Newsletter n° 28 di Antigone

 

Newsletter numero 28 dell'Associazione "Antigone"

a cura di Nunzia Bossa e Patrizio Gonnella

 

L’editoriale di Patrizio Gonnella: emergenze e libertà

L’Osservatorio regionale di Abruzzo e Molise

In carcere ci sono molte donne incinte, di Laura Astarita

Chiusa la quarta tornata dei lavori dell’Osservatorio

Le iniziative di Antigone a cura della Redazione

L’editoriale: emergenze e libertà, di Patrizio Gonnella

 

Questi ultimi mesi di legislatura si abbattono come una mannaia sullo stato di diritto e sullo stato dei diritti. Le norme sulla recidiva, quelle sulla legittima difesa, quelle sulla droga producono un vulnus irreparabile alla giustizia del nostro paese.

Il governo Berlusconi non si è limitato a confezionare leggi e leggine per tutelare i propri interessi. Purtroppo è andato oltre la tutela di Cesare Previti. Mentre Forza Italia si appassionava a rogatorie, legittimo sospetto, falso in bilancio, prescrizione e inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, Lega Nord e Alleanza Nazionale hanno sfoderato tutto il loro bagaglio culturale illiberale, violento, praticamente fascista. Hanno intaccato in peius il codice Rocco del 1930 e nel 1930 chi comandava era Mussolini. Se questo è il momento politico in cui ci troviamo, ripubblicare la rivista Antigone e dedicare il primo numero alle libertà costituisce il tentativo di porre un argine culturale alla tragica deriva italiana. La parola libertà è stata infangata dalla destra che l’ha sepolta dietro le macerie del suo governo. Si inventano le emergenze e si massacrano le libertà. La sinistra deve riappropriarsi dell’orgoglio di definirsi garantista. Il garantismo è stato spogliato della sua nobile storia. Noi con la rivista Antigone vogliamo contribuire a ricucire un rapporto tra sinistra, garantismo e libertà.

 

L’Osservatorio Regionale di Abruzzo e Molise

 

Osservando dentro le mura di cinta, di Paola Brasile. Calata in un nuovo ruolo, quello dell’osservatrice, apro gli occhi, tengo le orecchie tese e inspiro forte. Inizio il mio primo breve giro fra alcune carceri abruzzesi: Vasto (26 sett. ‘05), Chieti (7 dic. ‘05) e Avezzano (16 dic. ‘05).

L’impatto iniziale non è traumatico come pensavo, piuttosto mi rendo conto di un mondo al di là delle sbarre che è tutt’altro che statico e drammatico. Piuttosto scopro una vita scandita da regole e da impegni, ma anche da ottimismo e dedizione di tutti: della popolazione detenuta e del personale dell’Amministrazione che si è mostrato, in tutte e tre le visite, molto disponibile e accurato nel mostrarci le strutture. Le tre Case Circondariali visitate presentano diversi elementi di continuità ma anche molte differenze che rendono un carcere, piuttosto che un altro, più vivibile per certi aspetti, ma meno per altri.

La mia osservazione viene senz’altro colpita dall’inadeguatezza e la fatiscenza delle strutture. Il sovraffollamento non è una caratteristica comune a tutte le strutture, Chieti ed Avezzano infatti attualmente ospitano un numero inferiore di detenuti rispetto alle proprie potenzialità, ma Vasto è un caso a parte. Costruito inizialmente per ospitare 75 detenuti, potrebbe ospitarne fino a 150, mentre oggi arriva anche 220. Questo accade anche perché viene utilizzato come "svuotatoio" dell’area lombarda (in particolare di San Vittore, ma anche di Busto Arsizio – cui fa riferimento l’aeroporto di Malpensa) e anche di Poggioreale (fatto che per altro avviene anche nel carcere di Larino, in Molise).

I detenuti dei tre istituti sono di media sicurezza (anche se Vasto potrebbe ospitare anche la massima sicurezza), per la maggior parte hanno già avuto la pena definitiva che non supera 5 anni di detenzione e sono a fine pena. Gli stranieri solitamente sono circa il 50% della popolazione detenuta. Ad Avezzano merita di essere segnalato che fra gli stranieri presenti ve ne sarebbe un certo numero che, in attuazione della legge Bossi-Fini, vi farebbe ingresso più o meno quotidianamente e vi alloggerebbe per uno o due giorni, o comunque per il tempo strettamente necessario per l’udienza. Ma questa è un’informazione che stiamo ancora cercando di verificare e di approfondire.

