Idee Libere n° 11

 

Idee Libere

Periodico della Casa di Reclusione Ranza di San Gimignano

Anno III -  numero 11, giugno - luglio 2004

 

Droga: pura e vera utopia

Il "decreto Fini" e la linea dura

Ora le comunità hanno un ruolo

Un parere discorde: meno punibilità e più terapie

Un arricchimento personale

Prostituzione e droga

Per il Welfare uguale per tutti

Stress

Il teatro come gioco

Insegnare in carcere

Miele di campagna

Lo spettacolo del fuoco

Rozafa e il castello misterioso

Nessun vinto, tutti vincitori

Droga: pura e vera utopia

 

di Francesco Seminerio

Ormai è di normale routine leggere o ascoltare dai media notizie in merito alla droga, alla tossicodipendenza e purtroppo alle conseguenze generate da questo veleno che in alcuni casi conduce alla morte. Pochi sono immuni da questa piovra e, come tutto del resto, anche la droga ha seguito il cammino dell’evoluzione, partorendo sostanze sconosciute ma talmente nocive che anche se assunte in piccoli dosi, creano danni irreversibili non meno nelle classi all’apparenza a basso rischio, quali: il mondo dello spettacolo, il mondo dello sport, il mondo della politica…

Riconoscendo a pieno merito il lavoro lusinghiero e lodevole delle varie comunità (San Patrignano, la Comunità Incontro, Papa Giovanni XXIII…) credo che il linfoma debba essere curato a monte e non a valle. Semplicemente con questo voglio dire che, sono nate nel ciclo scolastico nuove discipline, come ad esempio la lingua straniera a partire dalle elementari o le multi- religioni. Si potrebbe allora educare e far conoscere gradualmente il mondo della droga e come prevenirlo.

Concorderemo tutti che la scuola gioca un ruolo importantissimo e significativo nella formazione personale e culturale dell’essere umano, quindi potrebbe essere utile "istruirli" su questa piaga sociale, in modo da evitare un futuro approccio a questo percorso senza uscita. Seguendo questa tesi, anche coloro che sfortunatamente si sono impantanati in questo male sociale potrebbero essere "adoperati", poiché con le loro testimonianze e i loro racconti di vita, aiuterebbero senz’altro a comprendere la gravità del problema.

Sinceramente è impensabile che questi "incontri guida" possano avvenire nelle scuole elementari, però se appunto dalle elementari questo problema fosse trattato con coscienza e professionalità, magari a partire dal primo anno di scuola superiore, i ragazzi avrebbero più consapevolezza del danno fisico ma soprattutto psichico che una banale "canna" può causare. Sarebbero anche in grado di interagire con persone che gratuitamente e bonariamente gli indicherebbero i percorsi errati da evitare. Per quest’ultimi, tali incontri sarebbero di notevole importanza, poiché dopo tanta sofferenza e un programma rieducativo molto complesso e faticoso, avrebbero modo di constatare i propri risultati e sentirsi realmente utili ai propri simili, che erroneamente molte volte li considerano appartenenti ad un altro mondo da cui proteggersi.

Questa riflessione può apparire come una vera e pura utopia, ma analizzandola nel suo contenuto e soprattutto elaborata da persone competenti e professionali, potrebbe essere un ottimo deterrente per circoscrivere questa piovra, che ha allungato i suoi tentacoli per tutto il territorio creando migliaia di vittime. (sommario)

 

 

Il "decreto Fini" e la linea dura

Possedere sostanze diventa un reato. La dose minima giornaliera serve a stabilire la natura della condanna: amministrativa o penale

 

di Enzo Falorni

Una svolta autoritaria e in controtendenza rispetto all’Europa per alcuni, una legge che mette al primo posto la prevenzione e dice con chiarezza che la droga fa male per altri. Il disegno di legge di revisione della 309/90 (legge Jervolino) approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 13 novembre e voluto soprattutto da Gianfranco Fini sta facendo discutere la società ma più ancora gli operatori del settore, tra i quali si registrano divisioni anche profonde sulla filosofia e sui possibili effetti di una norma che senza mezze misure mette la droga fuorilegge, introducendo la punibilità anche di chi detiene piccole quantità, sebbene si tratti, in questo caso, di punibilità amministrativa e non penale.

