Intervista a Livia Pomodoro

 

Livia Pomodoro, Presidente Tribunale per i Minori di Milano

a cura di Antonio Casella, Adolfo Ceretti, Claudia Mazzucato

 

Dignitas, giugno 2003

 

Devianza e criminalità giovanile trovano sempre grande spazio nel mondo dei media: a questo rilievo che contribuisce peraltro a spostare la soglia di allarme sociale corrisponde effettivamente un aumento dei fenomeni criminali?

I media tendono a focalizzare soprattutto i fatti più eclatanti che segnano l’immaginario collettivo, riservando ad essi un’attenzione spesso morbosa e che alimenta un allarmismo semplificatorio. I dati a nostra disposizione sulla devianza e la criminalità giovanile indicano in realtà che non si può parlare di un significativo incremento della quantità dei reati; è però vero che emerge - assecondando i complessi mutamenti della società - una trasformazione qualitativa dei fenomeni criminali Più precisamente, si deve registrare un aumento dei reati commessi con violenza. c’è nei comportamenti trasgressivi o criminali dei ragazzi un ricorso alla violenza che rivela un preoccupante modello culturale. Essi non sanno più assumere come valore fondante il rispetto della persona.

La crescita dì tensioni e pulsioni indotte dallo stesso stile di vita della nostra società, da una cultura dell’immagine e dell’apparire, dall’addensarsi dei messaggi negativi che giungono ai giovani minorenni dalla quotidianità del mondo adulto, alimenta comportamenti nei quali registriamo troppo spesso la gratuità della violenza. Nella realtà sempre più deprivata culturalmente che ne è il retroterra, questi reati giungono addirittura a configurarsi come produttori di significato e identità.

È opportuno inoltre sottolineare che nel nostro vissuto quotidiano c’è un abbassamento della soglia dell’illecito: sia i ragazzi che la stessa società adulta tendono cioè a percepire come meno gravi rispetto al passato le violazioni di certe norme. La soglia della legalità, viene diversamente interpretata nel caso di minori immigrati; i loro sono, in genere, reati che chiamerei di sopravvivenza, con larga prevalenza di quelli contro il patrimonio rispetto a quelli contro la persona. In altre parole, non si può dire che i giovani immigrati abbiano maggiore pericolosità sociale dei loro coetanei italiani. C’è però, nei loro confronti - considerandone anche la maggiore sovraesposizione mediatica - una diversa risposta ambientale con un minore grado di tolleranza dell’illecito.

È un quadro - come si vede - la cui complessità sfida la nostra capacità di produrre un adeguato sforzo culturale collettivo per elaborare proposte consapevoli e coerenti, innanzitutto sul piano educativo. La risposta più radicale e lungimirante alle dinamiche che favoriscono condotte devianti o criminose è affidata infatti a una cultura della legalità quasi tutta da costruire, con l’apporto attivo della famiglia, della scuola e delle altre agenzie educative.

Per un adolescente riconoscere ed accettare un mondo di regole è sempre un percorso difficile e faticoso, tanto più se non riusciamo a proporre mediazioni simboliche credibili e coinvolgenti, modelli positivi e motivazioni appaganti: un tessuto culturale circostante che sappia solo suggerire slogan banalizzanti e miti di appariscenza sociale, non può certo essere di stimolo ad atteggiamenti di comprensione e condivisione delle regole.

 

Una cultura della legalità - come lei sottolinea - non può prescindere dalla scuola e dalla famiglia: anch’esse però vivono un passaggio assai problematico. Come uscirne?