Nessuno di questi istituti si è ancora adeguato totalmente al nuovo Regolamento entrato in vigore nel settembre 2000. Per esempio, le docce non sono collocate nelle celle ma sono comuni a tutta la sezione, con l’eccezione del carcere di Chieti che le prevedeva all’interno già nel progetto architettonico iniziale. Le sale colloqui ancora non sono state modificate a norma, se non nell’istituto di Vasto.

In tutte le strutture visitate, le celle, seppur piuttosto piccole, sembrano ambienti salubri, nonostante in quasi tutti i casi il cucinino sia posto nei bagni. La luminosità in generale è buona, ad eccezione del caso di una sezione di Chieti in cui (in una precedente gestione) alle finestre sono state aggiunte le "gelosie" che offuscano la luce e non permettono un sufficiente cambiamento di aria all’interno.

La zona trattamentale non è mai realmente accogliente e nel caso di Avezzano è in un seminterrato privo di finestre, ancora più desolante (ma questo istituto si riscatta mostrando un coloratissimo murale nel passeggio esterno, realizzato dai detenuti stessi).

Una forte carenza sta nel personale. Se a Chieti non si lamentano, ma affermano che, se il personale fosse maggiore di numero, sicuramente riuscirebbero a fare molte più cose, a Vasto e ad Avezzano il numero del personale dell’amministrazione è al di sotto della sufficienza. Inoltre, nel caso di Chieti ed Avezzano, in istituto lavora un solo educatore, mentre a Vasto ce ne sono 3 (su 4 che prevedrebbe l’organico!).

Il Magistrato di Sorveglianza è generalmente poco presente: nel caso di Chieti fa capo a Pescara, in quello di Avezzano a L’Aquila, anche se sembra che sia spesso in contatto telefonico con il carcere, mentre in quello di Vasto è presente con costanza.

I volontari entrano in questi istituti dando un forte sostegno alle attività dell’area ricreativa: dal corso di teatro (sia a Chieti che a Vasto), a quello di restauro, al laboratorio di scultura, a quello di pittura, di ceramica, alla pulizia delle spiagge (a Vasto), al laboratorio di ceramica, dell’argilla, del legno (ad Avezzano).

Il clima sembra ovunque piuttosto disteso ed è favorito dal fatto che già all’entrata in carcere (o nei giorni subito successivi) il detenuto ha la possibilità di scegliere i compagni di stanza.

Le celle rimangono aperte gran parte della giornata per permettere la socialità anche nei corridoi quando le condizioni meteorologiche non permettono di uscire nei passeggi. Ci sono le palestre, il ping pong e un campo di calcetto in ogni istituto.

È rispettata la professione di qualunque religione, sebbene gli spazi dedicati al raccoglimento siano più favorevoli ai Cattolici (in ogni istituto c’è una Cappella) e meno ad altre religioni alle quali è dedicata per lo più una stanza dell’area trattamentale, un giorno a settimana.

Le diete sono adeguate alle diverse culture e per richieste particolari, come per il sopravvitto, si ricorre alla domandina. Questa invece è poco utilizzata per le varie richieste dei detenuti perché in tutti e tre i casi si cerca di favorire la richiesta informale.

I colloqui con i familiari generalmente avvengono come da regolamento e le telefonate extra difficilmente vengono negate.

Un buon punto di forza di tutti e tre gli istituti è la fornitura di farmaci. Infatti ognuno ha stipulato una convenzione con l’ospedale della città che gli garantisce la copertura di tutti i farmaci più utilizzati. Una nota negativa, non legata direttamente al carcere, invece è il fatto che questi stessi ospedali non sono attrezzati per ricoverare i detenuti e questo comporta un dispendio di forze del personale che, nei (pochi) casi in cui ci sia bisogno di ricovero, deve rimanere a sorvegliare il detenuto.

