Don Sandro Spriano

 

Oggi sarai con me in paradiso

 

Roma Caritas, 2001

 

Caro Gianfranco,

quando mi hai chiesto di accompagnarti come un padre nei lunghi e pesanti anni della tua detenzione ho provato una profonda gioia. Ho avvertito però anche il timore di non essere all’altezza di un compito così importante: conosco la debolezza dei miei limiti e il condizionamento di un ambiente che omologa e segna indelebilmente tutto, soprattutto le persone!

Poi il volto di Gesù sulla croce mi ha rincuorato. Ho riascoltato il suo scarno dialogo con un altro condannato.

Quando si è sulla croce si può bestemmiare e maledire il nome di Dio o, come uno dei due crocifissi, dire: “Ricordati di me, Signore, in Paradiso”.

Non chiede la salvezza, gli basta un ricordo, troppo sangue e troppe menzogne nel suo passato per osare tanto. Eppure il Signore accetta quella sfacciataggine e, garbatamente, lo salva. Il primo santo ufficialmente canonizzato da Dio è un ladro! Di lui non abbiamo conservato il nome, solo un aggettivo: “buono”. Buono di cuore certo, ma soprattutto buono in quanto abile. Gli è riuscito il colpo più spettacolare della sua vita: ha rubato il Paradiso.

Anche tu, come molti altri amici che ho incontrato in questi dieci anni abbondanti di servizio in carcere, chiedendo a un prete di accompagnarti nel nome del Signore, hai già rubato il Paradiso!

Io voglio solo aiutarti a visitarlo, scoprirne tutti gli angoli, goderne le bellezze, correre ogni giorno alla fonte della vita e dissetarci insieme.

Il gravissimo reato che hai commesso a soli diciotto anni, e che stai pagando in maniera pesantissima, ha procurato sofferenza e morte ad altri e ha indebolito e deturpato la tua personalità, fatta a immagine e somiglianza di Dio con uno spirito immortale che la anima, ma non l’ha distrutta, non l’ha declassata al regno animale, inferiore all’umano.

Devi tenere a mente e noi tutti non possiamo dimenticarci che sei tuttora parte vitale e solidale della nostra comunità civile. I nostri tribunali e noi tutti non possiamo distaccare chi compie un reato dal corpo sociale, disconoscerlo, emarginarlo, fino addirittura alla pena di morte: sono azioni che non favoriscono il bene comune, ma lo feriscono.

Spesso mi domando: le leggi, le istituzioni, i cittadini, i cristiani credono davvero che nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere, educare?

Ci vogliono certamente leggi e ordinamenti che difendono e assicurano il rispetto della vita e dell’incolumità di tutti i cittadini. La sicurezza va garantita. Le vittime vanno aiutate a sanare le ferite e le lacerazioni.

Ma io scopro con amarezza e delusione che i carceri in Italia (e anche altrove!) spesso non contribuiscono al recupero della persona, e se questo non succede non abbiamo fatto e avuto giustizia: ci siamo accontentati di una punizione esemplarmente sterile. La sicurezza è meno garantita di prima, le vittime ancora più abbandonate.

Ti accorgi anche tu Gianfranco (che sei tra i più fortunati…) che c’è una folla di detenuti (55.000) che non hanno nemmeno un letto a testa? Lo spazio vitale nelle celle, dove si vive per venti ore al giorno, spesso costringe a stare sdraiati a letto o in piedi senza muoversi.

Fra tossicodipendenti (quasi il 40% dei detenuti) si parla solo di droga e si studiano tutti i modi per poterla recuperare.

I malati di mente si muovono come fantasmi ripieni di sedativi.

I poveri – e sono la gran parte – elemosinano giorno dopo giorno una sigaretta, una caramella, un vestito, un paio di scarpe, il dentifricio, qualche soldo per una telefonata alla famiglia.

Gli stranieri extracomunitari, poveri tra i più poveri, sopravvivono da rassegnati senza speranza. E quanti ammalati aspettano per mesi la cura ospedaliera che arriva sempre troppo tardi.

