso dei sindacati, ad esempio, la CISL nel 1999 ha avuto 4.672 nuovi tesserati stranieri, per un totale di 93.410 iscritti stranieri.

In modo particolare la Commissione elogia i «Consigli territoriali per l'immigrazione» (CTI), previsti dall'art. 3 della legge Turco-Napolitano. Questo nuovo organismo di rappresentanza e di mediazione di interessi prevede un coinvolgimento attivo dell'associazionismo degli stranieri nella promozione e nella programmazione delle politiche locali per l'integrazione degli immigrati. Sono istituiti a livello provinciale, il Prefetto è il responsabile per la formazione e il funzionamento. Dopo una complessa evoluzione legislativa il via libera alla costituzione dei CTI si è avuto il 18 dicembre 1999 [8]. Non si pur ancora tracciare un vero e proprio bilancio, ma la rapida costituzione dei CTI in quasi tutta Italia e le incoraggianti esperienze locali di Arezzo, Caserta, Lecco, Bologna, Cremona, Livorno e Prato indicano come i Consigli siano già un valido strumento di integrazione politica grazie al loro rilevanti poteri operativi sul territorio.

La soddisfazione per questa esperienza non deve perr arrestare il dibattito nel Paese volto a riconoscere il diritto di voto amministrativo come segno vero di accoglienza e di integrazione.


7. Immigrazione irregolare e devianza

Calcolare le presenze di irregolari - immigrati privi di permesso di soggiorno - è difficile e infatti il Rapporto della Commissione non ne cita il numero. In ogni caso è possibile studiare alcune caratteristiche degli immigrati irregolari.

Un dato poco conosciuto dall'opinione pubblica è quello inerente alle espulsioni. I maggiori controlli, in seguito all'accordo di Schengen in base al quale si sono rinforzati le cooperazioni tra le polizie e gli accordi tra Stati, hanno determinato 57.600 espulsioni effettive nell'anno 2000 rispetto alle 40.489 del '99, mentre a 64.734 clandestini è stato ordinato di lasciare il territorio italiano. Se i 15 accordi di riammissione già in vigore e 1 7 già firmati con i Paesi d'origine degli stranieri sembrano dare frutti, un problema irrisolto è rappresentato dagli immigrati che hanno documenti falsi o ne sono del tutto sprovvisti.

Inoltre, le persone entrate clandestinamente e successivamente individuate dalle forze dell'ordine dal luglio del '98 alla fine del 2000 sono state 293.302, il triplo del periodo precedente; di queste ne sono state rimpatriate 169.369, pari al 57%.

Tuttavia è importante non confondere l'irregolarità con la criminalità. Se è normale che la maggior parte dei criminali non si preoccupa di essere in regola con il permesso di soggiorno, non è logico, sostengono gli estensori del Rapporto, affermare che la maggior parte degli irregolari sia costituita da criminali e non piuttosto da lavoratori precari e in nero. Piuttosto va detto che dietro a questo traffico di esseri umani il Rapporto denuncia una vera e propria industria della criminalità organizzata con un giro d'affari intorno ai 15 mila miliardi l'anno.

Agli immigrati la criminalità locale lascia la possibilità di commettere i reati più bassi della «piramide sociale criminale». Il Rapporto denuncia una sorta di sostituzione tra deviante straniero e italiano che sembra essere di complementarità.

Il Rapporto inoltre definisce le «specializzazioni etniche» criminali. 1 marocchini controllano in larga parte il contrabbando, gli albanesi, gli ex-iugoslavi e i nigeriani sono i maggiormente denunciati per traffico e sfruttamento della prostituzione, mentre i marocchini, i tunisini e gli algerini vengono soprattutto denunciati per traffico di stupefacenti. Mentre al Sud si tende a coordinare e ad assorbire la criminalità straniera, al nord ci sono invece aree in cui gli stranieri trovano spazio per inserirsi e controllare alcuni settori della criminalità.

Un ulteriore allarme è rappresentato dai minori stranieri, che vengono denunciati soprattutto per reati contro il patrimonio. Questo dato richiama l'attenzione a lavorare per la loro rieducazione negli istituti penali per minorenni, negli uffici di servizio sociale per minorenni e nelle comunità d'accoglienza.

