Commissione sulla sanità in carcere

 

Commissione parlamentare indagherà sulla sanità nelle carceri

di Mimmo Torrisi

 

Sarà il Parlamento a fare luce sulla situazione della sanità carceraria. Le commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera hanno infatti deliberato l’altro ieri di avviare un’indagine conoscitiva. L’iniziativa, intrapresa dalla deputata di Rifondazione comunista, Tiziana Valpiana, porterà i deputati ad ascoltare tutti i protagonisti della vicenda ed andare in missione nei maggiori istituti di pena del Paese, per verificare di persona la situazione.

Le questioni sul tappeto sono molte, ma il nodo cruciale è la difficoltà sempre maggiore di garantire la salute dei detenuti. Le cause vanno ricercate innanzi tutto nella riduzione delle risorse finanziarie, ma anche nelle difficoltà incontrate dal passaggio di competenza su tutta la materia dal ministero della Giustizia a quello della Salute. Competenza che, in conseguenza della riforma in senso federalista della Costituzione, è ormai per gran parte delle Regioni.

Più s’approfondisce la questione, più emerge un quadro drammatico, fatto di morti evitabili, medicinali che mancano, servizi ridotti, personale che non si trova, risorse inadeguate, e su tutto una riforma - quella che ha trasferito la competenza dal ministero della Giustizia a quello della Sanità - che non è stata ancora attuata nonostante sia stata approvata nel 1998.

 

I numeri

 

I numeri sono pesanti, ma chi vive nelle carceri, pur consapevole della retorica dell’affermazione, si rifiuta di essere ridotto ad un numero. Sono uomini e donne, con le loro storie, che finiscono dentro una cella. Finiscono, a volte in senso letterale. Alcune di queste storie sono state ricostruite nel dossier, "Morire di carcere" curato dalla cooperativa sociale "Il cerchio" di Padova e consultabile sul sito internet www.ristretti.it.

L’ultima storia ricostruita è quella di Donato Greco, 32 anni, che lo scorso 24 settembre ha tentato di impiccarsi nel carcere di Aversa. È stato salvato all’ultimo momento, ma non è andata così in molti altri casi: secondo i dati elaborati dal sindacato autonomo di polizia penitenziaria, nei primi 8 mesi del 2003 in carcere sono morte 111 persone, 71 per suicidio, 18 per mancanza di adeguata assistenza sanitaria, 5 per overdose e 17 nella non meglio identificabile categoria di "morti sospette". Nella lista non rientra la morte per tubercolosi, di un detenuto tossicodipendente di 52 anni, avvenuta due settimane dopo il ricovero all’ospedale di Piazza Fiume a Sassari. Il detenuto veniva dal carcere della stessa città sarda. È il quarto caso di tubercolosi registrato nel carcere sardo, tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria.

 

I soldi

 

Non ci sono. E fin qua, si dirà, la storia è uguale per tutta la pubblica amministrazione, ma in questo caso c’è qualcosa in più. "Se non arrivano subito i soldi non so come potremo arrivare alla fine dell’anno", a parlare è Ettore Ziccone, direttore del Provveditorato per l’amministrazione penitenziaria del Triveneto. La sua è una disamina impietosa: "il passaggio alla sanità di fatto non è avvenuto, tranne che per le tossicodipendenze. In questo caso sono i Ser.T che stanno garantendo il servizio, nell’attesa che prima o poi arrivino le risorse. Il resto è rimasto alla Giustizia, ma i fondi stanno finendo".

Il resto è tutto, dall’acquisto dei farmaci, alla gestione dei servizi interni. E siccome i soldi stanno finendo, o sono finiti, si tagliano le convenzioni o si riducono le prestazioni. Per risparmiare, ma è un risparmio fittizio, anzi non è affatto un risparmio: "Un detenuto che esce dal carcere per accertamenti o ricoveri, costa molto di più. Serve la scorta, il piantonamento e quant’altro. Non considerando l’aumento dei tempi. Però, è un altro capitolo di bilancio e nessuno si vede meno". A volte le strutture ci sono anche, è il caso di Pisa, preso a modello da tutta Italia (c’è chi ha proposto, provocatoriamente, di trasferire tutti i detenuti in Toscana), ma anche lì capita che una sala operatoria venga chiusa perché non rispetta gli standard necessari (decisione dell’Asl) e rimanga inattiva perché non ci sono i soldi per metterla a norma. La sala operatoria è chiusa da due anni, i soldi dovrebbe metterli il ministero per la giustizia, ma per l’appunto: i soldi non ci sono.

Un’altra storia la racconta lo stesso Ziccone: "a Padova abbiamo pronto un gabinetto di radiologia da 4 mesi, ma non parte perché non riusciamo a trovare un tecnico radiologo". I tecnici radiologi esistono, ma non facendo i missionari chiedono di essere pagati, è qui torna il problema: "secondo il nostro tabellario possiamo pagarli come fossero infermieri, ma nessuno accetta". Mancano anche gli infermieri, e da molte parti d’Italia si usano gli agenti di polizia penitenziaria, ma non in Triveneto: "da noi sopperiscono gli stessi medici". Il problema del personale, però, non è solo della sanità carceraria: "mancano tutte le qualifiche del personale – spiega Ziccone – ma i concorsi non si fanno". Perché non si fanno? Domanda alla quale non vale la pena di rispondere.