Infine il lavoro: in tutti i casi segue il programma ministeriale (cucina, lavanderia, pulizia…), ma ogni istituto poi si ingegna per cercare di far lavorare tutti i detenuti, e così in effetti è, inventando anche lavori extra. Per esempio a Vasto, fra le attività che vengono svolte, ci sono i lavori agricoli. Difatti c’è un ettaro e mezzo di terra con 400 piante di ulivo e poi ci sono, all’interno del muro di cinta, tre nuove serre, di cui due per l’orticoltura (insalata, pomodori ecc.) e una utilizzata come fungaia. Il problema sta nella vendita di questi prodotti. Ad oggi, una volta avviato il lavoro agricolo, è previsto che inizialmente i prodotti vengano commerciati fra il personale del carcere e fra i detenuti stessi. Di fatto si stanno riscontrando alcuni problemi nella collocazione di questi sul mercato, ma l’Amministrazione è in contatto con alcune imprese per stipulare un contratto in comodato d’uso con la clausola di assunzione di almeno 15 detenuti.

A Chieti invece l’istituto ha presentato un progetto, che è in attesa di approvazione, che prevedrebbe un cantiere edile all’interno dell’edificio. Questo permetterebbe di migliorare la struttura e contemporaneamente di dare lavoro ai detenuti. Il progetto va da opere più sostanziali di restauro, ad altre come la tinteggiatura delle celle (e la decorazione "artistica" di alcuni spazi). Questo progetto sarebbe finanziato dal Fondo Sociale Europeo.

Uscire dal carcere, riprendere il documento e respirare l’aria dietro le mura di cinta mi dà sempre sollievo, ma ripensare all’impegno sincero che mostrano i Direttori, i Comandanti e gli educatori che ho incrociato (nonostante le palesi carenze strutturali ed economiche con le quali devono misurarsi) mi fa credere che la vita all’interno sia autentica e stimolante e non una performance angosciosa, come immaginavo prima di mettere piede per la prima volta in un carcere. È indubbio che il contesto territoriale circostante (in questi tre casi specifici a misura d’uomo) ha un’incidenza assolutamente forte e direi positiva sulla vita di un istituto penitenziario. Per contattare l’Osservatorio Regionale di Abruzzo e Molise: osservatorioabruzzo@associazioneantigone.it; osservatoriomolise@associazioneantigone.it.

 

In carcere ci sono molte donne incinte, di Laura Astarita

 

Ci si può ancora stupire di qualcosa ogni tanto di ciò che accade in un carcere. Così succede se ti trovi davanti 5 ragazze incinte, molto incinte, 2 di loro oltre l’ottavo mese, una dopo il settimo. Raccontano di essere sistemate tutte in infermeria, insieme ad altre persone malate e sofferenti; raccontano che un’altra ragazza la sera prima si è sentita male ed è stata portata all’ospedale per emorragia. Le condizioni igieniche e logistiche dell’infermeria sono quelle di un carcere che dovrebbe ospitare 280 detenute e che invece ne ha circa 400, ma si fa quel che si può: sono seguite abbastanza costantemente dal medico e quando si sentono male vengono prontamente portate in ospedale.

Ma sono incinte e colpisce, oltre al loro stato evidente, la loro forte agitazione, la sensazione di pericolo che ti trasmettono: non sono libere di chiamare il ginecologo per ogni dubbio o meglio di chiedere alle loro parenti più anziane del campo consigli e istruzioni varie; sono lontane dai propri affetti e da qualunque fonte di rassicurazione; tutto costituisce per loro motivo di preoccupazione per la propria salute e quella del bambino; le altre donne fanno da specchio e quando una sta male, le altre entrano in crisi; l’ansia della carcerazione in loro è moltiplicata in maniera tangibile.

Viene istintivo chiedersi il perché siano dentro e non fuori, agli arresti domiciliari. La risposta è che non è prevista la possibilità, per le donne non definitive, di accedere a misura alternativa alla detenzione, se non a discrezione del giudice. E poiché la nostra legislazione ha un’impronta che esclude dai benefici alcune categorie di persone, prassi vuole che regolarmente le donne nomadi e quelle con recidiva, seppur incinte, restino in carcere.

Scendiamo, almeno un po’ nel dettaglio della normativa, per capire meglio: l’art. 146 del codice penale - così come modificato dalla legge Finocchiaro del 2001 - prevede il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena per donna incinta e per donna che abbia partorito da meno di 12 mesi; l’art. 147 c.p. - così come modificato, anche questo, dalla "Finocchiaro" – prevede il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena per madri con prole inferiore ai 3 anni.