No alla cultura dello sballo

Il principio è chiarissimo, ed è stato spiegato in più occasioni dallo stesso vicepresidente del Consiglio. Sia nell’annunciare l’intenzione di mettere mano alla Jervolino, l’estate scorsa, sia nello spiegare i punti principali del testo, Fini ha dichiarato che occorre "negare che esista una cultura dello sballo, mettere chiaramente nella testa dei giovani e meno giovani che non è vero che una pasticca serve a rendere allegra una serata". E a proposito della terapia di mantenimento attraverso il metadone, ha aggiunto: "Io mi indigno di fronte all’egoismo di una società che dice al tossicodipendente: "io ti do il metadone, tu te ne stai in un angolo come un relitto e non dai fastidio alla società, non disturbi la quiete della buona borghesia". Siamo arrivati a questo, il recupero è un aspetto ancora più importante".

Torna la dose minima

Rispetto alla vecchia normativa il cambiamento è, come si vede, totale. Si torna al concetto di dose minima giornaliera, introdotto nel 1990 e cancellato tre anni dopo da un referendum. Ma la soglia fatidica non decreta la punibilità del possessore, bensì la natura della punizione. Anche la detenzione di una minima quantità di sostanza, quindi, è illegale e comporta una sanzione. Amministrativa se si stabilisce che la droga serviva per uso personale. Penale, con condanne fino a venti anni, se il principio attivo supera i limiti stabiliti nelle tabelle in allegato alla legge e che riportiamo in queste pagine. Anche per chi resta al di sotto della dose minima, comunque, scatta l’obbligo di seguire programmi educativi e di recupero. È, questo, uno dei punti più contestati della legge, dal momento che sembra difficile dissuadere le decine di migliaia di giovani che girano con in tasca uno spinello.

Le sanzioni scattano fin dal primo fermo. Abolito l’ammonimento del prefetto previsto dalla vecchia legge. Si sceglie il rigore

In sostanza, quindi, la proposta di legge Fini riprende in mano la spinosa questione della tossicodipendenza con uno spirito sicuramente rigoroso, nel senso che cancella qualsiasi malinteso sulla pericolosità delle droghe. Possedere o assumere sostanze è illegale e pertanto punibile, a meno che il soggetto non dimostri di voler seriamente intraprendere un percorso riabilitativo. In questo senso, la legge mette chiarezza in un quadro che il referendum del 1993 aveva reso incerto, con una tolleranza di fatto della dipendenza, soprattutto per quanto riguarda la cannabis e le droghe leggere in genere.

Ogni confusione scompare con questo disegno legge. Sarà il tempo a stabilire se la linea dura voluta dal governo è utile per combattere uno dei principali mali della società moderna.

La legge punto per punto

Ecco i due articoli fondamentali del ddl Fini, quelli che riguardano la detenzione e spaccio.

Articolo 72. Attività illecite.

  1. Sono vietati l’uso e qualunque impiego di sostanze stupefacenti e di sostanze psicotrope non autorizzati secondo le norme del presente testo unico.

Articolo 73. Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e di sostanze psicotrope

  1. Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti e sostanze psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000.

1 bis. Con le medesime pene è punito chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:

  1. sostanze stupefacenti e sostanze psicotrope che risultano in quantità superiore a quella indicata nella tabella I allegata al presente testo unico ovvero che, per modalità di presentazione, con riguardo al peso lordo complessivo, al confezionamento frazionato o ad altre circostanze dell’azione, appaiono destinate a terzi o comunque ad un uso non esclusivamente individuale; (…)

  1. Le stesse pene si applicano a chiunque coltiva, produce o fabbrica sostanze stupefacenti e sostanze psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione. (…)

  5.  Quando, per i mezzi, per la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di live entità, si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000.

5. bis Nell’ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui all’art. 73, comma 1 bis, commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti e di sostanze psicotrope, il giudice (…) può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità.

  1. Se il fatto è commesso da tre o più persone in concorso tra loro, la pena è aumentata. (…)

Art 75. Condotte integranti illeciti amministrativi.