Spesso l'immigrato clandestino, a motivo della sua debolezza, è vittima preferenziale delle associazioni a delinquere, come nel caso della prostituzione e del contrabbando. Il traffico di donne e di minori per sfruttamento sessuale rimane il fenomeno più doloroso per cui tutta la società deve sentirsi responsabile. Sono responsabili i clienti che con le loro richieste aumentano la clandestinità e generano schiavitù, ma è anche responsabile una cultura consumistica che riduce ad uso e consumo il corpo stesso.

I luoghi in cui gli immigrati commettono maggiori reati sono le grandi città e le zone in cui è più difficile l'inserimento lavorativo. La quota più elevata di stranieri denunciati sul totale si registra nelle grandi città del Nord e del Centro. La provincia di Milano con i suoi 150.000 immigrati è l'area in cui si rileva il più elevato numero di denunciati, arrestati e detenuti stranieri. In questo campo la grande ombra, spia di una non-integrazione, è costituita dal 14.050 detenuti stranieri, il 26% dell'intera popolazione carceraria che è di 52.870 soggetti. Molti casi indicano che la situazione dì integrazione e di rieducazione è quasi impossibile. Nel carcere milanese di san Vittore, ad esempio, il 60% della popolazione carceraria, pari a 1.800 persone, è composta da stranieri i quali hanno un alto tasso di recidività.

Questo perr non deve indurci a concludere che gli immigrati siano più pericolosi degli autoctoni. Diversi studi in materia dimostrano che se a parità di reato gli stranieri, rispetto agli italiani, finiscono in carcere più facilmente che gli italiani, cir dipende dal fatto che gli stranieri sono più controllati dalle forze dell'ordine e più denunciati. Inoltre gli stranieri hanno meno possibilità di garantirsi una difesa valida e accedono meno alle misure alternative al carcere, perché privi di dimora fissa e a volte di certificazione d'identit`.


8. Conclusione

Rispetto al processo di integrazione il Rapporto esprime un giudizio di «cauto ottimismo». Giovanna Zincone è sicura nel considerare il tempo come il migliore amico dell'integrazione, in particolare nel mondo della scuola e del lavoro, nonostante rimangano necessarie politiche ad hoc. E' urgente che a livello politico e normativo venga chiarito lo status di rifugiato e si distinguano gli immigrati lungo-residenti dal nuovi.

Al di là delle cifre, le radici dell'integrazione sono da ricercare non solo nella politica, ma anche e soprattutto sul piano etico. Per crescere come singoli e come società in questa direzione occorre accettare di essere per l'altro quello che l'altro è per noi così da rifuggire posizioni di superiorità e di dominio Contrariamente continueremmo a concepire gli immigrati esclusivamente in base all'utilità che danno al sistema economico.

Su questo punto ha insistito don Virginio Colmegna - direttore della Caritas ambrosiana - intervenuto alla presentazione del Rapporto: «concepire l'immigrazione legata al vantaggio economico che dà al Paese produce un concetto di integrazione in cui la nostra è la comunità più forte in cui si integrano gli altri. Concepire le politiche per l'immigrazione come una parte delle politiche per le fasce deboli produce solo danni. Se da una parte il mondo del lavoro ha bisogno di forza lavoro debole (pensiamo al lavoro domestico nelle grandi città), dall'altra vi è la sensazione che appena termina il lavoro e quindi appena termina l'utilità sociale, l'immigrato "scompare" e non esiste come persona».

E' quindi necessario lavorare non solo sul concetto di integrazione che il Rapporto presenta, ma soprattutto sulla concezione di persona. In altre parole, a partire dai principi costituzionali che fondano il nostro stato di diritto e la nostra democrazia, dobbiamo offrire agli immigrati la possibilità di verificare la propria situazione, di definire i loro progetti per evitare ghettizzazioni.

Un'altra via da percorrere fino in fondo è quella dell'Europa. Gli impegni sottoscritti in campo internazionale esprimono una nuova sensibilità politica nel gestire il fenomeno; questo perr non va tradotto in privilegi riservati ai cittadini a scapito di coloro che cittadini ancora non sono, ma in un'azione politica estensibile a tutti e volta a garantire indistintamente a ogni persona il godimento degli stessi diritti in forza della dignità riconosciuta dalla Carta delle Nazioni Unite.

