Idee Libere n° 10

 

Idee Libere

Periodico della Casa di Reclusione Ranza di San Gimignano

Anno III - numero 10,  aprile - maggio 2004

 

Aids problema irrisolto

La regione toscana per il diritto alla salute dei detenuti

Isolamento diurno

"Immagini"

Le fondazioni e i bisogni delle comunità

A ciascuno il suo Miglio verde

Un pittore in carcere

L’incontro

Una breccia sostanziale

Quando le streghe… volano di notte

Siamo tutti uomini

Geova e la libertà

Un grido per la pace

Guerra e terrorismo: i peggiori mali della società

"War games"

Aids problema irrisolto

 

di Erzen Kasa

Leggendo l’ultima edizione del periodico "Idee Libere", la mia attenzione è stata catturata dal alcuni articoli che con grande chiarezza fotografavano un problema che dilaga a macchia d’olio, anche tra le mura carcerarie: cioè il problema della salute e soprattutto l’AIDS.

Non voglio dilungarmi sulla questione in merito, poiché è già stato fatto in modo egregio da alcuni redattori, però vorrei solamente evidenziare che le problematiche della AIDS hanno, secondo il mio modesto parere, altre facciate.

Tralasciando il fatto che da anni questa problematica, anche se riconosciuta incompatibile con il carcere, è stata arenata in qualche "stanza" del Parlamento, è assodato che di per sé la detenzione assume tutte le forme di una grave patologia. Se poi alla detta patologia sommiamo le ulteriori sofferenze che partorisce la malattia in oggetto, dovremmo essere tutti d’accordo che "vivere" a quel modo è quasi impossibile.

Ma oltre questo, uno degli aspetti più sgraditi di questa realtà è la convivenza con gli altri, soprattutto all’interno di un istituto detentivo.

Nel corso della mia detenzione, ho avuto modo di conoscere persone affette da questa malattia, ed ho notato, che ciascuno ha un modo diverso di viverla e di farla conoscere agli altri, spesso, supportati dall’ignoranza, la maggior parte dei detenuti, ha un impulso di rigetto; ma non della persona in questione ma della patologia che ci impaurisce. Tutto questo è limitato se col "malato" hai una convivenza latente, nel senso che hai modo di dialogare e confrontarti con lui in luoghi o spazi socializzanti. Al contrario il problema diviene rilevante da ambo le parti quando si diviene compagni di "cella".

A questo punto si tenderà entrambi all’isolamento, per una serie infinita di circostanze, tutte senza dubbio giustificabili e condivisibili.

Quindi, dovendo entrambi purtroppo, scontare una condanna e considerando disumano e indegno isolare queste persone in appositi reparti, secondo me una delle soluzioni possibili potrebbe essere quella di divulgare tramite appositi seminari, condotti da persone competenti, tutte le informazioni e le testimonianze utili, indispensabili, per abbattere le barriere di pregiudizi e paure che si sono formate.

Concludendo, voglio dire che è davvero doloroso vedere queste persone che, oltre alla privazione della libertà, devono convivere con questa loro grave malattia. Isolarli o abbandonarli è un grave reato contro la loro persona. (sommario)

 

 

La regione toscana per il diritto alla salute dei detenuti

 

di Enrico Rossi

Assessore per il diritto alla salute della Regione Toscana

"Stare in gabbia è, per ogni animale vivente, terribile. Più terribile quando, come la maggioranza dei ragazzi che riempiono le carceri di oggi, abbiate due o quattro tipi di epatite, o siate hiv-positivi, oppure, come molti fra gli anziani, siate diabetici e cardiopatici, o invalidi o handicappati. Quando vediate ogni giorno teste sbattute nei muri, ferraglia ingoiata, per paura, per un’offesa, per anestetizzarsi, o chissà perché… Così si sta in galera, sovraffollamento o no. E tutt’al più si sta come chi è buttato via, a giacere, inebetiti, spoliati, snervati.

I detenuti stanno sull’orlo di un burrone: e siccome non c’è una finestra senza sbarre dalla quale buttarsi giù, tanti s’impiccano a pochi centimetri dal suolo". Questo scriveva, in occasione della protesta che nel settembre 2002 coinvolse tutte le carceri italiane, un testimone sofferto e autorevole della vita carceraria come Adriano Sofri.

Da allora, purtroppo, la cose non sono cambiate. La situazione sanitaria delle carceri italiane è disastrosa. Sia per il sovraffollamento che per la carenza dei servizi, il diritto dei detenuti alla salute è sceso a livelli inimmaginabili, forse nemmeno conosciuti completamente. 57.000 detenuti vivono in spazi detentivi così angusti e in stato di promiscuità, che è praticamente impossibile garantire quel diritto alla salute che deve essere uguale per tutti, liberi e incarcerati.

Con la legge 230/99 di ‘riordino della medicina penitenziaria’, che sancisce il principio fondamentale della parità di trattamento, in tema di assistenza sanitaria, tra cittadini liberi e individui detenuti, le competenze nei settori della prevenzione e dell’assistenza ai detenuti tossicodipendenti sono passate alle Regioni; le quali hanno ereditato però una sanità penitenziaria da riorganizzare e risanare dalle radici. Le Regioni sono davanti al fallimento di un intero sistema, e da qui devono ripartire.

La legge 230/99 di fatto non è stata applicata per la sostanziale inerzia del governo che, palesemente ostile a ogni cambiamento, l’ha progressivamente svuotata di contenuti e ha tagliato le risorse per le carceri.

In questo modo si è persa l’occasione per mettere in atto una riforma annunciata, ma mai realmente applicata.

In Toscana non siamo stati a guardare. Siamo una delle poche Regioni che stanno cercando di fare concretamente qualcosa per dare risposte al diritto dei detenuti di vedere tutelata la loro salute. Intanto, siamo l’unica Regione a essersi impegnata per la definizione di una legge che regoli la tutela della salute dei detenuti e garantisca loro le stesse prestazioni sanitarie assicurate ai cittadini liberi. La legge sta seguendo il suo iter: entro tre mesi dalla sua approvazione, Regione e Prap (Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria) formuleranno un protocollo d’intesa per individuare i reciproci impegni e le procedure di collaborazione.