  1. Chiunque illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti e sostanze psicotrope fuori dalle ipotesi di cui all’art. 73, comma 1-bis, o medicinali contenenti sostanze stupefacenti e sostanze psicotrope elencate nella tabella II, sezione B e C, fuori delle condizioni di cui all’art. 72, comma 2, è sottoposto, per un periodo non inferiore a un anno, a una o più delle seguenti sanzioni amministrative:

  1. sospensione della patente di guida o divieto di conseguirla;

  2. sospensione della licenza di porto d’armi o divieto di conseguirla;

  3. sospensione del passaporto e ogni altro documento equipollente o divieto di conseguirli;

  4. sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o divieto di conseguirlo se cittadino extracomunitario. (…) (sommario)

 

 

Ora le comunità hanno un ruolo

La proposta Fini attribuisce pari dignità a pubblico e privato. In questo modo ciascuno sarà libero di scegliere il proprio percorso di riabilitazione

 

Sono "prevenzione, repressione e recupero" le tre direttrici indicate dal vicepresidente del Consiglio per sintetizzare la nuova strategia antidroga governativa. Alla voce recupero sono diverse le sottolineature fatte. In particolare ritorna l’affermazione della validità dei programmi comunitari. La nuova legge prevede il divieto di uso e di impiego di sostanze stupefacenti. Sarà punita anche la semplice detenzione di droga. C’è poi un salto di qualità, si punta al recupero dei tossicodipendenti. A cura dello Stato.

Comunità e Sert

A questo riguardo viene sancita la pari dignità tra servizi pubblici e privati. Ora anche le strutture private, le Comunità, potranno fare diagnosi e definire i programmi terapeutici. Verrà data anche a loro la possibilità per "il rilascio della certificazione attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcoldipendenza e la procedura con la quale è stato accertato l’uso abituale di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche".

Va ribadito che il privato sociale che compie tale attività, deve essere iscritto all’albo regionale. Devono essere rispettati determinati requisiti che il testo della legge prevede e che noi sottoscriviamo totalmente, per garantire professionalità e competenza.

Alternativa al carcere

Viene riaffermato il concetto che quando "l’interessato ritenga di attuare il programma presso strutture private di cui all’art. 120, comma I, la scelta può cadere su qualsiasi struttura situata nel territorio nazionale che dichiari di essere in condizione di accoglierlo". Ancora, questa legge dà la possibilità ai tossicodipendenti che sono in carcere di poter accedere - già questo avveniva prima - più facilmente a scontare la pena nelle Comunità.

Tant’è che propone proprio le Comunità di recupero come alternativa al carcere. La pena che si può scontare in comunità anziché in carcere ora è più lunga: da quattro mesi a sei anni. Il ddl ribadisce chiaramente il valore e l’opera delle comunità. Dà loro un ruolo ben definito e una propria identità. L’esperienza di decenni ha portato le comunità a rinnovarsi e usare nuovi modi e metodi d’intervento. Ci troviamo davanti a un fenomeno di tossicodipendenza che comporta diversi problemi. Si devono affrontare le cosiddette nuove droghe, i consumatori di cocaina, l’età dell’iniziazione che si abbassa sempre più, - comunità per minori e adolescenti - il problema dei quarantenni con gravi problemi di salute…

Tutto questo richiede un forte sforzo di rinnovamento. È ormai sorpassata la tesi che voleva affidare il recupero totalmente ai Sert o alle comunità. Ora la maggior parte degli operatori del privato e del pubblico sa distinguere gli ambiti operativi e complementari dei propri e altrui interventi.

Afferma lo psichiatra Giuseppe Mammana: "Si riteneva che negli ultimi anni si fosse generato un evidente squilibrio tra le risorse investite nel contenimento del fenomeno con la strategia definita di riduzione del danno e quelle investite nelle cure finalizzate alla riabilitazione al reinserimento dei tossicodipendenti che scelgono un percorso terapeutico.

Si confrontano e si scontrano due modi di leggere il fenomeno e le risposte ad esso, ai quali forse a ciascuno appartiene una parte di verità scientifica, ma non trova ancora il giusto modo di definire i loro spazi di riconoscimento reciproco, interazione ed integrazione". Un’integrazione quindi che mette i diversi interventi a confronto, senza la presunzione miracolistica che vuole riservare alle proprie competenze risultati inconfutabili.

La pari dignità non è quindi da considerare solo un diritto legittimo da conseguire o un riconoscimento scientifico per conferire alle competenze del privato sociale una certa vidimazione.

La pari dignità è un valore soprattutto di collaborazione tra pubblico e privato sociale per garantire al soggetto disagiato risposte esaustive, percorsi con esiti sempre più validi.