Una scuola disattenta- e talvolta purtroppo lo è- che si limitasse alla indifferente omologazione a superficiali norme di comportamento, incapace di farsi carico del malessere degli adolescenti. della loro solitudine esistenziale, non assolverebbe alla sua funzione primaria. Certo si tratta di impegni non facili per un’istituzione che sconta considerevoli carenze e difficoltà, la più grave delle quali è probabilmente proprio la latitanza della famiglia (che peraltro si articola oggi in una pluralità di modelli) rispetto ai propri compiti educativi. Le famiglie che eludono o comunque riducono le proprie responsabilità, scaricandole sulla scuola - ridotta a parcheggio dei figli- sono i primi nemici della scuola E un modo evidentemente sbagliato di intendere il ruolo educativo sia della famiglia che della scuola, entrambe danneggiate da questa sorta di reciproca delega impropria.

Non possiamo non dire, quindi, che nella società nel suo complesso c’è un deficit di tensione all’educazione dei propri figli, laddove per corrispondere positivamente al proprio mandato sociale, la scuola esige non solo una capacità educativa forte e autorevole da parte di chi ne gestisce i percorsi conoscitivi, ma anche collaborazione con la famiglia e con tutte le altre agenzie formative.

Si rischia allora di assegnare alla scuola, in un gioco a sua volta deresponsabilizzante, più colpe di quante realmente ne abbia. se la società è volgare e violenta non possiamo aspettarci che dalla scuola escano ragazzini angelificati; né possiamo stupirci se in essa i ragazzi esprimono comportamenti che vanno dal bullismo alla violenza. Infine non possiamo nemmeno lamentarci degli effetti disorientanti della contraddizione che i nostri ragazzi vivono tra un comportamento di conformità alla regola che viene loro insegnata e imposta dal corpo scolastico e una società dei furbi quale emerge dal loro contesto di vita.

Se si vuole intervenire con efficacia, la scuola e le altre istituzioni devono saper essere vigili nel cogliere, nelle loro manifestazioni non meno che nelle cause, le situazioni di disagio. per accostare la fermentante complessità del mondo giovanile occorre garantire ai mutamenti sociali un monitoraggio costante e serio, e non intervallato e pendolarmente oscillante come adesso accade nel nostro Paese.

 

Dal suo osservatorio registra fra i giovani forme nuove di devianza femminile, tali da far pensare a cambiamenti nelle declinazioni dell’identità di genere?

Non c’è dubbio che ragazzi e ragazze sono molto omologati nei comportamenti. certamente accade che oggi anche le ragazze commettano reati che un tempo si pensava, almeno nel nostro immaginario, potessero essere commessi solo da ragazzi. Non c’è da stupirsene; sono dinamiche frutto dei mutamenti che hanno investito la nostra società nei suoi strati culturali più profondi.

L’emancipazione significa anche questo. la diversità di genere non condiziona più la commissione del delitto. Dal punto di vista statistico va però detto che le ragazze sono ancora in condizione di inferiorità rispetto ai maschi delinquenti. ma c’è da temere che colmeranno questo divario.

 

Il Dpr 448 del 1988 è un muro maestro della giustizia per i minori e una importante conquista della cultura civile del nostro Paese; lei, che vi ha contribuito in un ruolo di primo piano, quale bilancio ne propone oggi?

Il Dpr 448 - che culturalmente si ispira al valore prevalente che nella giustizia per i minori il momento educativo deve avere su quello punitivo pur in un’ottica di responsabilizzazione dell’autore di reato- si può senz’altro considerare una buona legge. Il fatto che la Corte Costituzionale nulla abbia eccepito nel merito conforta autorevolmente la mia valutazione. In breve, è una legge che complessivamente ha funzionato. L’irrilevanza del fatto e la messa alla prova- i principi, cioè, che possono evitare al minore la condanna e l’applicazione della pena, in un’ottica di continuità dei processi educativi in atto e con lo scopo di una restituzione al sociale- hanno prodotto risultati positivi. Il fatto che sia una buona legge non significa ovviamente che la si debba considerare intangibile, che non possa essere ragionevolmente modificata. il problema è se gli eventuali mutamenti siano tali da far perdere il senso di direzione della legge stessa.

