Idee Libere n° 9

 

Idee Libere

Periodico della Casa di Reclusione Ranza di San Gimignano

Anno III - numero 9,  febbraio - marzo 2004

 

Sanità: la parola al direttore sanitario del carcere di Ranza dr. Fabio Antichi

Un diritto inviolabile

La salute in carcere è… malata

La mia semilibertà

L’elisir di eterna giovinezza

Sicurezza e trattamento: collaborazione necessaria

Scuola e lavoro

Garantismo: verità o ipocrisia

Il Servizio sociale per il carcere

Un amico in cella

Una proposta doverosa e decente

Il valore fedeltà

Attila, ovvero storia di un rondone

Sanità: la parola al direttore sanitario del carcere di Ranza dr. Fabio Antichi

Le cifre dell’assistenza medica

Attualmente l’area sanitaria della casa di reclusione di San Gimignano garantisce un servizio medico continuo di 24 ore giornaliere che copre sia la normale assistenza sia il primo intervento nelle urgenze. I sei medici di guardia che si alternano nei turni sono coadiuvati da quattro infermieri professionali.

All’interno del servizio sanitario dell’istituto operano anche specialisti convenzionati nelle branche di odontoiatria, otorinolaringoiatra, oculistica, infettivologia, chirurgia, dermatologia, psichiatria e neurologia.

Nell’anno 2003 sono state effettuate per quanto riguarda la medicina generale 11.825 prestazioni e complessivamente 1.600 prestazioni specialistiche.

Colui che scrive ha iniziato a prestare la sua opera professionale nel 1981 al vecchio istituto nel centro di San Gimignano. Allora l’assistenza sanitaria, prestata alla popolazione detenuta, era garantita da un sanitario incaricato che visitava i pazienti due volte la settimana, da un medico dell’assistenza sanitaria integrativa, con un contratto di 80 ore mensili, e da un infermiere detenuto.

Le visite venivano effettuate in un locale angusto dalle caratteristiche igieniche scadenti utilizzando strumenti obsoleti. Sembrava che nell’infermeria il tempo si fosse fermato venti anni prima. Da allora molte cose sono mutate sia nella società esterna sia all’interno delle strutture penitenziarie in generale e della nostra in particolare.

Nuove esigenze, nuove leggi, una maggiore apertura degli istituti al mondo esterno, una nuova sensibilità nei confronti di coloro che si trovano detenuti, e purtroppo l’affacciarsi di nuove patologie, hanno fatto sì che l’amministrazione penitenziaria si sia impegnata negli anni a migliorare quel servizio di tutela della salute dei detenuti che continuo ancora oggi a mantenere.

Nello specifico in virtù anche del trasferimento presso il nuovo istituto e delle sollecitazioni dei medici e della direzione siamo riusciti progressivamente ad ampliare l’offerta di servizi sanitari ed a diminuire il divario di risposta alle esigenze di salute dei detenuti rispetto alla popolazione esterna.

Va detto che a ciò ha contribuito in maniera importante la collaborazione e per alcuni aspetti l’integrazione con L’ASL locale.

Purtroppo negli ultimi otto anni abbiamo assistito ad una progressiva diminuzione dei fondi stanziati a disposizione dell’area sanitaria con conseguenti sempre maggiori difficoltà a dare risposte adeguate alla domanda di salute dei nostri assistiti. Ritengo comunque, in virtù dell’esperienza passata, ed augurandomi di non essere smentito dai fatti, che si debba avere sempre fiducia nel futuro. (sommario)

 

 

Un diritto inviolabile

 

A cura della redazione

Come sancito dalla Costituzione, anche in regime di detenzione, uno dei diritti inviolabili di ogni essere umano è quello alla salute. Purtroppo le carenze di capitoli a titolo nazionale si ripercuotono anche negli istituti di pena, per cui un antibiotico, o un antidolorifico, si disperdono come fumo al vento e, l’operatore di turno, risponde alla tua domanda con la solita frase di rito: non sono più disponibili e se vuole, può acquistarli tramite domandina!!

Considerato che anche un semplice raffreddore è percepito dai reclusi in modo diverso da una qualsiasi persona esterna, in quanto non essendo nella possibilità di poter scegliere da chi farsi visitare e soprattutto nei tempi voluti, tale malessere insignificante può apparire come qualcosa di serio e preoccupante; e soprattutto gran parte dei detenuti non è nelle con le condizioni economiche che gli permettono di acquistare il farmaco richiesto e sostituito, quindi si lascia immaginare la gravità della problematica. Per cui, a nostro parere, chi di competenza dovrebbe vagliare con maggiore cognizione di causa i capitoli da destinare alle carceri e, concepire che essendo un luogo promiscuo, sono maggiori le possibilità di diffusione di infezioni e malesseri più o meno serie. Invece appena bisogna "racimolare" fondi, i primi tagli vengono effettuati proprio agli istituti detentivi, non abbiamo mai capito a quale titolo, ma ci auguriamo di non essere considerati cittadini di "serie c"!! Ma paradossalmente questa è la punta dell’iceberg, in quanto un farmaco anche se differisce come appellativo da un altro, basta che la composizione farmaceutica sia simile ed efficiente per curare e prevenire le patologie previste, può sostituire normalmente lo "scomparso", anche perché chi è affetto da una patologia non avendo scelta, "collauderà" il nuovo farmaco. Ma oltre ai problemi fisici è doveroso valutare le conseguenze psicologiche, alimentate e diffuse dalla carenza di personale sanitario qualificato. Dagli ultimi sondaggi sulla popolazione detenuta, è emerso che una buona parte è tossicodipendente e, che molti sono affetti da seri problemi psichici, per cui invece di tagliare i capitoli, dovrebbero incrementarli ai fini di assumere e destinare agli istituti figure mediche specializzate, come: psicologi, psichiatri, psicanalisti, etc, etc.

Senza dimenticare che detenuti affetti da (hiv) scontano la loro pena, e quindi hanno maggior bisogno di sostegno psicologico quotidiano. Oggettivamente i detti specialisti sono indispensabili, in strutture dove regna sovrano l’ozio e, soprattutto dove si è privi della libertà fisica e degli affetti personali generanti, in alcuni soggetti, squilibri mentali che partoriscono lesioni indelebili e a volte la perdita della vita stessa.

