Inchiesta su Nisida

 

Nisida: l’isola dei minorenni

Inchiesta sull’Istituto Penale Minorile di Nisida (Napoli)

di Carlotta Mismetti Capua

 

La Repubblica, 18 ottobre 2003

 

Dista da terra meno di cento metri, pare uno scoglio in mezzo al mare, di quelli che ci arrivi in due minuti con il gommone. Eppure non c’è luogo napoletano più distante di Nisida: visibile da tutto il Golfo, ma vietata da sempre. Fino a qualche anno fa su una curva di Coroglio, il promontorio di fronte, i militari della base Nato che sta ai piedi dell’isola avevano messo un cartello che intimava l’assurdo "vietato osservare". Ma come resistere? Da lì Nisida sembra una cartolina di altri tempi: verde, tonda come una nocciola di tufo in mezzo al mare.

Da luogo agreste - il duca di Amalfi, Giovanni Piccolomini, la comprò nel Cinquecento per farne un giardino di delizie - Nisida è diventata, al pari di altre isole italiane, un luogo di reclusione: prima lazzaretto, poi ergastolo borbonico, trasformato nell’Ottocento in bagno penale e poi, negli anni Trenta, in casa di rieducazione.

Ora si chiama Istituto di pena per minori, e il sindaco napoletano Rosa Russo Iervolino ha proposto di presentarlo, durante il semestre europeo, come carcere modello italiano. "Ma sempre carcere resta", dice, amaro, il direttore Gianluca Guida mentre attraversiamo il muro blindato, una sorta di camera di decompressione emotiva, diretti all’interno. "Ci sono le chiavi, le mura, le sbarre", mostra. E qui, su un’isola che pare dipinta, le chiavi, le mura, le sbarre pesano più che altrove. "In tanti si stupiscono che un carcere sia in un posto così bello", prosegue Guida.

"Su Nisida tutti hanno messo gli occhi, ci hanno fatto perfino le cartoline". Del suo passato aristocratico e militare non restano che ruderi. Il carcere di oggi è come lo disegnò il fascismo: una cittadella fortificata con una serie di palazzine comuni, piccoli appartamenti con grandi finestre, celle che sembrano stanze, qualche scampolo di verde e un vero campo da calcio, "il nostro campo", indica orgoglioso uno dei ragazzi, "chi se lo immaginava. Ho anche la mia stanzetta qui, tale e quale a quella che avevo a casa. Il carcere, lo credevo peggio".

Nisida è una delle 19 prigioni per minori in Italia, dove transitano duemila giovani l’anno. Strutture piccole, con un sano rapporto tra operatori e ragazzi (uno a 12, contro gli uno a cento del carcere per adulti), dove negli anni Settanta e Ottanta è soffiato, lieve, il vento riformista che immaginava di sorvegliare e punire un po’ di meno, ed educare e riabilitare un po’ di più.

Anche grazie a quel vento, oggi a Nisida ci sono un teatro nuovo di zecca (finanziato da Luca De Filippo e dal Comune di Napoli, con un laboratorio di scenotecnica, che quando funziona fornisce le maestranze al teatro San Carlo), un forno per cuocere la ceramica, un reparto di falegnameria. E poi una sartoria e una scuola di pasticceria per le ragazze, perché come negli anni Cinquanta gli uomini imparano a costruire un muro e le donne a cucire un vestito.

Peccato che la Finanziaria dell’anno scorso abbia tagliato le risorse del 30 per cento. Per cui i primi à saltare sono stati i consulenti: psicologi e artigiani, che venivano ad ascoltare e a insegnare un mestiere ai ragazzi.

"Al minorile di Bari è andata peggio, in primavera sono rimasti senza soldi per il cibo. Noi abbiamo dovuto tagliare i laboratori. Quello di sartoria è spesso fermo, non possiamo permetterci di comprare le stoffe e le ragazze le dobbiamo tenere in cella", spiega il direttore. Non a caso Maria, quindici anni, sui muri della sua ha scritto: "Vivi la vita come puoi perché come vuoi non puoi". A Nisida, ormai, di sempre aperto c’è solo la scuola. E il mare.

Solo i "definitivi", però, quelli con una pena certa, hanno il permesso di tuffarsi in acqua. Due volte al mese, d’estate. Accompagnati dagli agenti della polizia giudiziaria, quelli che i ragazzi chiamano "le guardie". I ladri, invece, sono loro: oltre il 70 per cento dei detenuti (una cinquantina in tutto) è qui per reati contro il patrimonio. Come Gigo, che ora aiuta in cucina.

Sedici anni, zingaro, cresciuto in Austria, viveva a Napoli, rubava a Roma. Con uno zio. "Con le Mercedes facevamo dieci milioni. Con le Fiat Punto, solo uno", racconta. "Delle città italiane conosco tutti i garage", conclude con orgoglio professionale.