Non c’è dubbio che ad alcuni dei meccanismi che ne regolano il funzionamento si possono apportare dei miglioramenti, dando piena attuazione a principi che rispondono alle esigenze di soggetti in crescita e alle loro prospettive di maturazione. Altro sarebbe invece se- magari per accontentare una opinione pubblica particolarmente allarmata- si intervenisse, ad esempio, in senso fortemente limitativo su un cardine come la messa alla prova, che rappresenta un passaggio decisivo verso la responsabilizzazione del minore, chiamato a decidere se accettare la prova, a contribuire alla formulazione del progetto e mantenere fede al patto assunto. A fronte dei problemi e delle difficoltà che sperimentiamo, non si tratta di escludere dalla messa alla prova certi gravi reati ma, semmai, di rendere più serio e credibile il suo percorso, non facendo mancare a questo istituto i necessari sostegni sociali e istituzionali.

 

Qual è in questo momento l’insidia maggiore per il Dpr 448?

Non ci si può nascondere che si tratta di una legge "insidiata". Mi è però difficile dire quali rischi siano più concreti e forti. È importante che comunque non sfugga la valenza culturale delle tesi che si fronteggiano. leggi come questa - e, qualora fossero accolte, le loro più o meno radicali modifiche - si inquadrano in prospettive culturali di cui è necessario avere la massima consapevolezza.

Guardiamo a certi gravi delitti consumati da giovani in gruppo: un primo elemento di riflessione è che la stampa e la televisione ce li riconsegnano sotto titoli a nove colonne, dove troneggiano espressioni come il branco. Parlare di ragazzi- per quanto sia terribile ciò che hanno fatto- come di un il branco, cosa dice della nostra cultura? Ancora. quale la reazione di fronte a questi fatti?

È fin troppo diffuso l’atteggiamento di chi conclude. Accertato che i ragazzi imputati sono responsabili, mettiamoli in carcere gettando via la chiave.

Ma la valutazione del livello di compromissione di ciascuno di essi; l’assenza di forme effettive di prevenzione; il fatto che si tratti di disadattati bisognosi di cura dei quali mai nessuno si è occupato; la realtà di un contesto in cui tutti sembrano essere stati ciechi. tutto ciò si ritiene preferibile metterlo da parte e non prenderlo in considerazione. Noi ci auto assolviamo chiudendo le porte del carcere dietro le spalle dei ragazzi colpevoli. A chi azzarda, poi, la tesi che il loro vissuto è sempre mediato dall’interazione socio-culturale e la società non manca quindi di responsabilità - quanto meno di corresponsabilità - non si risparmia l’accusa di giustificare e assolvere questi giovani divenendone quindi correi. È a tutto questo che penso quando parlo di prospettive culturali in gioco.

 

Un tema assai dibattuto è quello dell’età imputabile che a parere dello stesso Esecutivo sarebbe abbassabile sotto l’attuale limite di 14 anni. Qual è la sua posizione?

Nell’affrontare il tema dell’età imputabile- sollevato nel clima di forte allarme sociale di questi ultimi anni- si rischia di essere fuorviati dall’osservazione dell’abbassamento della soglia d’ingresso nell’adolescenza. Il fatto, però, che si entri anagraficamente prima nella fase adolescenziale, e che una serie di reati vengano commessi più precocemente, non significa che ci sia un corrispondente processo di maturazione. Inoltre, se è vero che si entra prima nell’adolescenza, non è meno vero che se ne fuoriesce più tardi: c’è infatti un protrarsi dell’età adolescenziale e, di conseguenza, dei comportamenti che la caratterizzano con i relativi tratti di irresponsabilità.

L’età, in fondo, si può considerare un dato convenzionale: il problema reale è capire quando il singolo soggetto, caso per caso, a prescindere dall’età anagrafica, è veramente maturo per essere considerato colpevole e rispondere penalmente delle sue azioni. A seguire i sostenitori dell’abbassamento dell’età imputabile, con la motivazione della maggiore precocità, si rischia una spirale che finirebbe col consegnarci condannati e detenuti bambini.