Dunque si esorta chi di competenza, a valutare con maggiore attenzione i problemi in questione, dandoci l’impressione che, come un qualsiasi cittadino siamo tutelati anche in questa situazione, come sancito appunto dai principi fondamentali della nostra Costituzione: siamo esseri umani, e appartenenti alla medesima società con i relativi Diritti e Doveri. Questa è la nostra grande speranza! (sommario)

 

 

La salute in carcere è… malata

 

di Senio Sensi

Non è molto che frequento un carcere ma il tempo è forse ormai sufficiente per avere assimilato le varie problematiche e, se mi viene perdonata un po’ di immodestia, per discuterne su queste pagine.

Il tutto anche alla luce di colloqui con personale medico (non solo di Ranza).

La riforma della Medicina Penitenziaria, più volte annunziata, è di là da venire. I problemi di salute dei detenuti, ma anche di coloro che operano nel settore, sono del tutto irrisolti. Ne deriva una frustrazione per gli uni e gli altri ma, ovviamente, i soggetti più esposti sono i reclusi che vivono sulla loro pelle - è proprio il caso di dirlo - i ritardi e le difficoltà. Le prestazioni specialistiche (come quelle odontoiatriche) sono possibili solo molto tempo dopo le richieste di chi ne ha bisogno; gli accertamenti diagnostici subiscono i ritardi dovuti ai vari passaggi necessari per l’accettazione, in parte causate da oggettive e comprensibili situazioni e in parte colpe di lentezze burocratiche difficilmente superabili; le terapie per malattie diciamo "di routine" sono talvolta difficili per la rarefazione di farmaci specifici; gravissimi sono poi i disagi per i malati di AIDS (tempo fa si parlava di incompatibilità tra sieropositivi e il carcere, ma poi ….).

La medicina preventiva è un sogno e quindi il "prezzo" che viene pagato dal soggetto interessato, prima, e poi dalla società, in caso di malattia grave non accertata nei tempi utili per una sua sconfitta, è davvero pesante. Credo che vivere privati della libertà personale e con patologie anche gravi corrisponda ad una qualità della vita inaccettabile.

Sicuramente non saranno mancati, né mancheranno in futuro, simulatori che cercano di approfittare del presunto status fisico per finalità non lecite, ma non si può certo pensare che tutti i reclusi siano dei simulatori che non vanno curati ma solo smascherati. È un po’ quello che succede per i permessi garantiti dalle disposizioni legislative: poiché alcuni approfittano della libertà provvisoria per divenire… uccel di bosco, non è detto che lo strumento del permesso, concesso solo al verificarsi di certe condizioni, sia da sospendere per tutti. È giusto e doveroso che il carcere tuteli se stesso di fronte a possibili imbrogli, ma è anche giusto che i veri bisognosi di terapie abbiano tutti i mezzi di accertamento e cura che possiedano coloro che sono liberi. E forse qualcuno di più. Sembra l’uovo di Colombo, ma questa equazione tarda a realizzarsi. E la speranza, per chi vive nel carcere, è ormai una abitudine… (sommario)

 

 

La mia semilibertà

 

di Lino Lupone

Negli ultimi mesi sono passato, molto rapidamente, dal regime di detenzione a quello di semilibero. Dalla Casa di Reclusione di San Gimignano, con la sua struttura grande e moderna, rumorosa e fredda, in poche ore mi sono ritrovato catapultato a Siena, in un piccolo carcere nel centro di una piccola e splendida città, strutturalmente piuttosto fatiscente, ma insolitamente caldo e accogliente. Naturalmente essere ospite a S. Spirito in qualità di semilibero e molto meno pesante che trovarsi detenuto in un qualsiasi altro carcere, infatti ci trascorro solo le notti e considerata la stanchezza del lavoro quasi non ti accorci di esserci. Probabilmente se ci passassi più tempo non lo troverei così "carino", ma è senza dubbio un ambiente più tranquillo rispetto a un grande carcere quale S. Gimignano.

Questi però sono dettagli rispetto alla grande conquista quale quella di svolgere una vita, sebbene ancora con delle limitazioni, in libertà e tra la gente.

Adesso ho un lavoro e sono molto soddisfatto. In apparenza non si direbbe un gran bel lavoro: districarsi nell’aria maleodorante di un centro per lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti dal quale, di solito, non esci mai molto pulito, sembrerebbe davvero poco gratificante. Comincio quasi sempre il mio turno di lavoro nelle ore buie del mattino; il clima in questa stagione è piuttosto rigido, quindi il freddo è un nemico difficile da combattere. Le prime luci del mattino, che giungono dopo qualche ora di lavoro, scandiscono la tanto sospirata pausa per il caffè. Ancora qualche ora è ho finito il mio turno. A quel punto basta una doccia per lavar via tutte le sensazioni negative del lavoro ed esser pronti ad utilizzare il tempo libero in maniera divertente e positiva. Però, a questo punto, solitamente, incontro i problemi maggiori.

Tendenzialmente sono una persona piena d’immaginazione, bisogni e desideri e pensavo che sarebbe stato più facile inserirsi in questa città. Però la mia indole piuttosto chiusa e timorosa non mi permette, come vorrei, di sentirmi libero, di manifestarmi e di conoscere nuove persone. Rimango molto spesso lì, in attesa, a lasciare che gli altri facciano la prima mossa, perché avverto la netta sensazione di avere ancora tutte le mie fragilità nell’avvicinare l’altro. E’ la stessa sensazione che puoi avvertire abbandonando una posizione protetta: avanzare e rischiare.

In questo senso, gli unici progressi palpabili credo di averli compiuti nei confronti delle persone che formano la famiglia in cui spesso mi rifugio per un pranzo caldo, per una chiacchierata e per ritrovare un ambiente familiare, sebbene loro mi spronino a rilassarmi un po’ di più. Insomma mi manca ancora un po’ di coraggio. I senesi, peraltro, non sono proprio dei maestri in fatto di apertura. Anche loro, come me, generalmente sono persone con le quali è difficile comunicare se non appartieni alle loro tradizioni.

Pensavo che avendo vissuto sempre in una città, Torino, con le sue persone "fredde" e riservate, mi avrebbe messo in una situazione di vantaggio nel confronto con una città e delle persone che conservano una riservatezza simile. Invece non sta andando proprio com’era nelle mie previsioni.

A volte passeggiando per la città mi chiedo cosa ci faccia in mezzo a tutta questa gente che non conosco.