"Oggi il carcere, per un minorenne, è del tutto residuale: vent’anni fa ci finiva il 30 per cento dei ragazzi giudicati, oggi meno del 5. Praticamente ci arrivano solo i recidivi, come Gigo appunto", spiega il direttore Guida. Quelli, insomma, che vengono presi per spaccio o furto, perché le Erika e gli Omar sono una rarità statistica. Gigo e gli altri, invece, nella loro breve vita e lunga carriera hanno già visto una decina di giudici.

Siccome il codice non impone che lo stesso magistrato si occupi sempre dello stesso minore, i fascicoli dei ragazzi saltellano di scrivania in scrivania, di conseguenza è difficile programmare un percorso rieducativo. Si va per progressione: al primo reato si concede il perdono giudiziale, al secondo la sospensione della pena, al terzo si tenta l’affido ai servizi sociali, al quarto la comunità. E infine, il carcere. A Nisida chi si comporta bene - "cioè quando hai capito le regole", come spiega un ragazzo - finisce al terzo reparto, dove si può tenere la macchinetta del caffè. Qui c’è anche un biliardino scassato, con cui giocare nelle interminabili ore. Poi, finita la scuola e fermi i laboratori, tutti in cella: stanze da colonia con i letti a castello, ma con le fenditure nei muri per sorvegliare e porte e finestre sbarrate.

Non esiste un ordinamento penitenziario per i ragazzi: il codice minorile, il primo, è stato approvato nel 1989, e dopo 14 anni l’Ordine non ha nemmeno attivato i corsi che specializzino gli avvocati, come prescrive la legge. Così, le regole che valgono per un quarantenne a Poggioreale vanno bene anche per un tredicenne a Nisida: ora d’aria, permessi per telefonare, metri quadri per vivere, punizioni (ci sono anche quelle, decise dal comandante della polizia giudiziaria).

Stesse regole, stesse anomalie: come accade per gli adulti, anche i tre quarti dei ragazzi sono in carcere in attesa di giudizio. Il reparto femminile di Nisida è pieno di ragazzine rom che aspettano il processo. Alcune hanno figli, quasi tutte sono sposate. Per loro c’è anche un piccolo nido. Ma queste agevolazioni - il nido, il teatro, la macchinetta del caffè - sono solo palliativi, e non vere occasioni di recupero.

"Il ministero della Giustizia, negli anni, ha finanziato ogni sorta di programma: attività ricreative o professionalizzanti all’interno delle carceri, comunità sperimentali, case-famiglia. Ma di nessuna di queste misure, quelle leggere e quelle forti, quelle antiche e quelle moderne, si misura la validità", spiega Anna Merstizt, dirigente dell’Istituto di ricerca sui sistemi giudiziari del CNR di Bologna. "Lo Stato non sa quello che fa. Non se funziona meglio il teatro, l’inserimento professionale o il sostegno psicologico. Non sa quanti ragazzi tornano a delinquere. Non esiste un centro studi, né test, né statistiche". Perché? "Perché a occuparsi di carcere, sia nella magistratura sia al ministero, sono sempre i giuristi; gente che non ha cultura statistica o sociologica".

A Nisida, le statistiche si fanno a occhio.

 

Un Ddl del governo prevede che il condannato appena compiuti i 18 anni, passi subito dal minorile al carcere per adulti

 

"Molti dei ragazzi, nel carcere, hanno cognomi di famiglie note della camorra. Spesso ho avuto qui i fratelli, qualche volta ricordo anche i padri", commenta amaro Ignazio Gasperini, da vent’anni educatore in questo istituto. "Vengono sempre dalle stesse classi sociali e delinquono per le stesse ragioni. Per loro Nisida è un’opportunità, quasi un collegio, dove hanno l’obbligo di studiare, imparano un mestiere, giocano. Qui hanno punti di riferimento che non hanno mai avuto, qualcuno che gli chiede "Come stai?". Il problema è che ci vorrebbe un fuori".

Fuori non ci deve essere molto, se il 46 per cento dei detenuti delle carceri per adulti arriva dal minorile. Il che significa una sola cosa: che una volta entrati come "giovani devianti", usciranno come delinquenti più o meno a vita.

E non vedendo tra le due tipologie una grande differenza, l’attuale ministro della Giustizia Castelli ha deciso di ritoccare il codice minorile. Così il Ddl approvato a marzo dal Consiglio dei ministri, che deve arrivare al voto della Camera, prevede che un minore condannato passi al carcere per adulti appena compiuti i 18 anni, invece di aspettare i 21 come accade ora.

Inoltre la riforma del centrodestra - che prevede l’abolizione dei tribunali minorili e dei giudici onorari, vale a dire di specializzazioni e competenze psicologiche - mira ad abbassare la soglia di punibilità. Più carcere per tutti. Anche se, al di là del clamore mediatico di alcuni casi, le denunce a carico dei minori sono in calo: in dieci anni sono scese da 45 mila a 39 mila. In Italia solo il 3 per cento dei denunciati sono minorenni, contro il 24 per cento della Gran Bretagna e il 21 della Francia, Paesi già a "tolleranza zero".

 

 

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