Il risultato è che è raro trovare condannate incinte in carcere. Ma non lo è trovarvi donne incinte in attesa di giudizio. Il problema è che, come accade spesso, la realtà è diversa da quella presa in considerazione dal legislatore: le donne non definitive in carcere in Italia sono oltre il 40% e per quelle, tra queste, che siano incinte, il legislatore non prevede niente, se non la possibilità per il giudice di decidere, con discrezionalità, se concedere o meno la misura alternativa. Ma, poiché, per esempio, la percentuale di donne rom in carcere è altissima, capita molto spesso di trovarne diverse, incinte, lasciate in carcere dal giudice, perché recidive.

Si sente dire, molto spesso, dagli operatori: "Qui sono curate meglio rispetto a fuori". Questa frase lascia sempre un po’ di amara perplessità rispetto alle possibilità che lo Stato offre, fuori, a queste donne. Se davvero non hanno adeguati livelli di cura, non è questo un grave problema di cui discutere?

Certamente non è il carcere che può sopperire a ciò, né il fatto di trovarsi in carcere fa sentire le donne più protette rispetto alla propria gravidanza.

E inoltre, quando ci si sente dire che molte donne restano incinte proprio per evitare il carcere, siamo sicuri di trovarci davanti a una persona socialmente pericolosa che è molto meglio resti in carcere?

L’interpretazione delle leggi da diversi anni sta prendendo una piega molto restrittiva e le prassi dei Tribunali di Sorveglianza si consolidano in atteggiamenti volti a creare il minor numero di rischi possibile.

Certo è che i Magistrati non sono affiancati, nel loro lavoro, da adeguate politiche di presa in carico dei problemi sociali da parte dello Stato e dei governi locali. Questi problemi diventano visibili solo al momento della commissione del reato e, come avviene sempre più spesso, da sociali diventano problemi penali.

Tutto ciò che attiene alla persona viene assolutamente ignorato: eppure sappiamo benissimo che il periodo pre e post-parto è caratterizzato da momenti di grande ansia per la maggior parte delle donne, dovremmo sapere che per quelle che vivono in carcere i normali stress vengono ad essere moltiplicati, amplificando il vissuto di inadeguatezza e impotenza. Il retroterra sociale di deprivazione, i contatti familiari inconsistenti, l’isolamento, una instabile salute fisica e/o mentale e la coscienza che il bambino potrà essere affidato a un ente assistenziale, sono soltanto alcuni dei problemi che vivono queste donne, testimoniando un bisogno di tutela maggiore rispetto alle persone libere.

 

Chiusa la quarta tornata dei lavori dell’Osservatorio

 

Il 31 dicembre 2005 il nostro Osservatorio sulle condizioni di detenzione ha chiuso la quarta tornata dei propri lavori. Si è concluso l’anno solare, sono scadute le autorizzazioni che il Ministero della Giustizia ci rilascia periodicamente per permetterci di entrare negli istituti penitenziari, le circa quaranta persone che lavorano con noi nelle varie regioni d’Italia hanno scritto le loro relazioni sulle carceri visitate durante l’anno. Da maggio a dicembre, siamo entrati in 139 galere italiane, abbiamo osservato le strutture edilizie, la vita che vi scorre dentro, lo scollamento della prassi carceraria da quella legalità che in altri contesti viene a gran voce invocata. Per la quarta volta abbiamo monitorato il sistema penitenziario italiano nei suoi principi teorici e nelle sue pratiche applicative, costruendo una banca dati non istituzionale che rappresenta una delle prime esperienze europee in questa direzione e sicuramente la sola del nostro paese.

Dopo la metà del secolo scorso, con la fine dell’ultimo pensiero positivista che sia apparso in forma strutturata, cominciò ad andare per la maggiore, soprattutto a sinistra, una battuta di matrice epistemologica che affermava con formula sloganistica che "i dati sono pregni di teoria". Non esiste l’osservazione bruta, non esiste il dato oggettivo: esiste solo ciò che vogliamo vedere, ciò che siamo pronti a catturare in teorie interpretative già elaborate, ciò che non passa il filtro del nostro pregiudizio. Si intendeva scardinare l’idea di una conoscenza assoluta e necessaria, che non lasciasse spazio a differenziazioni culturali e negasse all’uomo un ruolo attivo nel costruirsi le proprie visioni del mondo. Poche cose erano più giuste, e le riflessioni che si sono aperte da allora sono state tra le più produttive che la storia ci abbia mai offerto in questo campo.