La soluzione di fondo pur venire solo da una cultura del rispetto e dell'ospitalità. Accettare nuove culture non significa perdere la propria identità. Un atteggiamento aperto alla costruzione di un avvenire comune è l'unico modo per prepararsi a vivere in quella società multiculturale che l'immigrazione sta creando. E' fondamentale che i quartieri delle grandi città e i piccoli Comuni favoriscano l'incontro e la conoscenza reciproca, per superare le generalizzazioni e gli stereotipi e per scoprire storie di vita, affetti, speranze e valori da condividere.

«La speranza che sta crescendo - ha affermato ancora don Colmegna è una grande sensibilità sociale che perr dovrebbe tradursi sotto il profilo istituzionale. Il problema non si risolve con i proclami, perché sono sempre i processi che vanno a incidere sulla realtà e non viceversa. Una politica di slogan raccoglie consenso ma lascia le cose come stanno, una politica della progettazione e della verifica sperimenta di più, rende gli interventi più flessibili».

Le comunità cristiane, in particolare, hanno un importante ruolo da svolgere in questa linea. La loro visione di fede pur e deve indurli a un forte e operativo senso di apertura, ospitalità, solidarietà verso gli immigrati. In ciascuno di questi, infatti, essi riconoscono la presenza sofferente e bisognosa del loro Signore: «ero straniero e mi avete ospitato» (Mt 25, 35).

[1] Nel XX secolo sono espatriati circa 25 milioni di italiani. Al 10 gennaio 2000, dalle liste delle anagrafi consolari risultava che gli italiani residenti all'estero con cittadinanza italiana erano 3.840.281. Questi dati ci ricordano la storia di un Paese i cui abitanti prima di ospitare sono stati ospitati in gran numero.

[2] Cfr La Repubblica, 24 febbraio 2001, 15. L'indagine su «immigrazione e cittadinanza in Europa» è stata curata da Ilvo Diamanti per la Fondazione Nord-Est. Dalla ricerca emerge che gli stranieri sono ritenuti dai cittadini dell'Unione Europea una minaccia per l'identità culturale, il posto di lavoro e la sicurezza personale.

[3] Cfr Zanfrini L., «I paradossi dell'integrazione degli immigrati in Italia», in Aggiornamenti Sociali, 5 (2000) 444.

[4] Cfr Zincone G. (ed.), Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, il Mulino, Bologna 2001. La Commissione nazionale per le politiche di integrazione degli immigrati è istituita presso il Dipartimento per gli Affari Sociali della Presidenza dei Consiglio dei Ministri ai sensi dell'art. 46 dei Testo unico sull'immigrazione (DPCM del 7 luglio 1998 e DPCM del 16 ottobre 1999). In base all'art. 46, c. 2, «La Commissione ha i compiti di predisporre per il Governo, anche ai fini dell'obbligo di riferire al Parlamento, il rapporto annuale sullo stato di attuazione delle politiche per l'integrazione degli immigrati, di formulare proposte di interventi di adeguamento di tali politiche nonché di fornire risposta a quesiti posti dal governo concernenti Politiche per l'immigrazione, interventi interculturali e contro il razzismo».

[5] Zincone G. (ed.), Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, cit., 116.

[6] Zincone G. (ed.), Secondo rapporto sull'integrazione degli immigrati in Italia, cit., 85.

[7] Fossati A., «La nuova legge sull'ordinamento delle autonomie locali», in Aggiornamenti Sociali, 9-10 (1990) 637-638, rubr. 135.

[8] In base all'art.3, c. 6, dei TU sull'immigrazione emanato con decreto legislativo n. 286 dei 25 luglio 1998, i CTI sono organismi di analisi delle esigenze e di promozione degli interventi da attuare a livello locale, in cui devono essere rappresentati le competenti amministrazioni locali dello Stato, la Regione, gli Enti locali, gli enti e le associazioni localmente attivi nel soccorso e nell'assistenza agli immigrati, le organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro. Nello stesso articolo si precisa che la loro istituzione è subordinata a un decreto dei Presidente dei Consiglio dei Ministri da adottare di concerto con il Ministro dell'interno. Mentre l'art. 42, c. 7, rinvia la disciplina delle modalità di costituzione e di funzionamento al Regolamento di attuazione del TU. Questo è stato emanato con il DPR 31 agosto 1999, n. 394.

 

 

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