Mi chiedo se non sarebbe stato meglio ritornare nella mia città e ritrovare quella gente che un tempo affollava le vie del centro o il Parco del Valentino e poi la sera si trasferiva ai Murazzi del lungo Po Cadorna.

Mi chiedo, ancora, dove sono finiti i progetti di quei giorni in cui attendevo con ansia il momento di uscire per ritornare dalla mia famiglia e sognavo di trascorrere lunghe giornate con le mie nipotine, giocare con loro ed assistere alla loro crescita.

Invece rimango lontano da questi desideri con la sensazione di sentirmi a volte profondamente ingiusto ed inaridito. Ma adesso sono qui a Siena e questa piccola città mi affascina e mi stimola.

Nonostante le difficoltà fisiologiche di inserimento io cerco di affrontare ogni giornata con quel pizzico di entusiasmo e umiltà che credo alla lunga darà dei frutti.

Non mi sono mai sentito tanto determinato. Ho una grande voglia di vivere e non ho nessuna intenzione di lasciar scivolare questo tempo e quest’esperienza senza prima coglierne il significato. Ho sviluppato negli ultimi anni un legame più spirituale con la mia vita e non voglio abbandonare quest’occasione di riscatto o l’idea di perdermi nella mia personale ricerca.

Ho tante cose da fare e ci sarà tempo per ognuna. Potrei persino ricominciare a suonare o a dipingere passioni che non coltivo più da anni. Al momento mi godo le attrattive naturali ed artistiche che questa splendida città mi offre e lentamente prenderò confidenza con la cultura e le tradizioni che la gente conserva.

Beh, d’accordo, alcune volte capiterà di lasciarsi stritolare e sbattere al suolo dalla noia, ma la tattica dei piccoli passi darà presto dei risultati e con i miei limiti e le mie qualità spero di riuscire a trovare un piccolo spazio in questa città e tra questa gente.

Almeno ci proverò! La sola sventura sarebbe quella di non provarci e restare insofferente e spento com’ero tempo fa. (sommario)

 

 

L’elisir di eterna giovinezza

 

di Enzo Falorni

Viviamo nella civiltà dello spettacolo, nella società dell’immagine. La tv è padrona dei nostri salotti e dei nostri discorsi e i suoi modelli diventano modelli di riferimento della società italiana. Cominciò il Drive Inn, venti anni fa, con il Paninaro e i vari tormentoni. Poi dal cabaret si arrivo al talk show, e da questo alla tv delle lacrime. È immagine la politica: sono passati quindici anni appena da quando la sinistra – che allora si chiamava Pci – non aveva nemmeno il volto del candidato sui manifesti elettorali: si votava il partito, non l’uomo. Nel 2001, alle ultime politiche, ha candidato Rutelli perché, al di là delle spiegazioni di comodo, è più fotogenico di Amato. È immagine lo sport, sono immagine – anzi, esteriorità – le veline, le letterine, i reclusi del Grande fratello. Siamo nell’Italia dell’apparenza e chi non appare, perché non ha i numeri o l’interesse, resta tagliato fuori ed è costretto, se vuol tornare dentro, a rifarsi. Con le pillole, il bisturi o semplicemente mascherandosi per rendersi più interessante. Una tendenza evidente soprattutto d’estate, quando i vestiti si accorciano e i difetti, se ci sono, emergono. E per alcuni è un dramma. Perciò abbiamo dedicato questo zoom all’immagine, all’esteriorità. Puntando lo sguardo soprattutto sugli eccessi. Perché se non degenera, l’immagine è anche una bella cosa.

Tra tecniche di rifacimento del corpo e pillola per non invecchiare è stato trovato l’elisir di una giovinezza perenne. Alcuni ricercatori avrebbero inventato la pillola contro la vecchiaia capace d’impedire al corpo il decadimento e persino di ritardare il suo ultimo recapito… non voglio sapere come questo farmaco si chiami, né in che cosa consista. Non m’interessa per quell’inattendibilità scientifica che spesso accompagna queste notizie e per la stima verso la vecchiaia, l’autunno della vita che porta con sé frutti e meriti, spero che la medicina contro la vecchiaia non sia trovata. Non sono per niente favorevole a contrastare la legge della natura. Alcune persone, tifose dell’elisir di giovinezza, si sottopongono a interventi per cambiare sembianze o raggiungere forme sessualmente attraenti. Sostengono che il corpo rifatto è una correzione necessaria per supplire ai difetti di madre natura, non sempre prodiga con i suoi figli. Non ho niente da obbiettare, se si tratta di interventi necessari. Il mio disappunto si ferma a quel peccato contro natura che vuole, a tutti i costi, confezionare in laboratorio un corpo perfetto. Qualcuno chiama tutto ciò progresso, qualificazione umana, tentativo di raggiungere una razza perfetta. Questo miracolo del progresso mi trova contrario.

Le leggi della natura devono essere rispettate anche dagli studiosi, se vogliamo che in questa società siano accetti i belli e i meno belli e, perché no, anche i brutti… In ogni società vi sono soggetti diversi che si compensano a vicenda, senza bisogno di un laboratorio. L’illusione d’avere e conservare un corpo sempre in perfetta forma, delude. Alcuni tratti somatici non si possono cancellare con il bisturi. Mi pare giusto quindi aiutare i giovani ad accettare il proprio corpo, alto o medio, scostandosi dal modello in voga delle veline. Conosco adolescenti in crisi perché non si ritengono belle/i come alcune immagini presenti sul video. Il condizionamento estetico sta mietendo disistima, difficoltà relazionali e anche rottura di coppia… Forse converrà abituare la mente ad assimilare le diverse sembianze umane per apprezzarle e rendere possibile una convivenza normale e non selezionata e artificiale. Di questo passo, ci saranno centri estetici di corpi confezionati in coppia, per assicurare la continuità della convivenza… Battute a parte, rimane un tangibile scompenso, in una corsa per ottenere l’aspetto perfetto. La stessa vecchiaia rischia di essere considerata una condanna. La vecchiaia invece è un bellissimo periodo della nostra vita da accettare con naturalezza. Sono stati scritti libri, articoli in lode alla terza età. Non saprei certamente emularli con poche parole o convincere il lettore che anche quest’ultima stagione della vita ha il suo fascino e valore. Vorrei solo suggerire una considerazione: la vecchiaia intensifica le gioie.