La stessa riduzione del danno che serve per agganciare il tossicodipendente e staccarlo dal rischio, richiede poi un ambiente terapeutico di contenimento e di controllo per la disassuefazione e ricostruzione della personalità. Dove non esiste la collaborazione tra Sert e comunità, vengono meno le diverse possibilità di recupero. (sommario)

 

 

Un parere discorde: meno punibilità e più terapie

 

di Lucia Luciano

Prevenire, recuperare e reprimere" queste sono le tre leve su cui agire, dice Fini, per combattere la droga; una lotta senza compromessi, che esclude ogni distinzione tra droghe leggere e pesanti riunendole in un’unica tabella; che punisce non solo l’abuso ma anche l’uso (cancellando l’esito del Referendum del ‘93); che punisce allo stesso modo il giovane che fuma uno spinello - il tossicomane gravemente compromesso – lo spacciatore e il trafficante internazionale, annullando la necessità, secondo ONU e Unione Europea, di distinguere in modo netto e inequivocabile il crimine del traffico dal dramma del consumo e della dipendenza.

Con questo disegno di legge si è spostata l’analisi del problema dal piano sociale a quello di ordine pubblico in controtendenza con quanto avviene negli altri paesi europei, che hanno scelto, in forme diverse, di spostare il centro delle politiche di controllo delle droghe dal penale al sociale, in particolare investendo sulla riduzione del danno.

Un disegno di legge contro tutti, contro i tossicodipendenti e contro chi da anni li affianca in un percorso difficile e complesso. La miopia di Fini è proprio nell’avere ignorato le esperienze decennali degli operatori del settore, nell’essersi sottratto al confronto con le comunità, con i servizi pubblici (Sert), con gli enti locali, nell’avere sottovalutato la complessità della realtà che ruota intorno al consumo di droghe; una realtà che coinvolge fasce sempre più ampie della popolazione espandendosi trasversalmente alle generazioni, dal ragazzo che "fuma" saltuariamente al professionista che "sniffa" cocaina; realtà che prevede l’uso contemporaneo di sostanze diverse, fra cui le "legali" alcool e nicotina, tollerate, anche se altrettanto pericolose, dalla nostra società e da chi governa. Credere che punire chi "trasgredisce" e obbligare alla "rieducazione" attraverso programmi terapeutici in strutture private e pubbliche, sarà la soluzione al problema della droga, ignorando il fallimento della strategia dell’innalzamento delle pene già sperimentata, è una semplificazione banale, probabilmente per tacitare le coscienze.

Il binomio punizione/riabilitazione, cardine della proposta Fini, è un’incompatibilità schizofrenica che mal si coniuga anche con quanto espresso dal Piano Sanitario Nazionale 2003-05 in relazione alle "nuove politiche del governo in materia di tossicodipendenze orientate alla prevenzione, al recupero del valore della persona nella sua interezza e al suo reinserimento a pieno titolo nella società e nel mondo del lavoro", peraltro con una palese invasione nelle competenze delle Regioni, cui spetta la programmazione in tema di riabilitazione.

Come si pensa di ottenere quanto proposto se lo strumento educativo è una "punizione esemplare", se l’intervento punitivo è prevalente su quello terapeutico e se l’alternativa al carcere è la "cura obbligata in comunità pubblica o privata", ignorando la persona, il suo vissuto la sua volontà, in una sorta di trattamento sanitario obbligatorio per i tossicodipendenti? Come è sostenibile che la carcerazione, vista la situazione già oggi intollerabile ed esplosiva, sia utile per superare la tossicodipendenza nel momento in cui rimangono inalterati gli elementi base della dipendenza?

Con quali fondi si pensa di intervenire se le risorse impegnate dall’attuale governo in questo settore sono del tutto inadeguate, se gli organici dei Sert sono progressivamente ridotti, se le risorse per i servizi sociali dei comuni sono diminuite a causa dei tagli agli enti locali?

Nella comune lotta alla droga e ai danni che provoca, occorre, forse, spostare i termini del ragionamento, e prima di nuove leggi occorre una strategia su come contrastare un mercato che punta oggi su consumatori più o meno occasionali che su tossicodipendenti, trasformandolo da fenomeno di emergenza con un inizio ed una fine, ad un fenomeno di "beni di consumo" a diffusione ampia. E solo puntando sull’educazione, sulla prevenzione e su una rete capillare di servizi si può incidere modificando gli stili di vita, non certo con un atto legislativo punitivo e repressivo che produrrebbe molti più effetti negativi di quanti positivi si possa sperare. (sommario)

 

 

Un arricchimento personale

 

di Pietro Accardi

Traendo spunto purtroppo dalla mia esperienza detentiva, vorrei trattare una prospettiva della tossicodipendenza che tutti noi per forza maggiore abbiamo vissuto. Per meglio dire, è assodato che il carcere è un ambiente promiscuo e specialmente nelle case circondariali, luoghi di prima accoglienza per tutti i detenuti vi sono veri e propri assemblaggi di persone umane, è quindi normale routine che in stanza vi aggiungano un detenuto tossicodipendente, che nell’arco di poche ore è in piena crisi d’astinenza.