Ho fatto incontri drammatici: detenuti con le labbra cucite dal fil di ferro, altri con la lametta in bocca, urlanti a squarciagola nei corridoi delle sezioni, le braccia il petto le gambe tagliuzzate e sanguinanti… perché non trovano altro modo per attirare l’attenzione di qualche operatore, fino al punto di tentare il gesto estremo del suicidio, e molti ci riescono! E’ ormai impresso nelle mie orecchie il rumore della barella che quasi quotidianamente corre verso l’infermeria…

Tu e anch’io ci stiamo troppo abituando a vedere questi orrori che degradano la dignità di chi compie simili gesti disperati, ma offendono anche la nostra dignità; di noi che fuori ci accontentiamo di statistiche che elaborano le percentuali dell’autolesionismo (scic!).

Molti operatori agenti, educatori, direttori, volontari si impegnano con buona volontà, ma con pochissimi mezzi e strumenti; diventano di volta in volta samaritani, familiari, amici e a volte anche nemici.

Ce la caviamo con le solite frasi: se la sono cercata, cosa vogliono adesso, hanno pure la televisione, ci costano un sacco di soldi!

“Ero in carcere e mi avete visitato”.

Nessuno di noi, compreso te e tutti gli amici in carcere, non possiamo e non dobbiamo lasciare cadere nel vuoto l’appello di Gesù.

Per noi cristiani non ci sono scuse plausibili e nemmeno tante risposte, ce n’è una soltanto: la misericordia e il perdono.

Il buon samaritano, il padre misericordioso, la donna adultera, il servo crudele, il buon ladrone… non ci lasciano scampo, è inutile fuggire. Le sorelle e i fratelli in carcere aspettano che condividiamo con loro gratuitamente il nostro amore e l’Amore del Padre.

Il Papa è rimasto un po’ solo a gridare senza stancarsi che il perdono è l’unica via alla riconciliazione e alla pace autentica, sia per i cristiani che per i non credenti. Le comunità cristiane, e non solo pochi Volontari, devono entrare in carcere a pregare, a consolare, ad annunciare, ma ancora di più sono chiamate a fare giustizia fuori, nelle famiglie e nella società, con il metro del Vangelo e non solo quello dei tribunali.

Tocca a noi cristiani proclamare l’Amore come unica fonte di vita, tocca a noi lottare per prevenire l’emarginazione e ridare dignità a chi ha sbagliato e vuole riconciliarsi.

Forse ricordi che qualche anno fa un uomo malato terminale di AIDS è stato prelevato dal letto di una Casa Famiglia della Caritas di Roma, e portato in carcere a scontare un residuo pena per un reato commesso molti anni prima. E’ morto dopo tre giorni. Mi disse: “Ho imparato a fare a meno di tutto, ma non dell’amore”!

La cultura forcaiola non è cultura, è menefreghismo, violenza, disprezzo, è attaccamento esasperato ai propri beni diventati ormai la ragione e il Dio della nostra esistenza: chi ce li tocca si merita il carcere, o magari anche la pena di morte.

Voglio darti una prima buona notizia Gianfranco: noi siamo figli del Dio della Vita, della Risurrezione e della S… peranza.

Ti ricordi le parole del Papa nel giorno del nostro Giubileo, il 9 luglio 2000: “I pubblici poteri… devono sapere di non essere signori del tempo dei detenuti”. Il tempo deve essere pieno di speranza, nel cogliere i segni che dicono della possibilità di riparare il male fatto ricondividendo la vita. E la speranza ha bisogno di volti che si rincontrano, che si ripromettono fedeltà, che si donano perdono.

La speranza passa soltanto attraverso le mani che si stringono, i sorrisi che si donano, gli occhi che si guardano.

Il carcere, diceva la voce di un detenuto nel film “Piccoli Ergastoli”, è ormai un po’ asilo infantile e un po’ manicomio, un po’ ospedale e un po’ casa per molti che sono senza, un po’ sepolcro e un po’ scuola… anche di delinquenza, … e tanti ci passano tutta l’esistenza, rinunciando a credere nella vita!