Siamo stati i primi (altre Regioni hanno poi seguito il nostro esempio) a mettere a disposizione delle strutture penitenziarie i farmaci del servizio sanitario pubblico: nel maggio e nell’ottobre del 2003 tra Regione e Prap sono stati firmati due protocolli, uno per i detenuti adulti, l’altro per i minori.

Facciamo interventi di medicina preventiva e specialistica nei servizi penitenziari minorili (malattie infettive e parassitarie, problemi odontoiatrici, prestazioni specialistiche con carattere di urgenza), con un finanziamento annuo pari a 100 milioni di vecchie lire. Ancora, stiamo lavorando alla realizzazione di ‘repartini’ nelle nostre strutture ospedaliere, destinati esclusivamente ai detenuti, per evitare quella commistione che finora ha determinato gravi disagi e dispendio di energie. Si lavora anche sul fronte dell’informatizzazione delle strutture sanitarie, in modo da avere una cartella clinica per ogni detenuto.

Per quanto riguarda l’assistenza ai tossicodipendenti, siamo rimasti a lungo in attesa del trasferimento di personale e risorse.

Ora il trasferimento è avvenuto, ma resta ancora da definire il problema dell’inquadramento giuridico ed economico del personale. Come Regione Toscana abbiamo anche avanzato una proposta di inquadramento giuridico, che per il momento non è stata recepita.

Su nostra istanza, è stato avviato un tavolo tecnico con tutte le Regioni: nei numerosi incontri già avvenuti, oltre ad affrontare la questione dell’inquadramento giuridico del personale, abbiamo chiesto conto al governo dei risultati della sperimentazione su tutta la materia sanitaria in carcere, sperimentazione alla quale la Regione Toscana ha partecipato, assieme a Lazio e Puglia.

Sappiamo bene che resta ancora tanto da fare, ma, senza presunzione, siamo anche consapevoli che stiamo facendo tutto quanto è in nostro potere per garantire ai detenuti, in fatto di salute, le stesse opportunità e gli stessi diritti che hanno i cittadini liberi. (sommario)

 

 

Isolamento diurno

 

Di Santi Pullarà

Chi non ha esperienza diretta con l’ambiente carcerario raramente, ha cognizione di quali sono le regole e le consuetudini che disciplinano la vita dei detenuti.

Tra queste, una sembra propriamente fatta per rendere più efficace la sofferenza a chi, per ragioni giudiziarie, è stata già sottratta la libertà: l’isolamento.

Questo provvedimento ha la funzione d’escludere dal contesto sociale intramurario a chi, per motivi diversi, si vede applicata questa misura. L’isolamento può essere di diversa natura; quello giudiziario è una sorta di quarantena applicata a buona parte di chi è tratto in arresto e vi rimane sino all’interrogatorio del Magistrato.

Poi c’è quello disciplinare, che è una misura interna degli istituti ed è applicata per ragioni d’ordine. Infine c’è l’isolamento diurno, che è una pena accessoria, cioè è comminata dal Magistrato giudicante in conseguenza ad una condanna all’ergastolo.

Considerata l’entità della pena, tale provvedimento, trasforma un atto di giustizia in un accanimento cinico e irrazionale.

Spesso questa forma d’isolamento diventa esecutiva dopo anni dalla pronuncia definitiva della Suprema Corte di Cassazione, proprio quando chi espia una condanna così gravosa tenta di trarre stimoli dalle opportunità culturali, lavorative o hobbistiche, che una Casa di Reclusione può offrire. Quel che più scandalizza, e che l’isolamento diurno è retaggio del codice Rocco, quindi una misura fascista che i benpensanti, pronti a denunziare violenze a cani e gatti e ad indignarsi per ogni inerzia, tacciono davanti una così palese violazione dei diritti umani calpestati da una norma che appare disumana e anacronistica. Quindi, a mio avviso, è legittimo dichiarare l’isolamento diurno, nei punti dove l’art. 27 della nostra Costituzione stabilisce la pena restrittiva, una misura che mira alla riabilitazione e non alla repressione, incostituzionale. (sommario)

 

 

"Immagini"

 

di Enzo Falorni

Lo diciamo e scriviamo spesso: l’importante è saper guardare con nuovi sguardi ciò che ci circonda

Il mondo della natura che ci circonda deve essere scoperto con la capacità di "vedere oltre", come un valore positivo da contrapporre all’isolamento. Oltre l’evidenza, l’apparenza, il facile e il consueto. Desiderio di colline, vigne, colori, trame sottili, disegni, odori, silenzi.

Quale misterioso orologio biologico risveglia in noi tanto desiderio di natura? Emozioni preziose – affermo – perché ci introducono al mistero. Al meraviglioso mondo dei dettagli. Dettagli terapeutici come scriveva Empedocle: "Non c’è morte nelle cose mortali, né fine nelle morti più rovinose. Ci sono mescolamento e scambio di parti, ed è questo che chiamiamo natura". Io trovo tutto questo molto rassicurante, perché solo la profonda emozionante bellezza della natura è capace di cancellare l’incomprensibile assurda, cattiveria umana. Ma c’è un motivo più profondo: l’immagine è privata della sua forza dal modo in cui viene utilizzata, dal luogo in cui viene vista e dalla frequenza con cui appare. Ecco perché le immagini che vediamo sui Media sono prevedibili. Svuotando i contenuti contribuiscono in larga misura a smorzare le emozioni; anche perché finisce per abbellire ogni mostruosità, fosse anche un massacro inguardabile. Il discorso vale anche per le vicende umane. Diverso, mi pare, quanto verte sulle "cose" della natura. Le emozioni di essa che ciascuno di noi può trarre guardando la rugiada su un petalo, i segni imperscrutabili delle venature di una pietra, i geroglifici del ghiaccio, le quinte di un bosco autunnale, i nodi di un tronco, le luci e le ombre della neve, sono immense.