Tengo a precisare che tra poco festeggerò il mio primo mezzo secolo di vita e, prima appunto della detenzione, non avevo mai vissuto un’esperienza del genere, anche perché nell’era della mia giovinezza ancora non si era diffusa questa piaga della droga e le uniche sostanze "stupefacenti" erano le sigarette e gli alcolici. Lascio immaginare a voi tutti, cari lettori, il mio stato d’animo quando l’agente apri il blindo e si unì a noi un nuovo compagno di sventura.

Dopo i primi convenevoli cercando per quello che si poté di mettere il nuovo compagno a suo agio, mi accorsi che era molto nervoso, ma di un nervoso allora a me sconosciuto. Il ragazzo dopo aver fumato l’ennesima sigaretta, con molta sincerità ci disse che era un tossicodipendente e che da lì a poco avrebbe avuto una crisi d’astinenza, espressione fino a quel momento non facente parte del mio vocabolario. Fui preso dal panico non sapevo di cosa si trattasse e come mi sarei dovuto comportare non conoscendo il fenomeno che mi preoccupò molto.

Prima di andare a dormire l’infermiere gli diede dei calmanti che in teoria dovevano permettergli di dormire e di attutire i dolori ma, in poche ore cominciò a lamentarsi e aggrovigliarsi nel letto. Nel frattempo avevo vegliato ogni sua mossa e forse spinto da un comportamento paterno, poiché il ragazzo aveva l’età di mio figlio, scesi dal letto gli preparai una camomilla e per non dilungarmi molto trascorremmo la notte a parlare di cose banali.

Questo "cursus" si protrasse per 3/4 giorni e notti, ma dopo averlo visto "rinato" e sereno, il mio cuore traboccò di gioia. Dopo poche settimane lui uscì in affidamento ad una comunità per il recupero dei tossicodipendenti e da allora non ho avuto più sue notizie, anche perché mi disse che non poteva avere corrispondenza almeno per i primi periodi con nessuno, escluso i suoi familiari.

Non dimenticherò mai il suo sguardo quando salutandomi dinanzi al blindo mi confidò che, grazie al mio aiuto incondizionato, avrebbe cercato con tutte le sue forze di uscire da quest’orrendo tunnel.

Spero di vero cuore che i suoi propositi si siano avverati e che adesso conduca una vita normale. Come tutte le esperienze, anche questa del resto è stata molto indicativa e importante per il sottoscritto, nel senso che dopo una prima sensazione di paura ho vissuto con lui le sofferenze e quando superò la crisi d’astinenza, le gioie, poiché mi sentivo vincitore di una piccola battaglia e arricchito dentro.

Spero che questa mia esperienza possa aiutare chi, come il sottoscritto, era molto diffidente e preoccupato di avere un compagno/amico tossicodipendente, poiché anche in quelle condizioni sono persone che possono dare molto più di quello che si pensi, credetemi. (sommario)

 

 

Prostituzione e droga

Due mali tra loro legati e un guadagno indegno

 

di Francesco Seminerio

Una "piaga" connessa al mondo della droga è lo sfruttamento della prostituzione. Purtroppo molte donne vittime della tossicodipendenza vendono il loro corpo per la strada, a volte diffondendo malattie infettive anche letali come l’Aids, o partorendo figli senza volontà che nella maggior parte dei casi hanno ingiustamente il destino segnato. Anche questo male si è diffuso a macchia d’olio per tutto il territorio e per porre fine a ciò, il Consiglio dei Ministri il 20 dicembre 2002 ha presentato un disegno di legge (Fini – Prestigiacomo – Bossi) che, a dire di molti, favorisce lo sfruttamento della prostituzione. Tra i maggiori sostenitori di quest’ultima tesi troviamo Don Oreste Benzi dell’associazione Papa Giovanni XXIII, che da anni si batte in favore delle classi meno abbienti e per le problematiche sociali. In sintesi Don Oreste dice chiaramente che se dovesse essere approvato il detto disegno di legge, il governo diventerebbe di fatto il primo favoreggiatore dello sfruttamento della prostituzione; poiché tale disegno sostiene che non è punibile per reato di favoreggiamento aiutare un altro a prostituirsi e che non è più reato di favoreggiamento dare in affitto o prendere in affitto locali per esercitare la prostituzione.