La consapevolezza che sono sempre più rare, sempre più limitate nel tempo, le rende preziose. La gioia di vivere accanto ai propri cari, di giocare con i nipotini, di festeggiare un compleanno insieme ai figli e ai parenti, diventa un tesoro irrinunciabile. D’altra parte la vecchiaia dissipa i timori e induce alla tranquillità e serenità. Quando si arriva in porto, superate le bufere della vita, è bello ricordare il passato per dare al presente quel tocco di saggezza che serve ai giovani. Certo, se l’anziano è dipendente dalle sue forme fisiche perfette ed è corrucciato per la perdita dei capelli e l’apparire di rughe e chiazze cutanee, non si darà pace. Consulterà l’estetista di fama, ricorrerà alle cure costose e prolungate per poi arrendersi. In questo modo, non abitua la mente ad accettare il corpo com’è o diventa. Ne consegue la perdita della serenità e dell’equilibrio e, in seguito, il ricorso agli psicofarmaci per controllare le diverse forme di depressione.

Il corpo e la mente sono inseparabili. Il corpo si propone alla mente dall’infanzia alla vecchiaia e ogni spaccatura o divorzio è deleterio. (sommario)

 

 

Sicurezza e trattamento: collaborazione necessaria

Prospettive e realtà a confronto in due settori fondamentali della vita carceraria

 

di Massimiliano Vegni, Ispettore capo, comandante

Polizia Penitenziaria della Casa di Reclusione di San Gimignano

La legge 395/90 ha inteso risolvere, con una riorganizzazione profondamente diversa di tutto il sistema, quella difficoltà consistente nel contemperare la funzione della sicurezza con quella della rieducazione della persona detenuta.

E’ di fatto di fondamentale importanza che, accanto ai tradizionali compiti di vigilanza e sicurezza, gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria vengano coinvolti nell’attività di osservazione e trattamento dei detenuti.

Tale cosa non si verifica per caso, ma è il frutto di lunghe rivendicazioni da parte del personale del disciolto Corpo degli Agenti di Custodia, che avvertiva da tempo la necessità, l’esigenza, la volontà di evolvere la propria professionalità, repressa e soffocata dal vecchio regolamento del 1937, acquisendo un ruolo da protagonista attivo nell’opera di osservazione e trattamento del detenuto, finalizzata al raggiungimento di quei fini istituzionali essenziali che la pena si pone come obiettivo, che sono da individuare nella rieducazione e nel reinserimento nel tessuto sociale della persona detenuta. Assume a questo punto grande rilievo ed importanza la formazione del personale di Polizia Penitenziaria, che deve essere orientata verso tali importanti funzioni, ma non meno importante deve essere considerato l’aggiornamento professionale di quel personale che era già in attività di servizio e che venne a trovarsi nella condizione di dover modificare in modo sostanziale il proprio modus operandi, superando quella mentalità sovente esclusivamente custodialistica ed aprendosi verso tali nuovi orizzonti, con prospettive ben più gratificanti di quelli precedenti.

Acquisisce così nel tempo notevole importanza la collaborazione tra l’Area Sicurezza e l’Area del Trattamento, sovente purtroppo impedita, come nel caso di questo Istituto, da una notevole carenza di organico del personale di Polizia Penitenziaria, che raramente viene inserito in tale contesto operativo con compiti direttamente legati al trattamento individualizzato, e questo, a mio parere, a grave danno del sistema in generale e della persona detenuta in particolare.

E’ di fatto evidente ed inequivocabile che il primo anello della catena che collega popolazione detenuta ed Istituzione, è costituito dagli operatori di Polizia Penitenziaria che nel quotidiano, nell’intero arco temporale della giornata, vivono a stretto contatto con il detenuto, rapportandosi in maniera diretta con lo stesso, riuscendo sovente a carpire elementi estremamente utili all’osservazione ed al trattamento individualizzato.

Tornando al punto precedente, nel ribadire il rammarico per quella forzata mancata osservanza del dettato normativo per i già indicati motivi, si ritiene opportuno evidenziare che, pur tra le molteplici difficoltà operative, il personale di Polizia Penitenziaria, generalmente, garantisce ed agevola il precostituirsi delle condizioni per la realizzazione e lo svolgimento delle attività trattamentali in genere, assicurando altresì le condizioni per la realizzazioni delle finalità del trattamento. Sicuramente non posso certo dirmi soddisfatto di ciò, significando che ben altri aspetti e competenze il dettato normativo prevede per la Polizia Penitenziaria che, se ci fossero le condizioni per realizzarle, contribuirebbero sicuramente in positivo nel rendere l’ambiente più sereno e maggiormente orientato verso la rieducazione del detenuto, che acquisirebbe così una visione diversa dell’operato del personale, percependo anche il fattore sicurezza, che non va mai comunque oltre le reali situazioni di pericolo, nella giusta maniera, e cioè non come una cosa punitiva, ma bensì come una garanzia ed una tutela per tutti.

Auspico pertanto che la collaborazione tra le Aree Sicurezza e Trattamento subisca nel più breve tempo possibile un notevole positivo impulso e che si riesca a dare attuazione alle competenze in materia di trattamento riconosciute dal Legislatore alla Polizia Penitenziaria, favorendo lo sviluppo di una sempre più proficua unità di intenti nell’ambito dell’osservazione e del trattamento dei detenuti. (sommario)

 

 

Scuola e lavoro

A margine di un utile seminario: cosa fare perché gli sforzi che facciamo siano davvero utili per il nostro futuro

 

di Piero Accardi

Da alcuni mesi è ricominciato il seminario socio- culturale presieduto dalla psicologa Dottoressa Bini e l’educatrice Dottoressa Pesci. Avendoci partecipato l’anno scorso non vi nascondo che mi mancava e in particolare quest’anno ci vado ancor con più entusiasmo perché vi partecipa il mio amico Paolino, di cui se avete letto i miei articoli constatando che con lui ci confrontiamo sempre, anche per via dei nostri livelli "culturali" diversi, visto che lui frequenta il quinto Igea e io ho fatto solo le elementari. E anche se c’è una larga differenza d’età abbiamo sempre dei dibattiti civili; adesso che stiamo frequentando questo corso ci confrontiamo anche con altri di etnie e religioni diverse. Così ci conosciamo meglio perché anche se siamo ristretti in questo piccolo universo carcerario in cui tutti ci dovremmo conoscere, talvolta non ci salutiamo nemmeno perché c’è sempre una sottile diffidenza. Adesso che ci frequentiamo, anche se solo per un giorno la settimana, quel filo di diffidenza comincia a scomparire e questo lo vedo come una cosa positiva perché c’è meno tensione è più dialogo.