Dobbiamo trovare segni, indizi, nel mondo naturale, capaci di trasmetterci una curiosità, un’emozione, forse addirittura una spiegazione. Una ricerca alla scoperta delle meraviglie del mondo. "Chi è estraneo all’emozione, chi non è più capace di provare meraviglia e reverenziale timore è morto: i suoi occhi sono chiusi" (Albert Einstein).

Per il fatto di essere umani pensiamo di essere al di sopra della natura. Cogliamo, almeno di tanto in tanto, la contraddizione della nostra umanità.

È un augurio che mi faccio e vi faccio. (sommario)

 

 

Le fondazioni e i bisogni delle comunità

Finanziare i progetti migliori e quelli in favore dei più deboli, ma anche un modo per fare politica come "servizio": questo l’arduo compito degli amministratori

 

di Gabriello Mancini

Vice Presidente Fondazione Monte dei Paschi di Siena

Nel numero di ottobre - novembre 2003 di "Idee Libere" il Presidente della Fondazione Monte Paschi Siena, avvocato Giuseppe Mussari, ha perfettamente illustrato le caratteristiche e le finalità della Fondazione stessa, rimarcando anche il metodo di lavoro e le regole che ci siamo dati per rendere sempre più trasparente e, speriamo, efficace il nostro lavoro.

Alla base di tutto c’è un filo conduttore ed una "bussola" che guidano il cammino degli amministratori: le origini della Fondazione ed il suo stretto ed inscindibile legame con il proprio territorio di riferimento.

Questo nesso fondamentale e peculiare non è stato scosso neppure al momento della nascita delle Fondazioni di origine bancaria, quando – a seguito della Legge n. 218/90 (Legge Amato) – venne sancita la separazione fra la funzione propriamente creditizia (lasciata alla Banca) e quella "non profit" (passata alla Neonata Fondazione).

La Fondazione del Monte dei Paschi e dunque un ente "non profit" con piena capacità di diritto privato statutario che, in base al proprio Statuto approvato l’8 Maggio 2001, "persegue fini di utilità sociale attraverso l’impiego di risorse derivanti dalla gestione del proprio patrimonio, a tale scopo totalmente vincolato e derivante in primo luogo dall’originario conferimento nell’azienda bancaria".

La nostra missione è quindi quella di conservare ed incrementare il patrimonio e ripartire le risorse prodotte nel territorio di riferimento, tenendo presenti i settori d’intervento previsti nello Statuto (sviluppo economico, arte e beni culturali, ricerca scientifica, sanità, istruzione, assistenza alle categorie più deboli, volontariato).

E qui torna la "bussola" cui facevo riferimento all’inizio per avere ben presenti le effettive esigenze ed i bisogni emergenti nel territorio che è principalmente Siena e la sua provincia, ma anche la Toscana (con particolare riferimento – per motivi storici- a Grosseto).

Non è facile infatti scegliere ogni anno fra i tanti progetti (oltre 1650 ammessi nel 2003) che enti locali, istituzioni, enti, associazioni di ogni tipo presentano, perché le risorse, anche se ingenti (nel 2003 sono stati erogati 120 milioni di Euro per progetti di terzi) non sono infinite ed allora occorre scegliere e dover pronunciare numerosi sì, ma anche – purtroppo – ancor più numerosi no.

Per scegliere bene occorrono conoscenze approfondite e sviluppare tutta una serie di costanti rapporti che consentano di fotografare e valutare, al meglio possibile, le reali esigenze del territorio e le ricadute in termini di benefici sociali, culturali, ma anche economici, che le erogazioni – specie quelle più rilevanti – possono provocare.

Tutto questo attiva contatti interpersonali che indubbiamente arricchiscono e consentono a chi – come il sottoscritto – è impegnato politicamente da tanti anni, di essere in continuo contatto con la gente, di captarne gli umori, di conoscerne i desideri e le ragioni.

Questa continua vicinanza con il mondo che ci circonda è, a mio parere, il modo migliore di fare politica con vero spirito di servizio e di disinteresse personale. È l’applicazione politica di un forte concetto di Papa Paolo VI che definì l’impegno politico, se ben fatto, "la forma più alta di carità".

Non si contano infatti gli incontri con Sindaci e Amministratori locali per problemi delle loro comunità, (strade , palazzi, scuole, case, strutture di ricovero ecc.) oppure con i Parroci per chiese da sistemare, con il mondo accademico, delle scienze e della cultura per iniziative nel campo della ricerca, dell’arte, della sanità ecc., con rappresentanti delle benemerite associazioni di volontariato per problematiche inerenti gli anziani, gli ammalati, le categorie più deboli ed emarginate.

Tutto questo, se da un lato ti arricchisce e ti rende soddisfatto quando constati che hai contribuito a risolvere un problema o alleviato un bisogno, dall’altro ti fa sentire insoddisfatto quando non puoi dare una risposta affermativa.

Per questo abbiamo cercato di migliorare sempre più il sistema di erogazione delle risorse ed abbiamo difeso con grande determinazione l’autonomia statutaria e decisionale della Fondazione contro i recenti attacchi centralistici governativi.

Non è stata una "battaglia" ideologica o di schieramento politico, ma una strenua difesa di una autonomia che la storia e la legge ci assicuravano e che consente alla nostra Fondazione (come a tutte le altre 88 dell’intera nazione) di non recidere mai il cordone ombelicale con il proprio habitat naturale.

Ed è stato quanto mai significativo che in questa "battaglia" la Fondazione non è mai stata sola, ma ha sempre avuto il pieno e convinto sostegno di tutta la comunità senese, istituzioni in primis.
La recente sentenza della Corte Costituzionale ha dato ragione alle Fondazioni, che quindi potranno continuare ad operare autonomamente e liberamente, seguendo però sempre la rotta indicata dalle rispettive "bussole". (sommario)

 

 

A ciascuno il suo Miglio verde

Quando un film fa credere, riflettere, sperare

 

di Senio Sensi

Credo che in molti, ormai, avranno visto quel capolavoro della cinematografia moderna che è "Il miglio verde", un film di Frank Darabout del 1999 con Tom Hanks.

