Meno soldi per la salute dei detenuti

 

Tra il 1999 e il 2002 si è registrata una diminuzione dei fondi per la medicina penitenziaria dell’11,4% procapite. Mai applicato il Dlgs 230/99, che prevedeva il trasferimento delle competenze dalle ASL

 

Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2002

 

Riduzione test HIV dal 1999 al 2001

- 15.0 %

Spesa sanitaria procapite nel 2002

1.407 €

Spesa sanitaria procapite nel 1999

1.587 €

Differenza spesa 2002 – 1999

- 11.3%

 

Una riforma rimasta tutta, o quasi, sulla carta e che ha finito con l’innescare una progressiva riduzione dei fondi per l’assistenza sanitaria ai carcerati. Ad oltre tre anni dall’entrata in vigore, il Dlgs 230/99, che stabiliva il passaggio delle competenze sulla salute dei detenuti dall’amministrazione penitenziaria alle ASL, con l’obiettivo di garantire ai reclusi gli stessi standard di cure assicurati a tutti gli altri cittadini, non è stato applicato e ha creato una "confusione normativa" in materia di competenze e responsabilità, che si è tradotta in una diminuzione dei fondi per la medicina penitenziaria dell’11,4% medio procapite, tra il 1999 e il 2002.

In valori assoluti il finanziamento per la sanità carceraria si è ridotto dello 0,45% rispetto al 1999 (ma ben del 9,85% rispetto al 2001): la situazione è, però, allarmante perché oggi i fondi devono essere suddivisi tra 56 mila detenuti, ben 6 mila in più rispetto a tre anni fa. E il trend non sembra destinato a invertirsi, visto che l’amministrazione penitenziaria parla di una "razionalizzazione", che richiede tagli agli stanziamenti in bilancio di circa il 14 per cento. Dopo la riforma del 1999 - spiegano all’Ufficio Servizio sanitario del Dipartimento amministrazione penitenziaria (DAP) - si è pensato sempre meno a finanziare la Sanità penitenziaria, nella convinzione che a farsene carico sarebbe stato il SSN. Ma la scarsità dei fondi a disposizione (circa 79,72 milioni di euro nel 2002, per una quota capitaria di 1.587,35 euro, 260 in più circa di quella assegnata dal SSN) ha spaventato le ASL, che si aspettavano trasferimenti ben più sostanziosi.

Per questo molte aziende hanno scelto una politica "attendista", con il risultato di lasciare la popolazione delle sovraffollate carceri italiane in una sorta di limbo. E la mannaia del risparmio è calata soprattutto su alcune voci. Il personale sanitario, ad esempio, che per l’amministrazione penitenziaria lavora tutto in base a convezioni biennali. La spesa per gli specialisti è calata in media del 35,5%, dal 1999 al 2002, mentre riduzioni minori hanno subito la guardia medica (- 8,5% ) e l’assistenza infermieristica (- 0,2%).

Non tutte le riduzioni, però, sono frutto di tagli. Qualcuna è dovuta anche a vere razionalizzazioni. Sui farmaci ad esempio - spiega il DAP - c’è stata una spesa minore grazie all’introduzione dei generici. E, in alcune Regioni, si è deciso di garantire ai detenuti, esenti dal ticket per legge, anche le medicine di fascia C (che fuori dal carcere sono a totale carico dei cittadini) e i costosissimi antiretrovirali per la terapia anti - HIV e, ancora, sul capitolo delle apparecchiature c’è anche la spesa per le strutture di assistenza all’HIV e ai disabili: reparti ad hoc sono stati aperti a Milano Opera, Secondigliano, Genova e Rebibbia, mentre in altri istituti sono state create strutture riabilitative su misura.

Una riforma in stand by, quindi, che porta serie conseguenze per l’assistenza sanitaria in carcere. Dove tossicodipendenze, malattie infettive e patologie mentali, tra le più "costose" e lunghe da curare, sono all’ordine del giorno.

Colpa della "mancata o tardiva attuazione" delle norme per il trasferimento al SSN di personale e strutture sanitarie dell’amministrazione penitenziaria e delle "diffidenze e naturali resistenze di alcuni operatori di entrambe le amministrazioni", spiega la relazione finale del Comitato per il monitoraggio e la valutazione della sperimentazione regionale del Dlgs 230/999, trasmessa a luglio ai ministri di Giustizia e Salute. E per questo il Comitato chiede un prolungamento della sperimentazione che giudica "prioritaria e urgente, sia per le aspettative dei detenuti e delle famiglie" sia per quelle "del personale coinvolto, che vede nel trasferimento un obiettivo di qualificazione professionale".