Ora si può dire che è finito "il grande fratello"; vi chiederete perché lo chiamo così? Non c’erano le telecamere che ci osservavano, ma c’erano tanti occhi e orecchi ad osservarci ed ascoltarci attenti a capire ciò che si diceva, senza perdersi nemmeno una virgola, senza interromperci, non come accade nel "confessionale" della nota trasmissione tv dove si esprimono ma non vedono l’interlocutore.

Nel seminario si finisce per mettere a "nudo" il nostro "io" e non è cosa facile visto il posto in cui ci troviamo. La seconda settimana abbiamo parlato della funzione della scuola all’interno del carcere: idea buona e lodevole ma che rischia di essere fine a se stessa se non è accompagnata da un successivo inserimento nella società dopo aver scontato la pena. Utile anche per eliminare le ultime sacche di analfabetismo, però mi chiedo a cosa servirà avere avuto la licenza elementare o media o addirittura la laurea se la maggior parte di noi ha ricevuto la poco gradita interdizione perpetua dai pubblici uffici?

Non possiamo quindi partecipare a bandi concorso pubblici e non sembra che le istituzioni ci tendano la mano risolvendo questo problema. Inoltre è difficile che le aziende private, se non hanno sostanziose agevolazioni, diano lavoro a noi ex detenuti. Allora voglio lanciare un sasso cercando di colpire qualcuno al cuore e sensibilizzarlo a questo nostro problema, sperando che questa iniziativa non sia vana.

Visto che già paghiamo con la detenzione le nostre colpe, perché una volta espiata la pena in maniera rieducativa non viene considerata la possibilità di togliere l’interdizione dai pubblici uffici, come fanno nei paesi Americani, dandoci così una concreta speranza e facendoci vedere la luce alla fine del tunnel? Anche noi siamo figli, nel male come nel bene, di questa Patria Italia. E una madre non abbandona mai del tutto i propri figli. (sommario)

 

 

Garantismo: verità o ipocrisia

"È meglio qualche colpevole in libertà che qualche innocente condannato ingiustamente". Frase celebre: ma applicata?

 

di Francesco Seminerio

Alla parola "garantismo" i dizionari riportano: "nel diritto pubblico e nel quadro dei valori culturali e civili emersi dall’esperienza cristiana e liberale, è il sistema delle garanzie giuridico-politiche a tutela degli individui e dei gruppi sociali e delle relative forme espressive (libertà di pensiero, di fede, di associazione, etc.)".

Il termine è talvolta usato in modo distorto per sottolineare la difesa ad oltranza dei diritti, o meglio, degli interessi del singolo o di categorie nei confronti delle esigenze di funzionalità e di efficienza delle istituzioni. Come principio è a dir poco "idilliaco", come d’altronde tutti i principi e i capisaldi della nostra Costituzione, riconosciuta, per autonomia, come la migliore del mondo. Chi scrive ha una visione diversa del principio in questione in quanto, oltre a studiarla sui banchi di scuola, ha una esperienza vissuta in prima persona essendo da tempo detenuto. Intanto perché gli organi istituzionali preposti (organi di polizia, magistratura ecc.) hanno metodi di valutazione diversi da regione a regione e, speriamo di no, forse anche da soggetto a soggetto. Dico "forse" perché mi manca competenza e forse imparzialità per meglio definire il concetto di oggettività e soggettività. Spesso chi decide è condizionato dall’allarme sociale momentaneo per un certo ripetersi di "quel" tipo di reato che, in alcuni casi, ha rilevanza mondiale. Ma è innegabile che negli ultimi tempi sono stati arrestati uomini politici giudicati poi innocenti quando la loro carriera era ormai bruciata. Che dire del ruolo dei cosiddetti "collaboratori di giustizia" smentiti dai fatti e dai testimoni già in fase giudiziaria eppure determinanti ai fini dei processi. Sono noti inoltre i richiami degli organi europei alla lentezza dei processi in Italia; fenomeno tutto nostro è poi quello delle numerose richieste di risarcimento per danni subiti da ex detenuti risultati innocenti: gli organi istituzionali, se va bene, riconoscono i danni materiali ignorando i danni psicologici.

E allora da tempo mi chiedo: ma questo GARANTISMO è davvero valido prima, durante e dopo l’espiazione della pena ?

Tralasciando il "prima" per quanto detto sopra, durante la pena trovo difficile si possa coscientemente dare un giudizio affermativo, ma soprattutto dopo che il detenuto ha espiato la pena, con volontà ed umiltà, ed ha quindi estinto il suo debito divenendo un normale cittadino, quali sono le garanzie (da "garantismo") offerte per il suo futuro? Temo di poter rispondere: NESSUNA.

Si sa che dopo un periodo di detenzione, più o meno lungo, il soggetto non è più nelle condizioni di provvedere alla propria "scarcerazione per la mancanza delle esigenze primarie", quali alloggio, lavoro ecc. e quindi lo Stato, o se volete la più anonima "società", rimangono totalmente assenti da questa necessità. Credo che le istituzioni abbiano il sacrosanto dovere di dare maggior senso compiuto alle affermazioni della carta costituzionale e ai principi fondanti del nostro diritto. Intanto offrendo maggiore fiducia a chi, macchiatosi di un reato, sta pagando o paga nel pieno rispetto delle regole. E poi un invito anche al cittadino comune: cercate di distruggere quella diga nemmeno tanto virtuale, edificata sui pregiudizi e sulle eccessive paure, che imprigiona i veri valori della vita: libertà e uguaglianza.

Alle fine siamo tutti esseri umani meritevoli, tutti, di godere a pieno di questi diritti depurati da ogni ipocrisia.

(sommario)

 

 

Il Servizio sociale per il carcere

Una struttura del Ministero della Giustizia: ha compiti da conoscere meglio

 

di Laura Borsani, direttore del Centro

di Servizio sociale per adulti di Siena

C’è chi sostiene che il servizio sociale dovrebbe lavorare solo "fuori", essendo il suo specifico il settore dell’esecuzione penale esterna, o, per meglio dire il settore delle misure alternative alla detenzione e principalmente l’affidamento in prova al servizio sociale.Certamente il legislatore ha progressivamente favorito e agevolato l’espiazione della pena all’esterno, nondimeno è necessario mantenere l’attenzione alla popolazione detenuta anche attraverso il qualificato intervento del servizio sociale verso i soggetti ristretti negli Istituti penitenziari, in conformità alle previsioni dell’ordinamento penitenziario.