Mi colpì tantissimo sul grande schermo ed ho voluto rivederlo altre due volte in TV.

E’ la storia dei condannati a morte di un carcere americano ed in particolare di un uomo di colore accusato ingiustamente della uccisione di due bambine. Uomo dalla grande umanità e dalle capacità soprannaturali messe al servizio degli altri. In particolare riesce a guarire da un male atroce la moglie del direttore del carcere. Con il tempo riceve l’apprezzamento e l’affetto anche degli agenti di custodia; tutto questo non lo salva dalla sedia elettrica. Piccole/grandi storie si intrecciano in un insieme armonico, delicato e commovente.

Non so quanta responsabilità abbia avuto la visione di questo film nella mia decisione di dedicarmi al volontariato (anche se solo… giornalistico) in un carcere. Certo è che la visione così diretta e dirompente di una realtà atroce come quella dei condannati a morte (specie se innocenti) che prima del "trapasso" percorrono a piedi l’ultimo miglio (verde, dal colore del pavimento) della loro vita, mi ha fatto cambiare alcune idee sul mondo della detenzione. Sulla pena di morte avevo da sempre maturato la mia contrarietà anche se di fronte a certi inumani delitti talvolta, sbagliando, tale convinzione rischia di venire meno.

Il film, in fondo, è una fiaba abbastanza moderna. Con la differenza che le fiabe, in genere, hanno un lieto fine mentre "Il miglio verde" si conclude perpetrando fino alle estreme conseguenze una grande ingiustizia. Ma all’interno della trama è il bene che sconfigge – quasi sempre - il male, sono i buoni sentimenti che fanno compiere agli uomini gesti positivi anche se disperati e pericolosi. Vince comunque la fiducia nell’uomo, nel suo riscatto morale, nel bene primario che è la solidarietà.

C’è poi un contatto scioccante con la vita del carcere ricca di violenza e di potere esercitato in maniera ossessiva e arrogante. Vorremmo pensare che tutto questo avveniva solo molto tempo fa e in luoghi di pena lontani da noi, come nel film, ma di questo non siamo del tutto sicuri.

Su una cosa abbiamo certezze: in molte parti del mondo la pena di morte è scomparsa ma ancora troppi sono i paesi cosiddetti civili dove non è stato sottratto dalle mani degli uomini il potere più distruttivo ed ingiusto: quello di dare la morte ai propri simili.

Né meno rosee sono le previsioni sulla sconfitta delle altre ingiustizie: nel carcere come nei tribunali, nelle scuole, nel lavoro di tutti i giorni, nella discriminazione tra persone di sesso, colore della pelle e religione diverse. Talvolta sembra che il male annulli il bene, che non possa esistere la speranza per un mondo più equo e solidale. Allora ben vengano film, libri, documentari e conferenze per rilanciare i valori positivi dell’uomo.

E poi un’ultima considerazione sul film e sulla vita di ognuno. Non dobbiamo dimenticare che per tutti c’è …l’ultimo miglio verde che ci aspetta. L’ultimo tragitto della nostra vita, che non sappiamo quando e come inizierà. Talvolta scacciamo questo pensiero e ci comportiamo come se la nostra vita non dovesse avere mai fine. Di invincibile ed eterno, sulla terra, non c’è nessuno anche se non ci piace pensarlo. (sommario)

 

 

Un pittore in carcere

 

di Salvatore Giudice

Mi è stato chiesto di scrivere questo articolo; sinceramente non so dove cominciare, ma ci proverò lo stesso! Sono quasi dieci anni che mi trovo in carcere; ho trascorso buona parte della mia vita, direi della mia giovinezza. Rinchiuso, sono arrivato a 29 anni, con il cuore pieno di amarezza, di rimpianti per quello che avrei potuto fare e non ho fatto, per l’amore che avrei potuto dare e non ho dato. Nonostante il mio dolore e la sofferenza, ho trovato la speranza e la gioia di vivere, grazie all’amore per l’arte che mi ha permesso di ritrovare me stesso.

Ho iniziato a dipingere senza avere nessuna esperienza e senza avere fatto studi particolari, perciò non ho avuto maestri, ma ho avuto l’aiuto di un detenuto, anche lui pittore, che mi ha spronato ed incoraggiato a portare avanti questa "passione" che piano, piano ho coltivato, cercando di imparare la tecnica e migliorare sempre di più, leggendo anche libri d’arte. Ogni volta che finivo un quadro, mi sentivo orgoglioso di quello che avevo fatto, perché quei colori, a volte tenui e a volte forti, quelle sfumature e pennellate, i volti delle donne, ecco… là, c’era la mia dolcezza, non più disperazione, ma speranza ed amore.

Tre anni fa ho conosciuto la mia insegnante di "Trattamento Testi" Gioia Baldi, la quale è rimasta subito positivamente impressionata dai miei quadri, mi ha consigliato di far conoscere, per quanto possibile, le mie capacità anche al di fuori del carcere. Si è adoperata, nonostante le molte difficoltà incontrate, affinché potessi partecipare ad una mostra che si svolgeva a Siena nella scuola dove lei insegna.

Finalmente alla fine di maggio dell’anno 2003 sono uscito per la prima volta dal carcere e per la prima volta ho assaporato la gioia di vedere ammirati i miei quadri.

Ho avuto successo in quella occasione, perché gli studenti della scuola mi hanno fatto molte dediche e complimenti per i miei dipinti. Nel mese di novembre, poi, ho partecipato alla mostra di pittura di Siena, presso la chiesa della Madonna delle Nevi. Alla mostra che s’intitolava "Fuga dell’Immaginazione" vi erano esposti i quadri dei detenuti del carcere, e tutti molto belli. I dipinti sono stati ammirati perché la mostra è stata visitata da tante persone, che non conoscendo la realtà del carcere, sono rimaste stupite che in un luogo così cupo potesse esistere tanta sensibilità che predisponesse all’arte e alla creatività.

