La colpa e la pace

 

La colpa e la pace

Armido Rizzi


Complessità del fenomeno

 

Nella storia della coscienza di colpa - e della concezione della colpa - si possono individuare tre stadi, che, più che come tappe di una successione cronologica, vanno intesi come livelli di approfondimento della realtà della colpa.

La colpa come fatto esterno

Il primo stadio è quello dove la colpa si identifica con i suoi risultati esterni: c'è colpa lì dove l'uomo, volendolo o non volendolo, compie qualcosa che viene considerato lesivo dell'ordine, di un ordine che è insieme ontologico e morale.
Quando nella Bibbia leggiamo dei due che toccano l'arca e cadono fulminati, ci troviamo di fronte a questa concezione esteriorizzata della colpa. Con una coscienza esistenziale molto più acuta e complessa, dove l'esteriorità è maturata in senso della fatalità, troviamo la stessa tipologia della colpa nella tragedia greca. Per sfuggire al destino che gli è stato annunciato, cioè che ucciderà il padre e si unirà alla madre, Edipo si allontana dalla casa e dalla patria; ma proprio il destino lo porta, per vie traverse, a compiere ciò che egli voleva evitare: a diventare parricida e incestuoso. Che egli non l'abbia voluto non è né una scusante né una attenuante: la fatalità non cancella la colpa ma ne dice il carattere di ineluttabilità Parricidio e incesto ledono l'ordine divino; chi li compie è dunque colpevole. E' questa l'ultima parola.

La colpa interiorizzata

Il secondo stadio di concezione della colpa ne pone l'essenza al di dentro dell'uomo: essa è atto soggettivo; e ogni disordine esterno, ogni lesione dell'ordinamento della realtà è colpa soltanto nella misura in cui esprime una soggettività ingiusta. Ciò che conta, in campo etico, è l'intenzione, è la buona o cattiva volontà. Il risultato può esserci o mancare; ma la dimensione costitutiva della colpa è data dal cuore dell'uomo.
Questa scoperta dell'interiorità della colpa è uno dei grandi contributi della tradizione ebraica, e poi soprattutto cristiana, alla storia spirituale dell'umanità. Al punto che, anche quando la visione cristiana viene abbandonata, permane questa convinzione che il bene e il male non consistono propriamente nei risultati positivi o negativi ma nel cuore buono o cattivo. Kant dirà che il bene per essenza è la volontà buona e il male per essenza la volontà cattiva.
Tutto questo è vero; ma non è tutta la verità Questa concezione ignora o rimuove, nei suoi sostenitori meno lucidi, il fatto che tra la coscienza e l'azione dell'uomo, tra l'interno e l'esterno, non c'è soluzione di continuità; che la volontà non è buona o non buona indipendentemente dall'azione. Il risultato può anche mancare, ma dev'essere voluto, seriamente e concretamente; un'intenzione che trascura il risultato non è più pura ma, viceversa, distorce il proprio senso, ripiegandosi su se stessa in una interiorità che non è più etica ma narcisistica. Una morale che venga giocata esclusivamente nel rapporto tra l'individuo e la coscienza (o tra l'individuo e Dio), trascurando il polo-mondo, rischia di cancellare non solo questo polo ma la stessa coscienza nonché il riferimento a Dio, rischia di diventare un monologo che mima il dialogo etico e teologale. Dio non si identifica con la mia interiorità; proprio il sommamente interiore viene raggiunto quando usciamo da noi stessi e ci lasciamo misurare da situazioni esterne, quando siamo alle prese con qualcosa che è diverso da noi. L'« intimior intimo meo» di Agostino è l'«extra me», di Lutero.