Un recente passato ha visto una drastica riduzione della presenza del servizio sociale negli Istituti, determinata dall’entità del carico di lavoro esterno in corrispondenza di un numero esiguo di operatori. Oggi la situazione è migliorata e per questo riteniamo, noi tutti operatori del servizio sociale, di doverci riappropriare dei compiti attribuiti dalla legge in riferimento al circuito penitenziario propriamente detto e di dover reinvestire in termini di qualità rispetto alla peculiare competenza professionale.

Oggi, quattro assistenti sociali del Centro, di ormai consolidata professionalità, operano nell’Istituto, garantendo la propria presenza operativa per due - tre giorni a settimana e partecipando costantemente al gruppo di osservazione e trattamento ( il famoso GOT), cioè il gruppo allargato del quale sono chiamati a far parte tutti coloro che interagiscono con il detenuto o che collaborano al trattamento dello stesso e all’èquipe interprofessionale: cioè al gruppo ristretto che lavora per produrre il documento di sintesi/aggiornamento dell’osservazione.

Il Centro di Servizio sociale per adulti, nato con la riforma del 1975 e "cresciuto" nel corso degli anni, amministrativamente autonomo dall’Istituto, rappresenta, rispetto ad esso, " un complesso operativo unitario" che deve operare secondo una prassi di pianificazione congiunta e di integrazione. Ma cosa fa esattamente il CSSA in carcere e per il carcere?

In primis, il CSSA offre la propria consulenza per le attività di osservazione e trattamento nei confronti dei detenuti definitivi, in osservazione, attivandosi su richiesta della Direzione dell’Istituto per fornire all’equipe un contributo di dati e valutazioni relativi al soggetto, al suo ambiente di vita, al suo contesto familiare, a quello di appartenenza ed anche agli elementi utili in una prospettiva di evoluzione e quindi con attenzione tanto alle risorse del soggetto quanto alle opportunità trattamentali che il contesto offre; beninteso in relazione alla specifica situazione giuridica del soggetto.

Si dice in sostanza che l’assistente sociale ha soprattutto il compito di contribuire "alla comprensione dei collegamenti esistenti e di quelli realizzabili in futuro tra la condizione personale attuale del soggetto e i suoi problemi familiari e sociali". L’assistente sociale porta quindi in équipe l’esito dell’indagine effettuata dopo aver acquisito direttamente dal soggetto, nel colloquio in istituto, dati utili di conoscenza. contribuendo quindi a formulare il piano trattamentale, il quale, com’è ben noto a tutti gli operatori del settore, è punto di arrivo e di partenza di un progetto individualizzato da rimodulare con diverse previsioni intra o extramurarie, a seconda dell’evoluzione successiva del caso.

Tutto ciò che di "altro" l’assistente sociale fa in base al dettato normativo, vale a dire la cura delle relazioni familiari, la vigilanza sulle condizioni di lavoro nei casi di ammissione al lavoro all’esterno, la vigilanza e l’assistenza nei confronti dei semiliberi, la partecipazione alle commissioni all’interno dell’Istituto, gli interventi durante la fruizione dei permessi, è probabilmente da considerarsi "di dettaglio" rispetto ad una competenza così definita la cui formulazione, pur potendo apparire in termini generali, coglie adeguatamente l’aspetto essenziale di finalità e di contenuto che contraddistingue l’intervento del servizio sociale nell’ambito intramurario.

Deve essere chiaro però che il contributo migliore del servizio sociale è quello che si colloca nell’ambito dell’operatività integrata, in concreta interazione con le altre figure professionali che operano nell’Istituto, ma anche con la realtà territoriale, con i servizi sociali, gli enti, le istituzioni, il privato sociale e cioè con tutto ciò che rappresenta la base per poter realizzare un sistema sanzionatorio aperto all’idea rieducativa, non solo nell’ambito del trattamento intramurario, ma anche , e lo dico come auspicio per tutti, attraverso l’esecuzione della pena con modalità alternative alla detenzione. (sommario)

 

 

Un amico in cella

In America i carcerati possono adottare cani. Sono i "cell dogs"

 

di Senio Sensi

Viaggio nel mondo ovattato dell’utopia ? Forse. Però, se in altra parte del mondo, con una sensibilità nemmeno troppo eccelsa nei confronti della vita carceraria, l’esperimento va avanti, perché non tentare anche da noi? Mi si dirà: "Altro che cani di compagnia!". Nelle nostre carceri mancano le cose essenziali ed i tagli che lo Stato compie scoraggiano chi vuol sognare. Eppure sarebbe un vantaggio triplo. Mi spiego: anche tramite queste pagine molto spesso i reclusi fanno presente che essendo, giustamente, cresciuta la sensibilità verso i bisogni degli animali, talvolta è amaro notare come sarebbe gratificante, per chi vive nelle celle, poter ricevere le attenzioni che si riservano agli amici a quattro zampe.

È un paradosso ? Forse, ma è certo che l’attuazione di migliori condizioni di vita per gli animali domestici non è andata di pari passo con quella, che riterrei forse più giusta, del mondo che vive dietro le sbarre.

Ma veniamo al tema: in America, nell’Ohio, in carceri dove si trovano anche detenuti con condanne all’ergastolo, è stato dato seguito alla idea di una religiosa (Suor Paulene Quinn) che fece il suo primo esperimento venti anni fa. Oggi, in 30 delle 33 prigioni di quello stato vivono 375 Cell Dogs (cani da cella) assieme ai reclusi. Tra queste c’è il carcere di Mansfield da dove è partito un reportage. Gli obiettivi sono molteplici: intanto i cani servono ad alleviare la solitudine dei reclusi, che – in apposita palestra – provvedono all’addestramento degli animali che poi finiscono negli ospedali per disabili o negli orfanotrofi dove continuano ad alleviare la sofferenza umana. L’addestramento richiede pazienza, amore e attenzione.