Comunque nel mio futuro ci sarà sempre la pittura. Auspico, a questo proposito, di poter esporre ancora, magari in una luminosa galleria d’arte dove i miei quadri insieme ad altri possono essere sottoposti a critiche di esperti e perché la critica è costruttiva ed io voglio migliorare, perché desidero con tutto il cuore che i miei quadri siano sempre i miei amici di oggi e di domani. (sommario)

 

 

L’incontro

È quello che realizziamo all’interno della redazione, ma anche quello con le istituzioni

 

di Pietro Accardi

L’esperienza che sto vivendo, da alcuni mesi, all’interno della redazione di Idee Libere, è per molti aspetti utile, esaltante e formativa. Mettere a confronto le proprie idee con quelle degli altri, riflettere sui fatti che ci riguardano come reclusi ma anche come cittadini, raccontare agli altri – che vivono dentro o fuori le carceri – le proprie esperienze, speranze e timori ci fa crescere e ci fa sentire almeno un po’ meno inutili.

Ma, come sempre, c’è il… rovescio della medaglia.

Talvolta, come accade anche ad altri, mi sono sentito accusare di scarsa volontà nel denunciare i mali che ci circondano. In sostanza, più o meno velatamente, si è accusati di eccessiva… bontà, magari per non inimicarsi coloro che hanno in mano la gestione della nostra vita. In molti consigliano di toccare, con ferocia, questo o quell’argomento, di raccontare torti – veri o presunti – subìti, e di non abbondare, invece, troppo in pazienza e speranza.

Forse è giunto il momento di fare il massimo della chiarezza: intanto da quando è stato creato il nostro giornale è stata aperta una palestra per tutti. E tutti hanno la possibilità di esprimere ciò che pensano, almeno fino a quando si mantengono nei limiti posti dalle leggi sulla stampa e dal codice. Quindi, aspettiamo collaborazioni. Inoltre bisogna convincersi che le battaglie non si vincono facendo continui "bracci di ferro", ma attraverso il dialogo e il sostegno logico alle proprie ragioni.

Talvolta, è vero, ci rendiamo conto che la burocrazia frena l’ottenimento dei nostri diritti e tutto avviene con una lentezza impressionante; eppure occorre insistere, con la forma dovuta, perché così facendo aiuteremo almeno quelli che verranno dopo di noi. Un esempio: a dicembre si è concluso il seminario di cui si parlava nel precedente numero di Idee Libere. A termine abbiamo avuto un incontro con il Direttore del Carcere, Dr. Luigi D’Onofrio, e dopo aver fatto il punto sulle modalità della iniziativa, ciascuno di noi ha espresso un giudizio su questa esperienza. Con pacatezza, con maturità e senza aggressioni. Abbiamo formulato domande e ricevuto risposte, alcune delle quali utili, per capire perché certe nostre rivendicazioni non erano ottenibili.

Si è trattato di uno di quei casi in cui, si è percepito che l’abbattimento delle barriere tra detenuti e istituzioni, è un fatto possibile.

Questa l’idea che portiamo avanti; ma offriamo lo spazio a tutti coloro che la pensano in maniera diversa da noi.

(sommario)

 

 

Una breccia sostanziale

 

di Francesco Seminerio

Con immenso piacere, da qualche tempo, tramite le notizie riportate dagli organi d’informazione nazionali e locali, sembra esserci una reale "apertura" al mondo del carcere, sembra che si sia riuscito ad aprire una breccia nel muro d’indifferenza generale. Alcuni mesi addietro è stato stipulato un accordo tra il Ministero della Giustizia e il Ministero della Cultura, ai fini di stimolare e incrementare maggiormente le attività socio-culturali all’interno dei carceri tipo: teatro, pittura, biblioteca, formazione, ecc, ecc. Forse, finalmente si è riuscito a concepire che i detenuti non sono esseri umani da "emarginare" o magari, soggetti "portatori sani di problemi", ma persone che possono e vogliono produrre tanto anche per la collettività.

Pertanto da parte nostra, siamo contenti di constatare che un’altra piccola battaglia è stata vinta, per cui ci impegneremo notevolmente a non deludere in alcun modo le aspettative.

Purtroppo come tutto del resto, l’alimentatore principale che permette la nascita e il funzionamento di una qualsiasi attività è: il "vile denaro", ed è doveroso menzionare che le autorità nazionali, ma soprattutto le autorità locali sono state molto presenti e utilissime come ad esempio: la pubblicazione del periodico Idee Libere sovvenzionata dal Monte dei Paschi di Siena, la manutenzione della redazione interna sovvenzionata dal Comune di San Gimignano nonché dalla Direzione del carcere, l’incremento dei libri della locale biblioteca , da parte del Comune di Colle Val D’Elsa, ecc, ecc. Tutto ciò oltre ad essere fondamentale per il prosieguo delle attività descritte e, un ottimo stimolatore che permette di trascorrere il troppo tempo disponibile in modo costruttivo, ma purtroppo il problema principale rimane; in quanto non si riesce a creare un canale di prosieguo lavorativo nel e dopo il periodo detentivo.

Per essere più chiaro, si potrebbe istituire uno sportello del centro per l’impiego anche all’interno della struttura detentiva, ovviamente nei tempi e nelle modalità occorrenti, in modo che noi tutti possiamo essere informati sulle modalità e sui continui cambiamenti per l’impiego.

Ma soprattutto considerando le attività socio- culturali che si svolgono all’interno dell’istituto, invito tutte le associazioni teatrali o le locali biblioteche e le redazioni dei quotidiani locali, a vagliare l’ipotesi di offrire una possibilità di lavoro a coloro che da anni credono e si adoperano per migliorare le proprie modeste capacità lavorative. Anzi, come fonti d’investimento, le cooperative bancarie potrebbero, di comune accordo con gli Organi Ministeriali preposti, finanziare qualche attività interna che si prefigga a priori un proseguo esterno.