Intanto, però, al ministero della Giustizia già si pensa a una revisione del Dlgs 230/1999 e in questi giorni si stanno svolgendo incontri congiunti con la Salute per raggiungere un diverso obiettivo: non il trasferimento, ma "l’integrazione" dell’assistenza sanitaria in carcere. In sostanza, dove l’amministrazione penitenziaria riesce ad arrivare con le sue competenze non c’è bisogno dell’ASL, che, invece, interviene nei casi in cui si rende necessario un intervento a più alta specialità. Insomma - sottolineano all’ufficio servizio sanitario del DAP - la parola d’ordine della nuova riforma sarà "collaborazione".

La sperimentazione che non c’è

 

Dovevano essere il "laboratorio" dove testare concretamente un nuovo modello di assistenza sanitaria ai detenuti e fare da apripista al resto del paese, e invece anche le sei Regioni che hanno applicato in via sperimentale il Dlgs 230/99 navigano ancora in alto mare. Lazio, Puglia e Toscana (individuate già nel decreto del 1999), cui si sono aggiunte in corsa Emilia Romagna, Campania e Molise, avrebbero dovuto inventare e proporre modelli concreti per realizzare quel passaggio di competenze dall’amministrazione carceraria alle ASL voluto dall’allora Governo di centrosinistra per eliminare le differenze tra i servizi sanitari a disposizione dei detenuti e quelli assicurati al resto dei cittadini.

Ma dal 1999 a oggi sono cambiati i Governi e con essi la volontà di dare attuazione alla riforma, tanto che all’avvicinarsi della scadenza prevista per le sperimentazioni (fissata al 30 giugno scorso) quasi tutte le Regioni coinvolte (che da sole "ospitano" quasi la metà della popolazione carceraria italiana) hanno scritto ai ministri della Salute, della Giustizia e del Tesoro chiedendo con urgenza indicazioni operative sui destini della riforma e chiarimenti sulle responsabilità, in primo luogo quelle finanziarie. La confusione normativa e la mancanza di decreti attuativi - lamentano le amministrazioni locali - rischia di rendere impossibile la prosecuzione della sperimentazione e anche di vanificare gli sforzi fin qui fatti. Ecco, ad ogni modo, una sintesi degli interventi messi in campo dalle Regioni - campione.

 

Toscana

La Regione e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (PRAP) hanno firmato un protocollo di intesa per l’interazione tra ASL e istituzioni carcerarie. Per L’assistenza ai detenuti tossicodipendenti, ad esempio, è prevista l’istituzione di Ser.T. "integrati" composti da operatori delle aziende sanitarie e operatori carcerari; sono state inoltre diffuse linee guida per i trattamenti farmacologici e avviati progetti di formazione per chi lavora a contatto con i carcerati. È poi previsto che i Dipartimenti di Salute Mentale delle ASL assicurino una presenza all’interno delle carceri.

 

Emilia Romagna

Anche qui lo strumento adottato per la sperimentazione è un protocollo di intesa tra PRAP e assessorati alla Salute e ai Servizi sociali. Progetti specifici - con finanziamenti regionali ad hoc - sono stati avviati nel campo dell’informatizzazione delle cartelle cliniche e della gestione dei farmaci e per la formazione di "mediatori culturali" incaricati di facilitare i rapporti con i detenuti extracomunitari.

 

Campania

La Regione ha scelto di varare un vero e proprio "progetto obiettivo", in base al quale i direttori degli istituti di pena e i manager delle ASL competenti per territorio dovranno fissare con specifici accordi le modalità d’assistenza ai carcerati, secondo tre modelli proposti. Per i penitenziari più grandi (con oltre 700 detenuti) dovrà essere creato un "dipartimento strutturale", dotato di autonomia, di personale specifico e di un budget per le cure ai detenuti.

 

Lazio

La Regione non ha adottato provvedimenti di portata generale, ma nella relazione finale della sperimentazione si è limitata a riassumere il quadro epidemiologico delle carceri e a ricordare alcune interessanti iniziative in corso di realizzazione, dedicate soprattutto ai tossicodipendenti: presso il carcere di Rebibbia, per esempio, è stato attivato un day hospital penitenziario con oltre 40 posti letto e una sorta di comunità di recupero "a custodia attenuata".