Si tratta di insegnare ai cani a collaborare con persone in carrozzella, aiutare chi non ha la possibilità di aprire porte, accendere luci o, più semplicemente, saper fare compagnia a chi è diversamente abile. O solo. Per l’aiuto ai non vedenti, dopo un primo sommario addestramento, i cani che appaiono adeguati per questo compito vengono inviati in strutture specializzate.

Le bestiole che vengono istruite dai reclusi sono state spesso abbandonate per strada, seviziate da padroni crudeli o uscite da canili dove la loro vita era un inferno. Vediamo allora perché il beneficio è triplo. Intanto laddove i reclusi hanno il compito di istruire i cani è diminuita, in maniera cospicua, la violenza. Gli stessi agenti di custodia affermano che la presenza delle bestiole ha avuto un effetto distensivo e che tra addestratori e addestrati si crea un rapporto di profonda amicizia utile anche per i cani che, come detto, in genere hanno avuto esperienze traumatizzanti. L’utilità prosegue verso terze persone, quelle cioè che beneficiano del lavoro di addestramento portato a termine dentro le mura di un carcere.

Che ne dite? L’esperienza non è trasferibile in Italia? Può darsi, ma a chi come il sottoscritto è ormai abituato ad assistere allo scoraggiamento cronico di chi vive in cella e alla depressione che è amara compagna di tanti loro giorni, farebbe un gran piacere ascoltare una frase come quella pronunciata da certo Mark Painter dal carcere di Mansfield: "Quando mi hanno sbattuto dentro non avevo pietà per nessuno. E’ stato il mio Caino, un incrocio di husky, a cambiarmi il cuore".

E allora lo slogan che spesso si sente tra i politici che, affermano, lavorano per "migliori e più umane condizioni di vita dentro il carcere" avrebbe fatto un importante passo in avanti per divenire un fatto reale. (sommario)

 

 

Una proposta doverosa e decente

 

di Francesco Seminerio

Rileggendo alcuni articoli dell’ultima edizione del periodico Idee Libere e, delle ultime iniziative socio- culturali verificatesi all’interno di Ranza, traspare in modo indelebile che alcuni piccoli ma gravosi ostacoli sono stati rimossi. Sono d’accordo con lei Direttore nonché con la dottoressa Ciompi, che in questo nuovo anno si concluderanno attività oserei dire oltre che utili indispensabili al reinserimento e alla migliore vivibilità di noi detenuti. Appunto, in estate si concluderà il primo ciclo scolastico di scuola media superiore e, per chi come il sottoscritto vuole continuare il percorso scolastico, probabilmente potrà usufruire dell’apertura della sezione universitaria, che dovrebbe essere operativa tra pochi mesi. Un’ottima esperienza a dire della popolazione detenuta nonché degli insegnanti è stata il corso della patente europea ECDL, e eccellente la possibilità di frequentare anche all’interno di un istituto di pena il bellissimo progetto CHANCE.

Leggendo la brochure alcuni espressioni mi hanno colpito: "La preparazione al lavoro è fondamentale per la riabilitazione di persone detenute e va sostenuta con iniziative a diversi livelli, fornendo a loro informazioni e coinvolgendole nella riprogettazione di sé in un "ottica di legalità". Sicuramente tale pensiero è partorito dall’articolo 27 della Costituzione, ma questo non toglie il merito a tutte le componenti che si sono adoperate per il conseguimento di tale progetto, anzi, sono grato e felice che finalmente anche gli enti esterni hanno annullato in parte le paure verso il mondo dei detenuti e, iniziano a considerare questa popolazione come parte integrante della società a cui noi tutti apparteniamo. Le finalità di questo corso professionale, finanziato con i fondi strutturali europei, sono a dir poco idilliaci se realmente coloro che frequentano il corso e che soprattutto hanno tutti i requisiti richiesti riescono ad usufruire di un posto di lavoro dignitoso, che gli permetta, oltre di vivere bene e nella legalità, di mettere in atto tutte le attitudini professionali acquisite. Per cui credo che tutti possiamo giubilare per questi traguardi raggiunti, ma appunto come detto in precedenza sono piccoli ostacoli rimossi, mentre purtroppo il pianeta carcere è perennemente invaso da altri ostacoli che, secondo il mio modesto parere, possiamo superare con l’impegno di noi tutti.

A questo punto, considerando che la popolazione detenuta, gradualmente, riesce a dimostrare la propria voglia di riscatto tramite attività socio- ricreative, come il teatro, il conseguimento della licenza di scuola media superiore, il conseguimento della patente europea ECDL etc… Gli organi istituzionali preposti si adoperano per istituire tali attività, senza ostacolarle, anzi, incentivandole; adesso spero che voi "abitanti del mondo dei regolari", siate disposte a porgere la mano verso una persona che dopo avere pagato il suo debito, vorrebbe avere un’altra chance nella vita. Con questo voglio solamente chiedere a tutti coloro che, tramite le loro attività economiche, possono assumere lavoratori, di aprire una piccola finestra anche verso il carcere, dove non troveranno "mostri" ma soggetti dediti al lavoro e con una immensa voglia di riscattarsi e di dimostrare alla società di essere degni di appartenervi. Pertanto, essendo la Toscana una delle regioni con un minimo tasso di disoccupazione, dove vigono tante attività lavorative, sappiate che molte persone sono abili al lavoro e che da quest’anno troverete detenuti con diverse attitudini professionali, anche documentabili, conseguiti grazie alle iniziative offerte e utilizzate. Concludo con un’altra frase della brochure di CHANCE: "Dentro e fuori. Fuori e dentro". Fate in modo, voi che potete, che si spezzi poco alla volta questa catena, distruttiva per tutta la società che rappresentiamo.

(sommario)

 

 

Il valore fedeltà

Purché questa parola non rimanga solo… una parola

 

di Jmila Hammou

Vorrei affrontare un argomento socio-morale delicato che esiste da quando esiste l’uomo e che interessa tutte le persone in generale, ma più drammaticamente uomini e donne detenuti esposti maggiormente al tradimento coniugale o di coppia.

Tema drammatico dentro e fuori queste mura: basti pensare a quanti omicidi e suicidi sono provocati da tradimenti scoperti o presunti. Secondo il mio modesto parere e senza offesa a nessuno, ritengo che il problema si possa avviare a soluzione solo con un ritorno prepotente alla morale di costumi più severi ed al recupero del rispetto dovuto al partner,sia esso uomo o donna: è la stessa cosa in ogni tipo di società, indipendentemente dalle tradizioni e religioni.