 

Il carcere minorile può essere ancora considerato uno strumento efficace che sarebbe velleitario pensare di abolire?

In una società come la nostra non ritengo esistano le condizioni per rinunciare ad uno strumento come l’Istituto penale minorile, tenendo conto ovviamente della specificità dei compiti che la legge gli assegna sul piano della educazione e dell’accompagnamento del minore verso la consapevolezza rispetto al reato compiuto. In questo spirito, che ne impronta in modo assolutamente vincolante la struttura e le attività, l’Istituto Penale Minorile ancora oggi ha un suo ruolo da svolgere. Mi pare invece presentare gravi controindicazioni la proposta di spostamento nel carcere degli adulti già al 18° anno - e non più al 21° come avviene oggi - dei minori condannati; questa ipotesi potrebbe esser presa in considerazione solo se ci fossero degli istituti intermedi nei quali far proseguire ai giovani adulti i percorsi educativi in atto.

Credo sia tempo, comunque, di avviare una seria riflessione sul modo in cui è stato utilizzato il carcere minorile. Bisogna riconoscere che può esserci stata una sorta di permissivismo rieducativo, che ha appannato la piena valorizzazione di tutte le potenzialità proprie di questo strumento che deve sempre coniugare rieducazione e responsabilità. Il problema è, quindi, il buon uso dei mezzi esistenti, per dare alla specificità della storia e del vissuto di ciascun soggetto risposte educative significanti, realmente in grado di promuovere maturazione psicologica, relazionale, sociale in vista di un rapido e responsabile reinserimento.

L’attenzione migliorativa non va distolta nemmeno dalle misure alternative all’istituto - permanenza in casa e affidamento in comunità - delle quali, peraltro, i minorenni stranieri già in partenza hanno meno opportunità di fruire rispetto ai ragazzi italiani, privi come sono in genere delle necessarie condizioni familiari, sociali, territoriali. Anche di queste misure si devono saper cogliere, in un’ottica migliorativa, gli aspetti che possono render meno problematica l’effettiva realizzazione delle loro finalità. perché, per esempio, la permanenza in casa" che per un ragazzo è già particolarmente afflittiva, impoverendone la necessaria vita relazionale - vada a buon fine, occorre un contesto familiare adeguato agli scopi educativi che sono il perno del provvedimento.

Una condizione che nella realtà dei casi che si affrontano, però, può - come ho già sottolineato - non esser facile trovare.

 

Come avviene la presa in carico di rei minori affetti da disturbi della personalità o da gravi patologie psichiche?

Nessun dubbio che i minori con questi profili patologici non devono stare se non in centri specializzati. Senza arrivare ai casi di delitti che hanno profondamente impressionato l’opinione pubblica, aventi come protagonisti ragazzi riconosciuti incapaci di intendere e volere, si deve rilevare che anche tra minori che commettono reati meno gravi, un numero crescente presenta patologie psichiche. I ragazzi che ne sono afflitti, sia pure in forma lieve, devono essere ospitati in strutture specialistiche che siano accoglienti e al tempo stesso contenitive e di cura. Questa articolazione manca nel nostro slabbratissimo sistema socio-assistenziale. Ne derivano seri problemi che reclamano scelte urgenti e coerenti.

 

Dal punto di vista del Tribunale dei minori, quali i problemi legati alla legge Bossi-Fini sull’immigrazione?

La questione che mi pare porsi con maggiore urgenza è quella dei minori non accompagnati, su cui è in corso da parte dei Tribunali una riflessione su cosa fare. Perché da un lato dobbiamo coniugare attenzione ed accoglienza a giovani e ragazzi stranieri soli che vivono nel nostro territorio; dall’altro dobbiamo tener conto anche degli orientamenti del Comitato nazionale per i minori stranieri non accompagnati che ha una propensione al rimpatrio - sia pure assistito - anche in condizioni di non sicurezza di questi ragazzi nel loro Paese di provenienza.