Probabilmente questa richiesta è ripetitiva e dispendiosa, ma al mio Paese si dice: domandare è lecito, rispondere è cortesia! (sommario)

 

 

Quando le streghe… volano di notte

 

di Enzo Falorni

Le Streghe della tradizione popolare, megere dedite alla magia e ai malefici. In realtà erano povere donne emarginate, perché "diverse", vittime delle ipocrisie e delle superstizioni, talvolta depositarie di antiche tradizioni.

Con la scomparsa della civiltà contadina, con i suoi riti e le sue ancestrali conoscenze e superstizioni, quel mondo magico e misterioso sembrava doverne seguire le sorti: la razionalità figlia dei nuovi modi di vita sembrava avere una risposta a tutto. Le Streghe però sono tornate a riprendere "fiato" in quella voglia di riscoperta delle tradizioni e anche come opportunità di sviluppo turistico. A differenza del passato, almeno apparentemente, quelle di oggi non fanno più tanta paura, diventate buone e simpatiche vecchiette (o belle ragazze).

Gli ultimi roghi si sono spenti due secoli fa e la figura femminile, pur tra mille contraddizioni, ha ritrovato tutta la sua dignità. Il diverso però non è scomparso, ha solamente mutato aspetto. E se l’idea di un Sabba ci fa sorridere o ci intriga, basta provare ad andare di notte in un bosco solitario con i suoi indecifrabili rumori che rievocano paure ancestrali per scoprire che, in fondo in fondo, le Streghe continuano a incutere timore, e finché questo capiterà loro continueranno a esistere – legate al mondo del fantastico e del misterioso – un mondo popolato da esseri dagli oscuri poteri a cui ormai nessuno mostra più di crederci, ma che quando cala l’oscurità riemergono dai ricordi. In fondo nella coscienza popolare, la paura nei confronti delle Streghe non è mai morta definitivamente.

L’America con la notte di Halloween è maestra. D’altronde leggende di Streghe, Orchi, Folletti e vari, ce ne sono in ogni parte del mondo e, alcuni paesi, ne hanno fatto un uso turistico, pensiamo alla Scozia e all’Irlanda, che organizzano i "Ghost Tour" (viaggi dei fantasmi) al lago di Loch Ness col suo celebre mostro, alla fortuna dei "Paesi delle Streghe" sui Pirenei Spagnoli.

Ecco che, il modello classico di vacanza basato sulle "Tre S" (Sun, Sand & Sex) (sole, sabbia e sesso), sta perdendo di appeal anche a livello di massa. Il nuovo turista cerca qualcosa di diverso, di particolare, quel patrimonio di feste, tradizioni, gastronomia, artigianato, paesaggi agrari, musiche popolari e, leggende ovviamente comprese. Ecco affacciarsi, così, nuove forme di attività lavorative; basti pensare agli agriturismo (nascenti come funghi), che possono offrire al turista le leggende del luogo, magari rivedute e ampliate all’uopo, in base all’ognuno fantasia creativa.

Insomma il lavoro uno deve anche inventarselo. Poi, le "amiche" Streghe, hanno il diritto di inglobarsi nella globalizzazione e, a me, è venuta l’idea che (e se) quando uscirò dal carcere, provare a mettere un’agenzia di "Affitta Streghe"; qualche amica che conosco senz’altro si assocerà e ne porterà di altre perché in giro, più o meno velate, di Streghe ce ne sono tante e, forse, il motivo è che avranno ripreso a volare anche di giorno e non solo di notte.

Eh sì, il lavoro a volte bisogna inventarselo! (sommario)

 

 

Siamo tutti uomini

 

di Maurici Franco

Sistemando tutte le fotocopie che affollano la mia stanza, come quasi tutte le stanze dei detenuti "studenti", ho ritrovato una poesia di rilevante importanza storica e culturale: SE QUESTO è UN UOMO di PRIMO LEVI. Effettivamente la avevamo letta in classe dopo un minuto di silenzio in ricordo delle vittime dell’olocausto, martedì 27 gennaio 2004, come preposto da una circolare dell’istituto scolastico a cui siamo iscritti.

Durante quella giornata potrei dire che, anche informati dai "media", ci siamo sentiti colpiti da un evento catastrofico di quella portata, considerando mostruoso un genocidio provocato dalla follia umana. Ma, appunto, rileggendo quelle parole molti pensieri sono affiorati nella mia mente.

Primo tra tutti: come un essere umano possa odiare in quel modo la propria specie e costruire delle vere e proprie fabbriche della morte e, soprattutto come abbiano potuto rimanere indifferenti alla visione di donne e bambini costretti ad invocare la loro fine, sicuramente meno sofferente della qualità della vita che veniva loro " offerta".

Abbiamo diverse ricostruzione storiche sulla nascita dell’olocausto e sui motivi che indussero i nazisti e i fascisti ad intravedere negli ebrei (e non solo in essi) la "razza" da sterminare. Anche sulla morte del poeta Primo Levi esistono diverse tesi, tutte divergenti, ma un dato di fatto oggettivo è senz’altro che morirono milioni di persone e, tra queste c’era gente di varie nazionalità: italiana, francese, spagnola, tedesca…

Un altro punto che fa inorridire è che, anche se sono passati molti anni, l’antisemitismo esiste ancora; alcuni vecchi focolai sono rimasti accesi e non intendono spegnersi come l’interminabile guerra tra Israele e la Palestina.

