La "dura vita" del medico penitenziario

 

La "dura vita" del medico penitenziario

di Sergio Fazioli, Direttore Sanitario del carcere di Rebibbia

 

Il mestiere di medico penitenziario. Una professione non conosciuta e poco riconosciuta, ricchissima di competenze, equiparata sbrigativamente al medico di medicina generale. Molti ne ignorano le norme, le procedure, le convenzioni, l’autonomia professionale stabilita discrezionalmente dall’autorità penitenziaria.

Una professione, o meglio un mestiere, rivolto a detenuti pazienti con forti disagi psichici e fisici, amplificati dagli spazi costretti di una comunità confinata, dall’alimentazione incontrollata e dalla forte carenza di movimento fisico.

La salute è l’elemento chiave dei problemi carcerari: basti pensare che, secondo i dati internazionali, ben il 60% dei detenuti tossicodipendenti è sieropositivo ma, ai test, non obbligatori, per la verifica dell’HIV, passati al 35%, risulta solo una piccola percentuale della popolazione carceraria: la sieropositività tra i detenuti è passata dal 10%, del 1990, al 2,5% circa a fine 2001, secondo S. Babudieri, infettivologo penitenziario e docente università di Sassari.

I medici penitenziari sono pochi e soprattutto non distribuiti secondo i carichi di lavoro: ci sono Istituti Penitenziari con un medico incaricato per una popolazione di circa 30 detenuti, altri Istituti, come la Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, dove il rapporto medico incaricato/detenuti è di circa 1/250, fino ad alcuni Istituti Penitenziari siciliani ove tale rapporto sale notevolmente (1/400).

Non è stata recepita, da alcuni provveditori regionali, la norma dettata dal dipartimento della Amministrazione penitenziaria che, da qualche anno, ha dato loro il compito di programmazione del servizio con eventuale potere di ridistribuzione delle risorse economiche ed umane.

La legge 230 del 1999 sanciva il trasferimento dell’assistenza sanitaria carceraria dall’amministrazione della Giustizia a quella della Salute, quindi alle AA.SS.LL., ma il passaggio è stato bloccato ed i fondi sono stati ridotti. L’amministrazione della Giustizia, e di conseguenza l’Autorità giudiziaria, che usufruisce della sanità penitenziaria anche per fini medico-legali, tendono probabilmente a conservare lo status quo fino a quando i nuovi soggetti del Servizio sanitario pubblico non si dimostreranno entusiasti di acquisire, insieme alla sanità penitenziaria, anche tutti quei problemi carcerari che ruotano sulla socialità finalizzata al recupero umano, ma con poche risorse adeguate.

Il medico penitenziario in Italia è ancora in subordine al direttore amministrativo del carcere, può esprimere solo dei pareri consultivi, a differenza della Francia, dove i medici penitenziari dipendono direttamente dal Ministero della Salute e decidono e rispondono di persona sulla salute dei detenuti, in analogia ai nostri Direttori Sanitari di azienda sanitaria pubblica. Che cosa fa il medico penitenziario, quali sono i requisiti della professione, che anche la riforma del 1999 non ha evidenziato e distinto dal normale medico di medicina generale?

Il medico penitenziario, oltre alle visite mediche, è obbligato ad assolvere alla tutela dell’igiene della persona fisica, all’igiene ambientale, alla medicina legale, alla certificazione della compatibilità della persona con il regime penitenziario, a controllare la situazione sanitaria fisica e psichica del detenuto, a occuparsi di medicina del lavoro, a provvedere all’acquisto di farmaci e sostanze stupefacenti, a coordinare i servizi dei medici di guardia e dei medici specialisti, a rispettare il budget senza nemmeno essere stato consultato sull’adeguatezza.

 

Formazione

 

Insomma è la figura professionale di un capo-dipartimento di una struttura pubblica. Con un ruolo richiesto, senza lo status professionale riconosciuto. Solo ora è nato, all’Università di Pavia, un corso di medicina penitenziaria, mentre il ministero fa corsi di formazione per medici ogni decennio, dotando il medico che entra ad esercitare nell’istituto penitenziario di un libro, D.A.P. IV volume, dove sono descritte le "Norme e disposizioni sui profili professionali": il profilo del ruolo, dovrebbe fornire al neomedico penitenziario tutte le risposte.

Mentre la professione, in realtà, è molto più complessa e più completa, e gli stessi medici, su base essenzialmente volontaristica, esercitano i tre livelli di prevenzione: educazione sanitaria, che umanizza la vita carceraria, oltre ad avere costi molto limitati; screening e sistemi di controllo delle patologie; azione sulle patologie cronico - degenerative (diabete, ipertensione, broncopatie, cardiopatie, etc…) che può alleviare notevolmente la salute dei detenuti.

Deve avere contemporaneamente rapporti con i detenuti quale medico di medicina generale e medico fiscale, essere allo stesso tempo controllore di altri e di se stesso, rilasciando le dichiarazioni al Giudice, per i provvedimenti da prendere, sullo stato di salute definito sulle patologie che il medico stesso ha accertato.