La sintesi

Il terzo stadio della concezione della colpa mi pare venga espresso in forma esemplare nella polemica dei profeti biblici contro il culto.
«Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano di sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista» (Is 1,13-16).
Dunque: la polemica contro l'esteriorità del culto. Il lettore frettoloso o prevenuto pensa: polemica contro, l'esteriorità in nome dell'interiorità; ciò che conta non sono le cerimonie ma la purezza del cuore; la vera religione è la religione dell'interiorità, la religione dello spirito, non dell'istituzione. Senonché il testo di Isaia e altri affini (Am 5,21-24; Os 6,6; Mi 6,6-8; Is 58, ecc.) non rifiutano il culto come tale, come espressione esteriore della religiosità; essi denunciano la funzione mistificatoria che il culto svolge in quanto falsa esteriorità, in quanto velo che copre le colpe etiche e sociali, in quanto illusorio sostituto della giustizia e dell'amore verso l'altro. Al culto esteriore non deve perciò subentrare un culto tutto interiore; esso deve lasciar posto, invece, alla pratica della giustizia: il testo appena citato continua: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova» (v. 17).
La vera religione, il rapporto tra Dio e l'uomo stabilito secondo verità, non è sul piano dell'esteriorità del culto ma non si esaurisce neppure in una interiorità senza riferimenti alla realtà circostante; è nell'obbedienza operosa alla volontà di Dio. E la colpa è la negazione di questa obbedienza: negazione della volontà di Dio nei due congiunti e indissolubili significati del termine: in quanto espressione della sua amorosa libertà e in quanto insieme di effetti buoni che egli vuole.
Ritroviamo così nella colpa la stessa struttura di forma e contenuto che abbiamo individuato nell'esperienza etica. Che è infatti la colpa se non il risvolto negativo di quell'esperienza?
E tuttavia riflettere sulla colpa non sarà una semplice ripetizione; vi sono aspetti dell'eticità che risaltano al negativo meglio di quanto si rendano riconoscibili nell'analisi della sua positività.

La forma: «sarete come dèi»

Non c'è, forse, in tutta la letteratura religiosa un testo che fissi l'essenza della colpa con la stessa lucidità spirituale del racconto biblico di Gen 2-3. Più di uno studioso ritiene che l'autore di questa pagina abbia qui ritratto, su scala universale, quella vocazione all'alleanza che era il perno della coscienza e della vita di Israele, e quel tradimento dell'alleanza di cui Israele è stato esecutore e coscienza confessante. Bisogna però precisare che, mentre i testi riguardanti l'alleanza mettono in primo piano l'esigenza e la promessa positiva legate ad essa, e parlano della colpa soltanto in controluce, il racconto della Genesi pone al centro la colpa e parla dell'alleanza di Dio con l'uomo soltanto come sfondo di questa. Perciò questo testo ha un valore inestimabile in ordine alla riflessione che vogliamo ora condurre. Dei due alberi che campeggiano nel giardino di eden, a tenere la posizione centrale è l'albero della «scienza del bene e del male», mentre l'albero della vita rimane come sullo sfondo; non soltanto il primo è la condizione per accedere a questo, ma la narrazione insegna che all'albero della vita l'uomo non ha avuto accesso perché si è abbandonato alla seduzione che emana dal primo.
In che consiste questa seduzione? da che cosa è tentato l'uomo nel giardino? Non dal desiderio di avere di più, perché il mondo è su misura dei suoi desideri: l'eden è la compiuta armonia dell'uomo con se stesso, con gli altri (rappresentati nella sua compagna) e con la natura. Non è che Adamo (cioè l'uomo, figlio della terra) voglia un mondo più perfetto: è che quel mondo egli lo vuole come cosa sua, come cosa su cui imprimere il sigillo del suo dominio. Contro chi? Contro Dio, che ne è l'unico vero signore. «Diventare come dèi» e «conoscere il bene e il male» sono due formule affini, il cui significato è la volontà di disporre del mondo senza altra misura che il proprio arbitrio. L'alternativa dinnanzi alla quale Adamo si trova è la seguente: avere tutto il mondo per fruirlo, ma ricevendolo dalla mano di Dio e riconoscendone questa sostanza di dono; oppure avanzare la propria signoria sul mondo negandone l'appartenenza a Dio. 
Ma si può approfondire ulteriormente quest'alternativa precisando che cosa significa la volontà di signoria dell'uomo. L'atto con cui l'uomo sostituisce l'obbedienza a Dio con la volontà di affermare se stesso può essere inteso come una radicale etica del progetto, che cancella dal mondo il bene e il male nella più propria accezione etica per convertirlo in un paesaggio di beni da gestire, trasformare e fruire a piacimento. Ma il racconto edenico sembra dire qualcosa di diverso: la colpa come autoaffermazione non cancella il bene e il male ma se ne appropria inglobandoli nella volontà umana, così che l'uomo non si trova al di là del bene e del male, in una sfera di libera e innocente progettualità, ma rivendica di esserne signore e giudice: ciò che egli compie è giusto e buono per definizione, egli è sempre nel proprio diritto, essendo ormai il diritto un suo attributo, il qualificatore della sua soggettività. In questo senso egli ha la «scienza» del bene e del male, e li piega per definizione alla propria volontà; in questo senso egli diventa un essere divino: ciò di cui ha espropriato Dio non è l'onnipotenza ma la giustizia; non più Dio ma l'uomo è il giusto per definizione. 
L'essenza della colpa non è lo scontro frontale tra l'uomo-progetto e l'esigenza del giusto, ma la cattura di quest'esigenza entro il progetto. L'uomo diventa signore del mondo non perché riesca a disporne effettivamente, a piegarlo realmente ai propri disegni (questo avverrà soltanto, in misura sempre più ampia, con il sorgere della tecnologia), ma perché si arroga il diritto di farlo: signore di principio, prima e oltre ogni potere di fatto, perché appropriandosi del bene ha confiscato, il principio ordinatore ultimo di tutta la realtà.
Si capisce allora perché la colpa non possa restare un fatto episodico ma diventi come la nuova essenza della soggettività e sia perciò di natura sua irredimibile. La colpa non è deviazione da un bene riconosciuto e cedimento a un male confessato: questa dimensione di debolezza, che pure vi è presente, non ne è che l'increspatura superficiale. Il cuore della colpa è l'irriconoscimento del bene e l'inconfessione del male, il rovesciamento della loro verità, così che l'uomo colpevole è per principio incapace di vedersi tale: la colpa cancella la coscienza di se stessa, è per logica interna oblio di sé. 
E perciò essa è pure insuperabile: partita liberamente, la scelta colpevole inchioda l'uomo nel gesto di compierla, diventa la sua seconda e cattiva natura, il suo destino. Fatalità e colpa si coniugano non, come voleva la tragedia greca, a causa di un destino cinico e baro di cui l'uomo è vittima, ma a causa del gesto letteralmente suicida con cui la libertà si petrifica in necessità. in questo senso Ezechiele parla del «cuore di pietra» del peccatore (Ez 36), e Paolo della impotenza a fare il bene e della necessità di fare il male come disperata situazione della storia umana (Rom 7). Anche le intelligenze etiche più acute arriveranno a percepire questa condition humaine e ne parleranno (è il caso di Kant) in termini di male radicale.