Premesso che non ho la competenza né tanto meno la voglia di misurarmi sulle cause o sulle responsabilità di questo assurdo conflitto, continuo a chiedermi com’è possibile che nel terzo millennio, dove la comunicazione non conosce barriere, dove si invia "normalmente" satelliti nello spazio e su Marte, non si riesca a trovare una soluzione per risolvere questo conflitto che dura da decenni? Non è anormale che si costruiscano MURI per dividere due popoli, dopo aver abbattuto da tempo il muro di Berlino? (sommario)

 

 

Geova e la libertà

A proposito di pari opportunità e rispetto di tutte le religioni

 

di Antonio Cangelosi

Mi aveva incuriosito la possibilità di conoscere Dio Geovà attraverso lo Studio Biblico. Assieme ad altri detenuti ho partecipato nel passato ad alcuni incontri avvenuti in apposita sala del carcere di Ranza e lì, tra l’altro, ho potuto conoscere Marcello Orfanelli, Ministro del Culto dei Testimoni di Geovà. Si tratta di una persona che per diversi anni ha operato in qualità di volontario e che mi è stato di grande aiuto morale oltre che spirituale per il superamento di alcuni momenti cupi. L’impegno di studio ci ha fatto crescere mentalmente e psicologicamente e questo sarà di grande aiuto anche per il nostro futuro. Dal 2001 il Signor Orfanelli, causa impegni e per l’età avanzata, si è fatto sostituire nella mansione da Gianni Castaldi, anche lui Ministro di Culto, ma non ha cessato l’attività. Infatti porta avanti in altri luoghi e anche famiglia per famiglia la conoscenza della Bibbia: vero conforto per chi soffre, per chi è solo, per chi è ammalato. Da tempo avevo la curiosità di conoscere in esterno la Congregazione ed approfondire lo studio dei Testimoni di Geova, partecipare alle riunioni di persone preparate e vedere come si svolge il lavoro di approfondimento. Il mio desiderio è potendo beneficiare di permessi premio per motivi culturali, ho potuto partecipare alle riunioni della Congregazione in Colle Val d’Elsa.

Particolarmente interessante è stato l’incontro avvenuto nel gennaio scorso, alla presenza del Signor Orfanelli, con persone provenienti da diverse nazioni.

Ha iniziato le lezioni un signore americano cui è seguito il nostro incontro in lingua italiana: grande sala per trecento persone, microfoni, registrazione e quindi utilizzo di basi musicali e canti dal vivo da parte delle persone presenti alla Congregazione. Ad annunciare la Parola di Dio Geova era un anziano Ministro che citando la rivista "Torre di Guardia" offriva la propria collaborazione e le proprie spiegazioni a chi avesse avuto dei dubbi. Furono toccati punti molto delicati come le problematiche matrimoniali, la sofferenza (compresa quella dei detenuti), le malattie. Uno dei benefici che offre la Conoscenza di Geova è quello di fare uscire tante persone dalla solitudine, dal loro silenzio e dalla depressione divenendo pastori nell’annunciare la volontà di Dio. È stato poco il tempo che mi sono trattenuto, ma questa nuova esperienza è stata molto positiva. Molte le persone che, pur vedendomi per la prima volta, mi hanno accolto con rispetto e simpatia. Debbo ringraziare tutti i presenti ed in particolare i Ministri di Culto Orfanelli e Castaldi. Mi auguro di avere ancora la possibilità di partecipare ad altre riunioni per poter poi continuare a studiare, approfondire ed applicare i consigli che Dio Geova ci ha dato per confrontarci con gli altri e farci divenire migliori in un mondo di pace dove è bandita per sempre la guerra. Vivere come liberi gabbiani verso il cielo. (sommario)

 

 

Un grido per la pace

La pace è possibile, anzi è doverosa

 

di Jmila Hommou

"C’è una distinzione netta fra chi osserva il dolore e chi lo condivide. Chi osserva passivamente finisce per non provare più dolore appena spegne, ad esempio, il televisore. Costui è solo un po’ migliore di chi il dolore lo infligge"

E’ una frase forse troppo forte, certo provocatoria nelle nostre orecchie, ma forse è giusta per tutti coloro che desiderano davvero la pace nel mondo in quanto essa dipende da ognuno di noi. Ma in che modo possiamo… favorirla?

Occorre amarla, difenderla, educare e lavorare per essa. È un idea che vorremmo guidasse il mondo ed invece talvolta sono lo guerre che guidano il nostro globo. Guerre e violenza: le madri di ogni povertà dove si perde tutto, perfino l’ umanità, la capacità di amare, i sogni e gli ideali. Sappiamo che, ancora oggi, nel mondo sono in atto ben 37 conflitti aperti nei quali muoiono per lo più civili: il 90% delle vittime. Solo alcuni esempi: in Colombia in un anno (il 2003) sono morte 32.000 persone per omicidi politici. La Repubblica del Congo ha visto la morte, dal 1997 ad oggi, di un numero superiore ai tre milioni di persone per una guerra che è stata definita "la guerra mondiale d’Africa". Il conflitto Israleo-Palestinese che dura ormai da mezzo secolo con milioni e milioni di morti su ambo i fronti e che ha generato nuovi conflitti. In Iraq dove la guerra sembra una avventura senza ritorno. Che dire poi degli attentati in Spagna. Per me queste guerre sono delitti gravissimi contro l’umanità; ciascuno di noi deve avere il coraggio di liberarsi dalla violenza per pensare e progettare lo sviluppo, la cultura, la pacifica convivenza. Ed invece, tutti, facciamo poco o niente affinché questo si realizzi.

Non basta desiderare la pace, occorre una mobilitazione di massa, mano nella mano, senza distinzione di razza, di religione o di colore e con un unico spirito ed obbiettivo: coraggio e fermezza. Questo perché l’impresa non è certo delle più facili visto che va contro interessi politici ed economici di individui "potenti". Solo con una adesione mondiale si può sconfiggere questo "cancro" crudele contro cui giornalmente la coscienza di tutti noi deve fare i conti. Respingiamo l’idea che le guerre si fanno per difendere il mondo dalle tante minacce che mettono a rischio la democrazia e che quindi le guerre cosiddette preventive siano indispensabili. Lavorare per la pace e difendersi non sono concetti alternativi.