Il medico è culturalmente e deontologicamente impreparato, con i criteri di gestione penitenziaria. Non può accettare il sovraffollamento carcerario, ma è costretto ad assistere, impotente, all’evoluzione del fattore rischio determinato dall’azione sovraffollamento (in diversi Istituti è del 20/30%).

 

Rischio

 

Inoltre, la mancanza di spazi interni da utilizzare per l’attività fisica è destinata, con la vita forzatamente sedentaria, ad aumentare il rischio cardiovascolare, la carenza di un minimo di posti letto per gestire le patologie cronico - degenerative, la limitazione delle risorse umane ed economiche e la difficoltà di assicurare accertamenti e/o ricoveri presso una struttura Sanitaria Pubblica (per "cosiddetta" mancanza di posti letto) concorrono a far sì che al detenuto non vengano garantiti i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA).

C’è poi la dura realtà che richiede al medico di decidere subito se c’è l’emergenza, o se c’è simulazione, e se quindi bisogna combattere, ad esempio durante il turno notturno, attesi i motivi di sicurezza custodiale, per l’apertura della cella, aperta per casi ritenuti necessari dal medico. Sono grandi responsabilità, situazioni limite nelle quali vengono messi a dura prova i principi deontologici del rapporto medico - paziente, a causa della difficoltà nell’esprimerli date le condizioni di comunicazione legate all’ambiente in cui si opera, che possono essere ritenute dal paziente detenuto lesive della dignità minima della persona.

 

I dubbi

 

Il medico penitenziario, quando entra in carcere, ogni giorno, viene assalito da centinaia di problemi. Problemi espressi da tutte le figure professionali che gli ruotano attorno: gli infermieri, gli specialisti, la polizia penitenziaria, i volontari, i direttori, eccetera. Spesso il medico penitenziario deve rapportarsi con i medici delle strutture pubbliche o con le Autorità giudiziarie e viene assalito dal dubbio sul modo di programmare il servizio assegnatogli.

E poi c’è il problema dei detenuti sieropositivi. A Rebibbia, se sono vere le stime internazionali, che stabiliscono che il 60% dei detenuti tossicodipendenti è sieropositivo, ci dovrebbero essere circa il 17% dei detenuti affetti da HIV. Ne risultano, invece, solo il 5%, perché il prelievo non è obbligatorio e le analisi possono essere fatte solo dopo consenso del detenuto.

Quindi facendo una rapida stima circa il 17% della popolazione carceraria di un grande Istituto Penitenziario dovrebbe essere sieropositiva, ma soltanto il 5% di questa viene evidenziata perché il prelievo per esame HIV è facoltativo: esiste il pericolo di contagiare persone che vivono in una collettività obbligata e di aggravare il proprio stato di salute per mancanza di cure, qualora un cittadino detenuto fosse sieropositivo senza saperlo.

Così non si sa se il detenuto è diventato sieropositivo in carcere, non si può sapere chi lo è, non si possono attivare le cure e le prevenzioni necessarie per tutelare il personale e la stesa popolazione carceraria. È paradossale che non si renda obbligatorio l’esame HIV nella popolazione carceraria, proprio per tutelarla dal contagio, analogamente all’unico esame attualmente obbligatorio, all’ingresso in carcere, per la prevenzione delle malattie veneree, la reazione Wassermann.

 

Differenze

 

E le stime sul fabbisogno di medici nel carcere, attualmente sottodimensionati, saltano perché una rilevante percentuale di detenuti sono pazienti sieropositivi che necessitano di assistenza, controlli e cure per vivere ed evitare di propagare il contagio.

Tra l’altro non vengono considerate le differenze tra un Istituto Penale (Casa di Reclusione), con popolazione carceraria stanziale, ed un Istituto Penitenziario Giudiziario (Casa Circondariale), con un turn-over elevatissimo di detenuti transitanti. In un Istituto Giudiziario possono transitare, per motivi legati soprattutto ai procedimenti penali, circa il 400% della popolazione residente e cioè a dire annualmente la popolazione di un grande carcere giudiziario può rinnovarsi 4 volte.

Le stime sulla domanda di salute e quindi sul fabbisogno di medici, nei due casi, sono radicalmente differenti tra una popolazione controllabile che non cambia (Casa di Reclusione) e una popolazione (carcere giudiziario) con turn-over elevato, che consente con difficoltà di prevedere le situazioni critiche di salute proprie di una grande Comunità Confinata (rischi di epidemie, etc.).

Nella convinzione che il Medico Penitenziario, vivendo quotidianamente vicino al disagio di tanta gente, che più della libertà teme di perdere la propria identità, possa con il suo coraggio e perseveranza curare non solo il fisico ma anche e soprattutto l’aspetto psico-sociale del cittadino detenuto per il suo definitivo recupero e reintegro nella Società, che lo aveva allontanato perché con comportamento diverso da quanto stabilito dalle Regole.

Nella certezza che il Medico Penitenziario continui a curare il detenuto senza discriminazioni legate alla sua posizione giuridica, allo stato di giudicabile/definitivo, detenuto italiano/immigrato, detenuto sano/malato.

 

 

 

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