 

Puglia

È ancora in fase di redazione un progetto-obiettivo regionale per la tutela della salute in carcere. Sono in fase più avanzata, invece, i lavori per l’integrazione tra i Ser.T. delle ASL e gli istituti di pena.

 

Molise

PRAP e Regione hanno adottato un protocollo d’intesa che fissa i principi per l’assistenza ai detenuti, mentre si sta lavorando ad un Progetto obiettivo che traduca i principi in indicazioni concrete.

Le cure dietro le sbarre evitano i contagi da liberi

 

Utilizzare la detenzione come momento di screening e d’educazione sanitaria per patologie importanti come tossicodipendenza, HIV, epatite e tubercolosi. È la proposta lanciata da Sergio Babudieri, infettivologo dell’Università di Sassari e medico penitenziario e da Giulio Starnini, dell’Unità operativa di malattie infettive dell’Ospedale Belcolle di Viterbo, anche lui medico penitenziario. L’idea nasce dai primi risultati di una maxi-indagine epidemiologica, in corso presso 14 penitenziari italiani, che i due medici presenteranno al congresso nazionale della Società italiana di malattie infettive e tropicali che si apre domani a Cernobbio. Obiettivo dello studio: verificare se i dati ufficiali sulla prevalenza delle principali malattie infettive tra i detenuti sono realistici e, soprattutto, disegnare strategie di intervento che possano utilizzare gli obblighi legati alla detenzione come momenti di tutela per la salute dei detenuti.

Quattro i dati di partenza. I detenuti tossicodipendenti sono il 30% della popolazione carceraria. I detenuti stranieri sono aumentati in dieci anni dal 15 al 35 per cento. I test di screening per l’HIV eseguiti tra i detenuti sono diminuiti dal 50% del 1991 al 35-37% del 2001. I sieropositivi rilevati nel 1990 erano il 10% dei carcerati, mentre nel 2001 sono il 2,5% circa: un calo dovuto proprio alla riduzione degli accertamenti.

L’indagine non è ancora stata completata ma i primi dati indicano già precise tendenze. "Finora è "rientrato" il 60% delle schede, spiega Babudieri - ma i risultati sulla tendenza già ci sono. Il test per l’Hiv è stato esteso nell’indagine al 72,5% della popolazione, contro il 35% di routine. E sul 27% dei campioni già analizzati la positività all’HIV è stata rilevata in circa il 12% dei casi, leggermente inferiore a quanto accertato nelle singole carceri: un risultato che fa pensare, se confrontato con quello dei test svolti dall’amministrazione penitenziaria".

Insomma, se il dato sarà confermato, bisognerà mettere subito a punto nuove strategie e incrementare gli screening ufficiali sulle condizioni di salute della popolazione carceraria, visto che la non conoscenza della condizione patologica aumenta il rischio di contagio.

In sostanza - secondo Babudieri - bisogna "investire" sull’educazione sanitaria dei detenuti e l’amministrazione penitenziaria centrale deve fare in modo che ogni carcere offra la possibilità di sottoporsi ai test.

I risultati di una tale operazione, per l’infettivologo, sarebbero positivi non solo in ambito carcerario: moltissimi tossicodipendenti oggi liberi, per esempio, sono passati dal carcere. Se fossero stati sensibilizzati ed educati si avrebbe una riduzione significativa del rischio. "Le strutture sanitarie sono impotenti di fronte alla libertà delle persone di scegliere se proseguire correttamente una terapia", sottolinea Babudieri. "La somministrazione dei farmaci anti - HIV in carcere è controllata, mentre all’esterno è spesso interrotta o proseguita saltuariamente. E il risultato è un nulla di fatto dal punto di vista degli effetti e un aumento della resistenza dei virus alle terapie".

Per non parlare della spesa "inutile", sostenuta dal servizio pubblico per terapie che vengono interrotte e non hanno dunque alcuna efficacia. Anche per le altre infezioni monitorate il risultato è analogo. Per il virus HHV8 (un virus erpetico sessualmente trasmesso e correlato al sarcoma di Kaposi), ad esempio, la positività è circa del 20% e, di questi soggetti, il 7% è positivo anche all’HIV per via del contagio sessuale.

Per la tubercolosi, la positività (cioè l’essere venuti a contatto con il virus, non necessariamente l’averlo contratto) passa dal 20.4% del 1999 al 27.8% del 2002. "In sostanza - spiega Babudieri - saremmo in presenza di una positività che nelle carceri è in media del 25%, contro il 4% registrato a livello nazionale. Ma anche in questo caso è una questione di rilevazione".

 

 

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