Fino a che non si recupereranno certi valori sembra permanere più di un motivo di legittimità visto il pessimismo che dilaga in materia: sono infatti più di quanto si immagini coloro che, costi quel che costi, scelgono di tradire la "dolce metà" soprattutto se questa è assente per lungo tempo.

Dare consigli o chiederli per questa delicata materia è opera perfettamente inutile per chi si trova in situazioni come quelle che ho conosciuto, in base a racconti e sofferenze di compagni di detenzione, sia del nostro istituto che di altri. Anche "radio carcere", che rappresenta il gazzettino fantasma semi – ufficiale dei detenuti e che contiene un ampio spazio per pettegolezzi di ogni genere, ne parla.

Ecco a voi le condizioni essenziali e i parametri tali che se dovessero mancare nei sentimenti o nei comportamenti del partner potrebbero indicare una sicura propensione ad essere traditi o a tradire.

La fedeltà è, prima di tutto, un rapporto con se stessi: se esiste questo rapporto viene scacciata dal proprio pensiero ogni altra presenza, ogni altro desiderio per far posto solo a lui o lei che né diventa così il protagonista assoluto e privilegiato. L’esaltazione dell’anima, di tale concetto – rapporto, esclude tutto ciò che di negativo è insito nell’essere umano e quindi anche ciò che potrebbe disturbare o incrinare il nostro amore o allontanarci da lui o da lei. Viene così eliminata ogni possibilità e parvenza di seduzione, ogni possibile tentazione attraverso la costruzione di una barriera protettiva attorno al cuore.

Ho conosciuto persone che hanno rinunciato ad iniziare una relazione o l’hanno chiusa amaramente per la paura di subire un tradimento, o per liberarsi dai tormenti della gelosia spesso immotivata, tenendosi alla larga dagli stravolgimenti della passione e dall’insicurezza circa la possibile disponibilità della persona amata a tradire. Con questo hanno troncato ogni possibilità di avere fonti di guai psicologici, ma è mancata loro la possibilità di ricevere dalla vita il dono forse più bello: l’amore. Si consolano, forse con i versi del Metastasio da cui trapela… un senso di sollievo, ma… "Non cangio più colore quando il tuo nome ascolto; quando ti miro in volto più non mi batte il cor". (sommario)

 

 

Attila, ovvero storia di un rondone

 

di Enzo Falorni

Attila era un rondone già adulto, probabilmente perché aveva già tutte le piume e le penne, quando l’ho trovato per le scale che portano al mio orto con un’ala ferma. Lo vide una mattina di luglio mia madre che disse: "Guarda lassù quell’uccellino per le scale!". Accorsi e dissi: "È un rondone, altro che uccellino!". Avevo già avuto un altro "Attila" tempo prima, che visse cinque o sei mesi e poi lo schiacciammo inavvertitamente perché camminava per terra, perciò sapevo che erano uccelli diffidenti. Lo portai in casa. Forse, aveva urtato i fili dell’elettricità o era caduto dal nido?

Lui non me lo poteva dire. Tutti mi dicevano di buttarlo via, che se lo mangiasse un gatto o un cane e, forse, avrebbe sofferto meno. Ma non volevo farlo morire io, visto che io l’avevo trovato. Il primo mese era selvatico e dovevo imboccarlo con lunghe… guerre. Gli davo pezzettini di carne e mi faceva pena, povero fiero principe dei cieli, lui, un uccello tra i più veloci, costretto a zampettare, con un’ala ferma lì sul pavimento.

E tutti continuavano a dirmi che lo buttassi via, tanto moriva e non si poteva addomesticare. Io voglio bene agli animali, e quando lo prendevo in mano, lo accarezzavo, gli parlavo e, col tempo, Attila aveva imparato ad aprire bocca da solo, per prendere prima le mosche morte che riuscivo a catturargli, poi anche la carne, i pezzetti d’uva, di cocomero, di pomodoro, d’insalata. Non aveva il becco adatto a mangiare, ma mi prendeva il dito e inghiottiva il bocconcino.

Io gli dicevo "Bravo!", lo tenevo in mano e lui mi guardava coi suoi occhietti neri. Pareva gradire la mia presenza e gli avevo comperato una gabbia, perché a lasciarlo libero per casa era pericoloso e lui stava dentro una specie di nido sulla lana ed usciva per arrampicarsi coi suoi unghielli alle sbarre e sulla mia mano quando aprivo la porticina.

Mi chiedo sempre: capiva che gli volevo bene? Che mi faceva pena? Che volevo esprimergli solidarietà e affetto? Chissà? Si attaccava al mio vestito, io lo tenevo in mano e talvolta mi becchettava piano. Mi rendeva i complimenti? Povero Attila! Era diventato meno lucido; aveva la coda tutta sudicia perché non riusciva a pulirsi; non era nemmeno bello, perché i rondoni non sono particolarmente graziosi e, poi, penso, che lo pizzicò una vespa o uno scorpione o roba simile, perché gli gonfiò una zampina e credevo che morisse per quello. Gli ci davo sopra la cipolla o una pomata, ma stette così più di venti giorni. Lo portavo con me per dargli da mangiare e, forse, tutti questi spostamenti gli nocevano (avrà preso la polmonite?), ma non sapevo come fare.

Gli si erano alzate le piume, non voleva più mangiare, era sempre freddo e gli era di nuovo gonfiato la zampetta. Eppure, povero Attila, quando lo imbeccavo, si sforzava d’inghiottire. Finché una sera non voleva stare nel nido e si trascinava fino allo sportellino della gabbia per farsi prendere in mano. L’ho tenuto parecchie ore con me, ma poi dovetti andare a letto e metterlo nella sua scatola dentro la gabbia.

Al mattino, come pensavo, lo trovai morto, con gli occhi aperti, in un angolo, nel tentativo di uscire dalla scatola e, forse, povero Attila, mi aveva cercato per un ultimo momento di calore e d’amicizia.

L’ho sepolto nell’orticello ai piedi di un roso rampicante e ne sarà contento. Spesso mi dico che era meglio se non l’avevo trovato, eppure questa esperienza d’affetto, questa smentita della selvatichezza degli animali mi ha fatto bene.

Credo che ogni persona come ogni animale per quanto selvatico o scostante che sia, se riusciamo a far capire che agiamo con buone intenzioni riusciremo a far uscire in lui la parte più buona che ha: il cuore. (sommario)

 

 

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