Dobbiamo educarci a fare a meno del carcere. Sembra un’utopia, ma non per noi cristiani.

Il Vescovo di Milano card. Martini ci esorta ad “abbandonare i falsi valori, assumerci le nostre responsabilità di fronte al male, condividendo la colpa e l’espiazione, impegnarci ad estirpare quelle radici di risentimento, di superiorità e di rivalsa che avvelenano i rapporti sociali e sono alla base di atteggiamenti di rifiuto e di vendetta, per promuovere iniziative di riconciliazione a livello familiare, ecclesiale e di solidarietà che immettono il lievito evangelico in una società sempre più segnata dalla competizione e dal conflitto”.

Senza dimenticarci che la preoccupazione per la tutela della società non è per nulla in contrasto con il rispetto e la promozione della dignità del condannato.

“Prevalere con la forza, Signore, a te è sempre possibile: chi potrebbe opporsi al potere del tuo braccio? E invece tu hai compassione di tutti. Tu non guardi ai peccati dell’uomo, se non in

vista del pentimento… Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza e con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini” (Libro della Sapienza, cc. 11,12).

Permettimi, Gianfranco di usare la Parola di Dio (Lettera agli Ebrei) senza virgolette: continuiamo a volerci bene, come fratelli. E tutti noi ricordiamoci di quelli che sono in prigione, come se fossimo anche noi prigionieri con loro!

Ciao.

don Sandro (Spriano).

Caritas Roma

 

"Liberarsi dalla necessità di questo carcere"

Di Alessandro Margara

Ritorna un tema, nel pezzo di Don Sandro Spriano, che è stato quello di un movimento degli anni 80: liberarsi dalla necessità del carcere. Era una delle proposte di un momento di crescita civile e sociale, un momento di progetti, che orientavano la volontà di cambiamento.

Oggi quel tema è inattuale. Ma, se è possibile esprimere un impegno, questo può essere formulato in altri termini: liberarsi dalla necessità di questo carcere. Il che coglie due punti: abbiamo un carcere per tanti aspetti inaccettabile, ma questo carcere è considerato necessario, quello che deve essere, anche se la legge lo descrive in modo opposto.

La realtà di oggi è quella di un carcere da riempire e da blindare, di un carcere come fine delle risposte, come solo contenitore di custodia, dove non devono crescere le attività interne dei detenuti perché la loro inerzia è utile a semplificare il funzionamento generale, dove i detenuti non sono persone con le quali costruire una relazione, ma solo individui da tenere dentro regole strette, nonostante la assoluta inutilità della vita che gli si fa condurre, del tempo che gli si fa trascorrere, ma soprattutto perdere.

Per questo carcere serve più spazio, servono più carceri, cioè. Serve, già per questi carceri, più personale che assicuri la custodia e l’ordine. Ancora una volta, il solo reclutamento immediato, nell’anno trascorso, è stato quello del personale di polizia penitenziaria (da tempo largamente il più numeroso in Europa, anche in confronto a paesi che hanno più detenuti di noi), rimandando a tempi migliori quello del personale educativo e riabilitativo (che è, ovviamente, il meno numeroso d’Europa). E il piano del Ministro Fassino prevedeva risorse economiche per nuove costruzioni (anche se poi, nel concreto, si parlava di progetti da tempo maturi) e sembra questa una delle poche certezze del nuovo direttore generale delle carceri, in una intervista, comprensibilmente generica, di questi giorni ad un settimanale.

Se è vero che siamo arrivati a 57.000 detenuti, in due anni si è avuto un aumento di almeno 8.000-9.000 unità, dopo un periodo di alcuni anni in cui si era rimasti a quota 48-49.000.

 Questo carcere è necessario e sono chiari i perché di questa necessità.