L'anti-creazione

Se il bene è il principio ordinatore del mondo, nella colpa c'è una parvenza di vittoria: appropriatosi del bene, ora l'uomo potrà riorganizzare secondo la propria volontà i rapporti che costituiscono il mondo. Alla fine del racconto sulla colpa Dio dice: «l'uomo è diventato come uno di noi» (3,22), e lo allontana dal giardino di eden. Vittoria apparente e sconfitta reale: la cacciata dall'eden dispiega in termini narrativi la logica della colpa. C'è una potenza, nella colpa umana: essa non lascia le cose come sono, non è uno sterile e ridicolo conato, ma è potenza distruttiva, che sovverte l'ordine del mondo. Perciò quello che il racconto esprime come cacciata è la conseguenza ineludibile e intrinseca della colpa: l'uomo è fuori dell'eden perché l'eden non esiste più; egli l'ha dissolto.
L'appropriarsi del bene come principio ordinatore del mondo contiene un'insanabile contraddizione: nell'istante in cui il mondo diventa dominio dell'uomo, gli si spezza tra le mani. Il mondo edenico è perfetto perché vi si concreta l'amore di Dio,. vi si materializzano la sua grazia che dona e la sua giustizia che appella. Se al mondo si sottrae questo principio, non si ha più la creazione ma l'alienazione. La pagina di Gen 3 è magistrale nel presentare questo «effetto anticreazione» della colpa. Agli occhi che brillano di concupiscenza per il frutto proibito (la «scienza del bene e del male») subentrano gli occhi che scoprono vergognosi la nudità diventata squallida; alla dolcezza del lavoro e della maternità succede la loro fatica di sudore e di doglia; lo stupore dell'uomo di fronte alla sua donna lascia il posto alla denuncia spoglia di solidarietà. E' l'insieme dei rapporti - con se stesso, con il mondo, con l'altro - che si sfascia e precipita nel caos, non per una naturale catastrofe ma per l'irruzione della logica della colpa. Se l'alleanza era il connubio tra la volontà giusta e il mondo riuscito (tra la Legge e la terra promessa), la colpa è il divorzio tra mondo e giustizia e perciò è il fallimento del mondo.
Se l'orizzonte di giustizia conferisce alle realtà create la loro dignità, l'appropriazione di quell'orizzonte da parte del soggetto umano le priva di quella dignità: il loro valore sta tutto nella disponibilità a servire i fini che ognuno assegna loro. La giustizia introiettata e capovolta non si raccoglie nell'intimità del soggetto ma si irradia in progetti di dominio, dove il soggetto cerca di disporre realmente di ciò che ha un rapporto, significativo con la sua vita, intende assegnare scopi e funzioni, distribuire ruoli e compiti. Esso diventa così la fonte di manomissione dell'ordine di creazione, diventa un a priori di violenza. Per questo soggetto, persone e cose sono strumenti di un potere incondizionato; e poiché le persone possono resistere a questa cattura, esse diventano oggetto di un pregiudiziale atteggiamento di sospetto, che basta un nulla a trasformare in ostilità. La storia di Caino e Abele, che segue immediatamente quella della colpa edenica (Gen 4), ne evidenzia questa logica di inimicizia che fa ormai della storia il campo aperto della guerra tra gli uomini.