Il lavoro per la pace è la più grande, utile e meritevole azione di difesa. Costruiamo la pace perché essa vive delle nostre adesioni anche a costo del più grande sacrificio quale quello di tanti volontari, missionari, giornalisti, medici e vari appartenenti ad associazioni umanitarie. Pace in tutte le terre, quindi; in quelle più citate ma anche in quelle sconosciute o dimenticate. La pace, oltre a salvare tante vite umane, garantisce lo sviluppo e sconfigge la povertà e la fame. (sommario)

 

 

Guerra e terrorismo: i peggiori mali della società

 

di Trabelsi Abdelmajid

Il terrorismo: un cancro delle società moderne che mina la sicurezza dei popoli e richiama alla mente una parola che vorremmo non sentire più: guerra! Ma ci sono idee diverse su che cosa è il terrorismo. Se lo chiedi ad un americano ti dirà che terrorismo sono le Torri Gemelle che si sbriciolano dopo l’urto di due aerei impazziti. Se lo chiedi ad un palestinese ti dirà che sono i carri armati israeliani che spianano le loro case e se lo chiedi ad un israeliano ti dirà che sono le bombe umane, i kamikaze, che danno la morte a tanti giovani innocenti nei ristoranti o nei luoghi di ritrovo. Se lo chiedi ad un ceceno ti dirà che il terrorismo sono i bombardamenti a tappeto che spianano Grosni e per un russo sarà la vita spezzata a tanti uomini e donne che andavano a lavoro.

Se lo chiedi ad un africano lo identificherà con la mancanza di acqua e di medicinali e se lo chiedi ad un sudamericano per lui saranno i colpi di stato o i desaparecidos in mano ai trafficanti di droga o ai militari. Se lo chiedi ad un curdo ti dirà dei gas di Saddam o delle bombe dei turchi e se lo chiedi ad un italiano, specie ora, non potrà non citare la strage di Nassirya. Se lo chiedi, infine, ad un iracheno vedrà come terroristica la disfatta di un popolo o l’occupazione straniera.

Ciascuno, quindi, vive drammaticamente una realtà fatta di terrore, di morte, di omicidi, di suicidi, di fame, di miseria, di paure, di mancanza di futuro.

Terrorismo richiama poi l’altra orrenda parola: la guerra. Per combattere il terrorismo sono attivate guerre, più o meno giuste; e tali guerre sono combattute da chi non è colpevole ma che comunque ne subirà per primo le conseguenze: altre morti, altra disperazione, altre distruzioni. Da sempre la guerra è un cancro che non si riesce ad estirpare in una catena di odio che sembra non potersi mai fermare. Abbiamo perso bambini, vecchi, donne e tante professionalità utili per il progresso: medici, studiosi, ricercatori, geni, artisti… Un tributo di sangue pagato al delirio di onnipotenza o alla insofferenza verso chi è diverso da noi.

Può apparire banale e qualunquista ma se i capi dei terroristi, i predicatori di odio, i grandi della terra o i loro consiglieri militari fossero costretti a combattere in prima persona le guerre che dichiarano, forse avremmo meno terrorismo, meno morti, meno disperazione. La storia è piena di questi drammi, ma nessuno sembra tenerne conto

L’umanità sana deve dire basta a questa spirale di violenza che rappresenta una perdita incalcolabile e mina le nostre civiltà. Da ogni parte del mondo esca forte la condanna verso i "signori della guerra" che sanno solo armare i popoli sfruttando i loro bisogni e la loro ignoranza. (sommario)

 

 

"War games"

Perché ai giovani si insegna la violenza e a fare la guerra, se poi ne paghiamo, tutti, le conseguenze?

 

di Effe

Il mondo è entrato nella spirale del terrore divenuto la nuova paura del XXI secolo e il "complesso militare - industriale - ricreativo" fa pensare normale convivere con la guerra e la violenza. Ad onor del vero, infatti, tre anni fa in California è nato un centro studi con lo scopo di creare un collegamento tra generali, professori universitari e industria dei giocattoli con un finanziamento di 45 milioni di dollari, per lo sviluppo del primo video game, gioco basato sulla guerra e violenza.

Proprio dopo l’11 settembre c’è una nuova generazione di giochi di guerra: pupazzi e accessori legati alle guerre in Afghanistan e Iraq che "non si sa più se sono innocenti passatempi patriottici o tentativi di spacciare la guerra ai bambini". Stanno sparendo i soldatini tradizionali.

Risiko è preistoria. Ora tra le tante novità si gioca a fucilare i figli di Saddam rappresentati nei piccoli schermi da bambolotti sanguinolenti. Si tratta di informazioni che ciascuno può trovare su Internet e che un quotidiano cattolico locale ha diffuso nel momento in cui le nostre televisioni pubbliche mandavano in onda - con palinsesti speciali - servizi e film militareschi per onorare i primi caduti Italiani in Iraq, cercando di creare un clima di consenso a una guerra che presenta molti dubbi… L’informazione manipolata, usata con spregiudicatezza e senza remore morali, è simile al veleno a piccole dosi: crea assuefazione facendo scambiare realtà e fantasia.

Con la manipolazione (mi sembra) e l’addomesticamento della pubblica opinione, l’educazione alla pace è diventata più ardua per tutti gli educatori. Le conseguenze sono all’ordine del giorno con l’aumentata violenza (e criminalità) nei giovani; basta vedere i tanti casi, addirittura nell’ambito delle pareti domestiche e nelle scuole. E poi? Si fanno leggi per punire nuovi reati che, noi stessi involontariamente o meno, insegniamo ai giovani chiudendo gli occhi ad un evidenza che sappiamo nociva, anzi: "Abbiamo tirato il sasso per poi, ritirare la mano". Ma il sasso quando colpisce fa male e, allora?

Quanti come genitori, insegnanti, professionisti, lavoratori o pensionati pensano di tramandare ai propri ragazzi lo spirito di pace? Sulla pace si misura la voglia preventiva di far vivere tutti, rispetto alla voglia di siglare una lista preventiva per la morte. (sommario)

 

 

Precedente Home Su Successiva