Per evitare malintesi desidero subito aggiungere che non condivido un orientamento di questo tipo. Il rimpatrio assistito - che dovrebbe fondarsi sulla valutazione del superiore interesse del minore e sul rispetto del suo diritto alla protezione - implica che venga affidato, dopo le indagini del caso, ad adulti responsabili che se ne prendano cura.

In assenza di queste condizioni, noi giudici minorili in quanto tutori del pregiudizio del minore, abbiamo il dovere di accoglierlo e garantirgli assistenza nel nostro Paese: malgrado anche le convenzioni internazionali confortino simile atteggiamento, questa è attualmente una posizione difficile da far valere.

 

Forse relativamente importante dal punto di vista quantitativo, il problema dei Rom è sempre un test culturalmente significativo: quali i suoi riscontri?

In questo specifico ambito della realtà italiana viene affiorando qualche aspetto nuovo. Non c’è più come in passato un mondo infantile e – soprattutto – di ragazze dedite al furto, in strada o negli appartamenti: questi fenomeni persistono, ma non più così rilevanti come in passato. Ci imbattiamo in altre forme di espressione del disagio e della difficoltà esistenziale dei Rom a vivere nella nostra società. Si cominciano a rilevare casi di prostituzione e forse anche di droga: è un discorso, però, da affrontare con molta cautela e per il quale occorrerebbero indicatori precisi. In un contesto sociale che ha conosciuto profondi cambiamenti, non deve stupire se anche i Rom, benché dotati di un loro specifico retroterra culturale, ne sono investiti.

Lasciando da parte il problema dei reati commessi, si può dire che nei loro confronti si è molto severi e rigorosi nell’applicazione dell’articolo 3. I sull’immigrazione, partendo dal principio che il ricongiungimento familiare non deve essere una furbizia degli adulti, tanto più se a danno dei minori. Deve quindi essere effettivamente dimostrato che i minori hanno il diritto di restare sul nostro territorio e che i genitori devono ricongiungersi con essi: è questo l’orientamento al quale ci siamo ispirati per la dignità propria di un provvedimento giurisdizionale.

 

Lei ha riservato espressioni alquanto pungenti a quanti continuando a parlare senza alcuna concretezza di prevenzione. la riducono a formula vuota e inflazionata. È sempre di quest’avviso?

La parola prevenzione è stata da sempre la foglia di fico, di chi non è capace di costruire l’utopia di progettare un mondo più vivibile. Per dare significato alla parola prevenzione è necessario partire sempre dalla comprensione delle situazioni di disagio e dei bisogni reali. in modo da intervenire prima che se ne manifestino gli effetti negativi.

Quanto al modo in cui concretizzare una tale prospettiva, non credo agli interventi assistenzialistici, dall’alto. Occorre ricercare piuttosto forme di partecipazione dei cittadini alla costruzione di un sistema di prevenzione. Ho sempre pensato che non è decisivo avere sul territorio una molteplicità di servizi sociali con tante competenze parcellizzate: è assai più importante una cabina di regia dotata di cervello, cioè la presenza di enti pubblici che dispongono di poteri politici, in grado di monitorare e capire come cambia il sistema dei bisogni in una società complessa come è quella in cui viviamo.

Si creerebbero in tal modo più adeguate condizioni per passare dalla distribuzione di generici e spesso inefficaci aiuti alla persona o alla famiglia, ad una politica di servizi flessibili sul territorio; questa. schematicamente. mi sembra una via plausibile per costruire politiche di intervento sui bisogni reali, per prevenire le situazioni di disagio con i loro costi individuali e sociali.

Non ci si può nascondere la complessità di simili procedure e la quantità di tempo necessario per raggiungere dei risultati che è impensabile possano arrivare subito, ma se continuiamo ad assecondare i tempi che nella nostra realtà sono dettati sempre più dalle esigenze dell’apparire. ci mancherà il respiro della lungimiranza. Non ci sono scorciatoie miracolistiche per realizzare trasformazioni virtuose. Occorre essere così credibili da poter chiedere ai cittadini la pazienza dell’attesa e la fatica della partecipazione.