Sono racchiusi nella parola: sicurezza. Il diritto alla sicurezza è l’unica indicazione evidente nelle bandiere delle forze politiche che non hanno più o non hanno mai avuto bandiere (ora ci sono manifesti e spot). Se la bandiera è stato un segno di identità, di volontà di cambiare e, in qualche modo, di speranza, l’invocazione del diritto alla sicurezza è solo un segno di ripiegamento e di difesa, difesa e chiusura nel proprio confine, fine della partecipazione sociale, fine della volontà di progettare la riduzione dei rischi sociali per tutti. C’è solo una idea di sicurezza negativa, perché si è abbandonata quella positiva dei progetti sociali per rendere vivibili i quartieri e le città, intervenendo a favore delle aree e delle persone a rischio. Oggi ci si arrende a quella invivibilità e l’unico intervento possibile è quello di cacciare via le persone a rischio: l’area della emarginazione, una buona parte della quale riempirà la galera.

E qui, la consegna della sicurezza è pronta, con la legittimazione che è data dalla invocazione della sicurezza all’esterno. Tenerli chiusi, i detenuti; nessuna relazione e tantomeno confidenza. Voglia di inasprimenti, la tentazione della intimidazione e della violenza. Il consolidarsi di una ideologia secondo la quale solo questo paga e che non c’è, non ci deve essere spazio per altro.

Ecco dunque, la necessità di questo carcere: questo carcere fatto sopratutto per l’area della emarginazione, mentre, in questi giorni, i nuovi padroni del vapore costruiscono il sistema della loro impunità per i reati commessi: con precisione e senza vergogna.

La necessità di questo carcere ignora ed è da molto tempo indifferente alla legge, che vuole, invece, un carcere tutto diverso, scritto prima nella Costituzione e poi in quell’Ordinamento penitenziario, approvato 26 anni fa e lasciato sempre come progetto per tempi migliori. Badate bene: so che ci sono molte realtà penitenziarie che lottano per difendere ed attuare quel progetto, ma lo fanno con fatica, con una sorta di benevola tolleranza: purchè non si verifichino inconvenienti. Ma la regola è un’altra: quella del carcere "necessario" che ho descritto. E’ possibile, invece, che la regola sia quella che stabilisce la legge? O meglio: non è doveroso che la regola sia quella della legge?

Non è possibile e doveroso dare più spazio alle misure alternative al carcere e quindi contenere la crescita del numero dei detenuti o determinarne la riduzione? Sono in questo senso, d’altronde, tutti i documenti approvati in sede internazionale, che non ratificano affatto la crescita del carcere, determinata dalla ossessione della sicurezza in molti paesi d’Europa (ad imitazione degli Stati Uniti, comunque imbattibili). Certo, molto è necessario perché questo effetto, dell’ampliamento delle misure alternative, si produca: che il sistema organizzativo penitenziario prepari e segua la esecuzione penale esterna, che le strutture della solidarietà sociale allarghino e consolidino le loro risorse di inserimento per coloro che ne sono privi, che i magistrati di sorveglianza avvertano come loro funzione, non quella della difesa sociale, ma quella della promozione e della gestione della alternativa al carcere, come strumento che produce anche difesa sociale.

 E, dentro il carcere, si devono volere e favorire in ogni modo gli effetti della nuova normativa sul lavoro e sulle altre attività trattamentali. Nuova normativa rappresentata dalla legge Smuraglia e dal nuovo regolamento di esecuzione all’Ordinamento penitenziario, che vogliono cancellare, per i detenuti, l’inerzia e il tempo perduto. Molto è pure necessario per muoversi in questa direzione. Anche qui, sul piano organizzativo, della acquisizione del personale rieducativo e riabilitativo, nonchè della partecipazione del mondo esterno (e, in particolare, ancora, dell’area della cooperazione sociale, evocata più volte nel nuovo regolamento di esecuzione) a utilizzare i possibili spazi di lavoro all’interno, per la cui gestione sono date notevoli agevolazioni sul piano economico. Ma anche per questo, occorre non farsi condizionare dalla ossessione della sicurezza, che fa rischiare il congelamento di ogni iniziativa.

Il carcere e, più ampiamente, la esecuzione penale sono un terreno di scontro duro, sul quale si riapre uno spazio per la politica nel suo senso migliore. La strada da percorrere è chiara, anche se difficile ed è quella che sia in grado, lo si ripete, di liberarci dalla necessità di questo carcere, reale e non conforme alla legge.

 

 

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