Cultura della pace e ricostruzione dell'etica

S'è visto come un profeta e un apostolo abbiano disegnato la morte spirituale dell'uomo con l'immagine del cuore di pietra e con il concetto di impotenza a fare il bene. Ma questa denuncia della situazione senza uscita dell'individuo e del genere umano non è che lo sfondo di un messaggio di salvezza: Dio promette e poi dona realmente nel Signore Gesù il suo Spirito, come «cuore nuovo», come principio della nuova soggettività. Se alla base dell'eticità sta originariamente l'alleanza tra Dio e l'uomo, alla base della sua rinascita sta lo Spirito come alleanza rinnovata; e come la prima alleanza è ispirata dall'amore divino nella sua figura di assoluta gratuità, così l'alleanza in Cristo è suggerita dallo stesso amore fattosi volontà di perdono e di riconciliazione nei confronti dell'uomo peccatore.
Questo discorso è teologico, non direttamente etico. Ma esso è il fondamento dell'etica cristiana; non solo: ha, almeno come ipotesi di riflessione, un valore che va al di là del limite confessionale: quello che per il cristiano è l'evento reale avveratosi nella morte e resurrezione di Gesù, per la coscienza etica generale può avere almeno la funzione di un simbolo della rigenerazione del soggetto. Esperienze come quelle del rimorso, del pentimento, della conversione morale testimoniano il significato universale del tema della riconciliazione: come nuova presenza del principio etico (comunque questo principio venga poi inteso) e dell'alterità umana che ne è il contenuto centrale. Se in un profilo ideale dell'etica il primo passo è il dare solidarietà all'altro uomo come essere di bisogno, in una riflessione più consapevole delle dinamiche storiche della relazione il primo passo è sovente (tenderei a pensare: sempre, almeno implicitamente) il fare pace con lui, come presupposto della stessa solidarietà. Questo punto merita considerazione.
Sono certamente rari i casi in cui si è chiamati a perdonare un'offesa precisa e grave, che ha portato un danno irreparabile (come l'uccisione di un familiare) o comunque devastante (come una calunnia ampiamente creduta); più frequenti sono quelli in cui bisogna trovare l'umiltà di fare il primo passo per ristabilire un rapporto compromesso da un malinteso o da un conflitto. Ma qui si vuol richiamare l'attenzione su quel diaframma di inimicizia diffusa che ci avvolge e ci accompagna, e che un nulla basta a trasformare in ostilità attuale, aperta o sorda, che esplode attivamente o implode come risentimento senza sbocco. Se è vero che, nella logica del «diventare come dèi», gli altri ci appaiono soltanto nell'alternativa di strumenti od ostacoli dei nostri progetti, di servi o antagonisti, vuol dire che il nostro atteggiamento nei loro confronti è sempre in bilico tra l'attesa interessata e la diffidenza, tra la compiacenza per il consenso immaginato e il sospetto per il dissenso che può profilarsi. Con, in più, una valutazione morale: se l'altro resiste o dissente, non è soltanto un avversario, un concorrente; è un nemico, che così facendo si comporta ingiustamente, ci fa torto, si mette dalla parte del male. Il sentimento dell'altro come nemico è come un a priori storico, il precipitato di un gesto archetipico: si pensi alla già ricordata storia di Caino, dove l'innocente riuscita del fratello scatena la gelosia omicida (Gen 4); si pensi alla sedimentazione linguistica di formule come « fare giustizia» o «giustiziare», dove la giustizia come necessità etica di amare l'altro nel suo bisogno di vita si è pervertita nella necessità di vendicarsi di lui.
Ecco perché riconciliarsi con l'altro è il primo atto della ricostruzione etica: è l'atto che ribalta quella che, dentro una storia di colpa e di violenza, è diventata la condizione di partenza dell'agire umano, il presupposto tacito che l'avvelena in radice. Non è necessario che tale riconciliazione avvenga nella forma dichiarata della mano tesa; anzi, essa si compie normalmente nel segreto della coscienza, perché il rapporto con l'altro, prima di raggiungerlo nella sua realtà, si gioca attraverso la mediazione della sua immagine dentro di noi. Riconciliarsi è dunque abbattere l'immagine di inimicizia, è superare la diffidenza e la paura pregiudiziali, è guardare non al nemico che egli appare (e che forse effettivamente è) ma all'essere di bisogno che vive in lui e all'amico che vi potrebbe vivere. 
E' questa, nel senso radicale, una cultura di pace.
Nell'accezione più ristretta questa formula indica un nuovo modo di considerare la guerra, mettendone in luce l'intima contraddizione rispetto agli scopi che essa vuole raggiungere, ed elaborando una metodologia non violenta di composizione dei conflitti. Ma la pace è, più in generale, l'atto inaugurale del mondo nuovo in una storia che è bellum omnium contra omnes, dove l'inimicizia è la figura determinata del «peccato originale», e l'intossicazione sul nascere di ogni relazione interumana.
Lo è sempre stata; ma noi siamo oggi più sensibili a questa dimensione del coesistere, perché la possibilità di un'apocalisse atomica ci ha indotti a dubitare della razionalità della violenza come via di soluzione delle ingiustizie. Perciò anche il carattere ri-fondativo della pace, che è stato sempre operante nei confronti dell'etica come vissuto, emerge oggi anche come la nuova parola dell'etica come discorso.