 

Ci sono domande fondamentali alle quali i cittadini non possono sottrarsi. qual è la qualità della vita alla quale aspiriamo, come pensiamo che si possa far vivere meglio i nostri figli. Che capacità di virtù sociale abbiamo o intendiamo sviluppare?

Certo che se tutto - finanche la guerra - si riduce ad immagine, più o meno patinata, allora per costruire una ipotesi di prevenzione basta creare un call center e dire che un telefono è prevenzione. è di ben altro che abbiamo evidentemente bisogno.

 

L’approccio ai problemi penali minorili con lo strumento della mediazione tra reo e vittima. Si rivela anche in Italia una delle vie di più vantaggiosa percorribilità: qual è la sua opinione?

Premesso di non avere particolare fiducia nei sistemi conciliativi in generale sono stata invece una fautrice della sperimentazione della mediazione penale. Non la considero dunque sinonimo di conciliazione. La mediazione mi pare invece un esperimento interessante perche attiva un quadro relazionale nel quale il ragazzo colpevole e spesso anche il ragazzo vittima si trovano a misurarsi con una assunzione di piena consapevolezza delle responsabilità di quanto accaduto, della ferita che è un’esigenza profonda sanare e cicatrizzare, in un confronto che si svolge lungo un cammino fortemente rieducativo e formativo. Sono sempre più convinta che una regolamentazione troppo rigida della mediazione e in particolare il suo inserimento obbligatorio nel contesto della normativa penale, farebbe perdere a questa esperienza la sua attuale forza.

In ambiti come ad esempio quello francese, le modalità di mediazione cui il giudice può ricorrere in sede penale. Mi paiono piuttosto un fatto di conciliazione deflattiva che non una modalità di mediazione nel senso che ho prima delineato - e che mi trova maggiormente consonante - la cui originalità è di tipo culturale.

Agli amici impegnati su questo terreno - ai quali non è mai mancata la mia disponibilità - continuo a suggerire che la strada da percorrere è quella della maggiore laicizzazione possibile della pratica della mediazione, fuori da istituzionalizzazioni irrigidenti e non omologandola ad un registro conciliativo che rientra in altra prospettiva e finalità.

Anche se una più generale forma di mediazione dei conflitti dovesse prevalere sugli aspetti propri della mediazione penale, trovando spazi d’applicazione nella scuola o nel quartiere, nei servizi sociali che si occupano non di devianti ma di ragazzi disadattati, nelle altre più diverse articolazioni della vita sociale, i caratteri di estremo rigore e di terzietà assoluta della mediazione hanno una valenza così fortemente formativa che ne fanno una risorsa comunque da salvaguardare.

Nel contesto milanese mi pare che l’esperienza di mediazione penale abbia prodotto buoni frutti. ora ci accingiamo a fare altri tre anni di sperimenta zio ne e ci si augura naturalmente siano altrettanto fruttuosi.

 

L’orientamento dell’attuale Esecutivo sui problemi penali minorili parrebbe di difesa intransigente delle vittime, delle ragioni di Abele, passando dal non toccate Caino allo speculare non toccate Abele...

Non c’è dubbio che l’attenzione alle vittime sia un dovere imprescindibile di ogni legislazione. Se si dovesse dire che vengono neglette le vittime quando si affrontano con atteggiamenti positivi, capaci di schiudere prospettive progettuali responsabilizzanti, i casi di ragazzi che hanno commesso delitti, questo sarebbe sbagliato. E ineludibile la necessità di farsi pienamente carico dei difficili problemi vittimologici, di produrre buone leggi per aiutare le vittime di reati e garantirne il rispetto delle istanze, ma ricordiamoci che il nostro compito non è certo quello di trasformarci tutti in giustizieri.

 

 

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