Questo non toglie, tuttavia, che si possa a tutt’oggi continuare a parlare di dati in una loro qual forma di oggettività. Non ci sono dati assoluti, non possiamo che guardare ciò che siamo preparati a vedere, i risultati di quanto osserviamo hanno senso soltanto all’interno di questo o quel contesto, di questa o quella interpretazione. Ma, nel caso che ci riguarda, il punto è proprio questo: viviamo in un contesto condiviso, a parole siamo tutti d’accordo sul valore dei diritti umani e sulla funzione della pena, abbiamo un quadro di riferimento comune tanto culturale, e più sfumato, quanto anche normativo, e ben definito.

All’interno di questo quadro di riferimento, il dato oggettivo acquista un valore enorme. In questi anni di attività abbiamo imparato a raccoglierlo, abbiamo imparato a osservare il sistema penitenziario secondo categorie il più obiettive possibile, abbiamo costruito schede su schede per la raccolta delle informazioni, e poi ancora nuove versioni, per sospingere sempre più ai margini la nostra analisi personale in questa fase del lavoro. Ci sentiamo adesso di avere alle spalle un bagaglio, per qualità e per quantità, niente affatto indifferente. Ora non ci è più possibile avere pre-giudizi, ma ogni nostra affermazione è invece un giudizio che ha il carattere del post. Non c’è tono trionfalistico o auto-celebrazione in questo: non siamo contenti di quello che abbiamo osservato, ma sappiamo però che un Osservatorio sulle condizioni di detenzione è ciò che, solo, può dare piena forza a un’analisi critica del sistema penitenziario. Nelle sue prassi consolidate o rapsodiche, perché non c’è altro modo di conoscerle se non con la ricerca empirica. Nelle sue disposizioni di principio, perché, in un contesto storico e sociale, esse vanno necessariamente valutate tramite gli effetti che producono o che mancano di produrre sulla realtà. Alcune ricerche che hanno condotto a risultati significativi sono state recentemente realizzate a partire dai nostri dati, altre vedranno presto il loro compimento, altre ancora si inizieranno nei prossimi mesi.

Buon lavoro, dunque, a tutti coloro che prenderanno parte alla quinta edizione dell’Osservatorio di Antigone. Per l’edizione appena conclusa si apre adesso una nuova fase, che ci vedrà in libreria nell’autunno 2006 con il Quarto Rapporto di Antigone sulle carceri italiane. In quella sede, sulla base delle nostre conoscenze, ci sentiremo in grado di avanzare delle proposte politiche concrete. Lo scopo che ci proponiamo è quello di far vivere analisi critica ed elaborazione politica in un circolo virtuoso con la sistematica raccolta di osservazioni fino a qui condotta. Ringraziamo tutti gli amici e le amiche che hanno contribuito a questa attività collettiva, apportando dati indispensabili e indispensabili interpretazioni di essi.

 

Le Iniziative di Antigone, a cura della Redazione

 

Venerdì 27 Gennaio 2006 ore 9.30 – 13.30 a Roma, presso la Camera dei deputati, Sala del Refettorio - Via del Seminario, 76: Emergenze e libertà, presentazione del primo numero della rivista Antigone, quadrimestrale di critica del sistema penale e penitenziario, edito da l’Harmattan Italia.

 

Stefano Anastasia

Luigi Ferrajoli

Luigi Manconi

Giuseppe Mosconi

Mauro Palma

Massimo Pavarini

Eligio Resta

 

ne discutono con:

 

Massimo Brutti

Daniele Capezzone

Pietro Folena

Roberto Giachetti

Giuliano Pisapia

 

Coordinano:

 

Patrizio Gonnella

Claudio Sarzotti

 

Giovedì 2 febbraio 2006 ore 17.00 si terrà presso la Sala Blu dell’Assessorato al lavoro del Comune di Roma, Lungotevere de Cenci, 5, un seminario dal titolo La mediazione penale.

 

Intervengono:

 

Francesco Di Ciò, Università di Milano

Francesca Vianello, Università di Padova

 

Martedì 21 febbraio 2006 a Rieti presentazione del libro Patrie galere, viaggio nell’Italia dietro le sbarre, di Stefano Anastasia e Patrizio Gonnella, edito da Carocci, 2005. Saranno presenti gli autori. Al momento non sono disponibili ulteriori informazioni. Visitate nelle prossime settimane il sito dell’Associazione Antigone: troverete i dettagli nella sezione Iniziative.

 

 

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