C’è poi la questione farmaci, costano troppo, specie i retrovirali per l’Aids e gli psicofarmaci, tra i più utilizzati per le patologie diffuse in carcere: "li compriamo quando servono". In realtà servirebbero sempre, per questo anche in Veneto, come già è avvenuto in Toscana, è stato siglato prima dell’estate un protocollo con la Regione per far sì che i farmaci siano forniti dalle Asl. La Regione però non lo ha ancora attuato, la speranza del direttore Ziccone è che si parta l’anno prossimo.

Le cifre variano, ma in alcuni capitolati di spesa ci sarebbero stati tagli anche del 50% negli ultimi due anni. All’aridità delle cifre, corrispondono effetti concreti drammatici: in quasi tutti gli istituti penitenziari scarseggiano i farmaci, anche quelli comuni, ma soprattutto i retrovirali utilizzati per la cura all’Aids. "A volte li chiediamo in prestito agli ospedali – spiega il dott. Giovanni Musumeci, della società italiana di medicina e sanità penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Catania, piazza Lanza – in generale ce li procuriamo quando servono, con evidenti difficoltà di continuità della terapia".

Nelle strutture penitenziarie i farmaci vengono acquistati direttamente dalle cause farmaceutiche alla metà del prezzo, come avviene in genere nelle strutture sanitarie. I farmaci retrovirali, però sono cari, troppo cari, e quindi se ne comprano pochi. Tranne in Toscana, dove c’è una legge regionale ad hoc ed una convenzione che fa sì, all’interno di un determinato budget, che questi vengano passati dalla Aziende sanitarie locali. La riduzione delle risorse ha anche ridotto le convenzioni con i medici specialisti che prestano servizio in carcere, o in alternativa, il numero delle prestazioni eseguite. Risultato: "non si fa né prevenzione, né programmazione".

Le prestazioni che non si fanno più in carcere, o non si fanno del tutto oppure vengono eseguite all’esterno, presso le strutture del servizio sanitario nazionale, con un paradossale aumento dei costi e riduzione della qualità: "una visita specialistica in carcere costava poco e veniva fatta in fretta – spiega il dottor Antonio Adamo, presidente dell’Associazione medici amministrazione penitenziaria italiana, di stanza al carcere di Pisa – oggi si va all’esterno spendendo molto di più e con i tempi d’attesa del nostro sistema sanitario nazionale".

C’è poi la questione infermieri. Mancano ovunque, anche negli ospedali, perché l’offerta privata è cresciuta e la necessità di un diploma di laurea ha ridotto la quantità di personale. Ma c’è anche un problema specifico del carcere: "veniamo pagati tre volte l’anno, con stipendi bassi e che, per di più, sono stati ridotti", spiega Marco Poggi, segretario nazionale del Sindacato autonomo infermieri. "In media, per cento ore lavorative mensili, lo stipendio arriva a tre milioni di lire lordi, che vuol dire un milione e ottocentomila lire netti. E aspettiamo ancora arretrati dal 2001". Soprattutto, però, Poggi lamenta la riduzione del monte ore dovuta alla necessità di ridurre i costi: "il risultato è che le prestazioni infermieristiche vengono effettuate dalla polizia penitenziaria".

 

Passaggio di competenze

 

La riforma Bindi del 1999 aveva sancito il passaggio della sanità carceraria dal ministero della Giustizia a quello della Sanità. Per il trattamento delle tossicodipendenze questo è avvenuto formalmente già il 1° gennaio 2000. Anche se, fino al 30 giugno 2003 gli oneri finanziari sono stati sostenuti da via Arenula. Da luglio, invece, tutto il personale che opera per il trattamento delle tossicodipendenze in carcere è privo di qualunque copertura normativa. Non di pende da alcuna amministrazione e non è pagato da alcuna amministrazione. Per fortuna la situazione è meno tragica di quello che potrebbe apparire perché il servizio comunque è garantito, anche se al di fuori della legge. O applicando le vecchie convenzioni con il ministero della giustizia (scadute e finanziate da un dicastero non più competente), o per la libera e spontanea iniziative di singole Asl, o per lo spirito di servizio del personale medico e infermieristico.

All’indomani dell’approvazione della legge è stata avviata una fase di sperimentazione in alcune regioni, sui cui esiti però non si hanno informazioni. Così come non se ne hanno dalla commissione interministeriale costituita nell’aprile 2002, che doveva proprio trarre le conclusioni della sperimentazione. Secondo Patrizio Gonnella, coordinatore nazionale di Antigone, associazione da sempre in prima fila nella tutela dei diritti dei detenuti: "il passaggio dalla Sanità alla Giustizia di fatto non è avvenuto per il conflitto esistente tra i due ministeri. Un passaggio da pubblico a pubblico, non una privatizzazione, poteva essere fatte più in fretta e con più decisione. Ma su questo le colpe sono bipartisan".

 

 

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