Desacralizzazione della violenza e pace come ricostruzione dell'etica

La razionalità parziale della violenza è stata il suo essere motivata dalla condizione generale di penuria del genere umano nella sua storia millenaria. Lì dove i beni scarseggiano, dove la loro acquisizione da parte di alcuni significa l'inevitabile sottrazione ad altri, si impone come principio di sopravvivenza il mors tua vita mea.
Ma a questo aspetto funzionale della violenza se ne è sempre accompagnato un altro: la sua dura necessità è stata considerata un momento intrinseco dell'ordine cosmico, del sacro; questo si reintegra nella sua pienezza soltanto attraverso il sacrificio di vite, anche umane: immolare vittime sacrificali diventa un atto rituale, non meno che passare a fil di spada i nemici della collettività. Neppure il Dio d'amore della tradizione ebraica si salva da questa logica: perché l''amore che egli manifesta. viene interpretato in chiave di scelta esclusiva, diventando così principio di separazione e, se è il caso, di aggressione verso l'esterno; principio che l'islamismo adotta, dilatandone anzi i termini esecutivi.
Malgrado la parola evangelica che annuncia il Dio di pace, anche la tradizione cristiana cede alla tentazione di incorporare la violenza al sacro, di praticarla in nome di Dio: le crociate e, più tardi, le guerre di religione nonché l'ambiguo connubio di croce e spada in più di una pagina del Nuovo Mondo sono testimonianza di questo tradimento. 
Forse la religione è destinata a generare fanatismo e, di conseguenza, violenza? Per garantire la pace non si dovrà allora dare al convivere una base laica? E' quanto pensa la coscienza moderna; che di fatto relega la religione nello spazio del privato, riservando alla «ragione» il diritto e il compito di ordinare la coesistenza tra gli abitanti della specie umana. Ma la ragione fallisce nelle due principali figure di cui essa si riveste. Nella figura liberale, dove la maggiorazione dell'idea di diritto scatena un seguito di guerre che devastano l'Europa più di quanto avessero fatto le lotte religiose; e nella figura comunista, dove la violenza rivoluzionaria viene esaltata e praticata come principio maieutico della nuova e definitiva umanità. In ambedue i casi la violenza torna a rivestire una legittimazione che va oltre la sua eventuale funzionalità, e che pretende di renderne le ragioni e le forme esecutive superiori a ogni giudizio etico, indiscutibili perché ancora reticentemente improntate al sacro.
L'ultima figura della sacralizzazione della violenza è la sua privatizzazione, che la mette al servizio degli interessi individuali o di gruppo, non confessati come tali ma avvolti nella veste nobile del diritto, anzi dei «miei sacrosanti diritti».
In realtà, tutte queste figure non sono che la legittimazione e la nobilitazione posticcia di quella violenza radicale che è il «diventare come dèi», il confiscare alla propria volontà la «conoscenza del bene e del male», l'ergersi a soggetti e criteri del giusto. Questa. consapevolezza dà, per contrasto, alla logica della pace quella posizione di nuovo principio che, smascherato e sradicato l'antico, può servire con più intelligenza e forza il bene. Essere «pacifici», nel senso vero di «costruttori di pace» (Mt 5) significa anche essere ricostruttori dell'etica.
 

 

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