Ai fini di evitare il tutto, l’associazione Papa Giovanni XXIII ha raccolto 110 mila firme (ne bastavano 50 mila) per la presentazione al Parlamento di una proposta di legge di iniziativa popolare per la liberazione delle schiave del sesso e per lo stop alla tratta degli esseri umani ai fini dello sfruttamento della prostituzione; sostengono infine di essere pronti ad organizzare un referendum abrogativo, se venisse approvata la legge proposta dal Governo. Effettivamente ritengo immorale e disumano vivere o trarre guadagno e ricchezza dallo sfruttamento dell’essere umano, nella fattispecie della donna, che considero il bene supremo dell’umanità. Ma attenendosi alla realtà è da stupidi ignorare o smussare il problema, è paradossale assumere un comportamento di totale indifferenza e poi trovare luoghi di periferia dove, specialmente la notte, vengono esposti e venduti corpi umani, come se fosse un comune mercato. È disgustosa anche la proposta di convogliarli tutti in determinati luoghi o quartieri, sarebbe come ghettizzarli e alle soglie del terzo millennio oltre ad essere assurdo è soprattutto ignobile.

È pur vero che molti uomini/donne trovano enorme piacere nello sfogo sessuale con partner diversi, però oggi viviamo in piena democrazia e sono nati in tutto il mondo "locali" per il ritrovo di tutto e di tutti. Per cui condivido la proposta di Don Oreste, poiché in un paese civile edificato sui principi inviolabili dell’essere umano, non si può accettare che vengano erogate somme di denaro in cambio di prestazioni sessuali e che questo male dev’essere estirpato; soprattutto in considerazione che persone immorali e indegne si arricchiscono sfruttando il corpo dei propri simili. Concludendo, voglio citare una frase molto significativa e importante: il grado di civiltà di un popolo lo si misura con il grado di rispetto che ha per la donna. (sommario)

 

 

Per il Welfare uguale per tutti

 

di Gaspare Como

Considerando che dopo il 2° e, speriamo ultimo conflitto mondiale, fino ai giorni nostri la nascita e l’evoluzione dello stato sociale è espressiva e importantissima; perché realmente lo stato, inteso come struttura provvidenziale e sociale risultato essere il carro trainante dello sviluppo tecnico- industriale, ma soprattutto umano di quasi tutta l’Europa.

Premettendo che l’evoluzione ha mutato sostanzialmente gli obiettivi e, di conseguenza, i percorsi di realizzazione del Welfare State, in particolare toccando cime di distruzioni notevoli durante gli anni 80, in cui lo stato da sociale divenne assistenziale. Per cui, secondo il sottoscritto, è doveroso rimboccarsi le mani, per ripartire dal basso, poiché tutta la popolazione, soprattutto le classi meno abbienti, hanno bisogno per la loro vivibilità dell’aiuto statale.

Tutto questo deve essere attuato anche sotto forma d’incentivi economici, che permettono lo sviluppo della micro- economia, polmone indelebile dell’economia italiana. In questo contesto, premettendo il mio stato detentivo, vorrei evidenziare che in questa società tecnologicamente avanzatissima, dove la telecomunicazione ha abbattuto tutte le barriere architettoniche, in cui il deterrente unico dell’economia è il Welfare, è illogico e assurdo ammettere che nessuno si è adoperato per creare impieghi ad una delle classi sociali meno abbienti: i detenuti.

Analizzando il principio di Welfare e la sua evoluzione, è vitale non isolare e denigrare coloro che, pur avendo sbagliato, stanno pagando con onore e dignità i propri errori; ma al contrario lo Stato dovrebbe reintegrarli e usare le loro esperienze in modo da evitare i loro "cursus" alle nuove generazioni, magari creando una nuova "professione" di "sociologi carcerari". Questi "esperti" potrebbero essere utili per giovani in difficoltà, fare consulenze o aiutare nei casi di disagio giovanile e non solo.

Secondo il sottoscritto, il principale errore del passato, commesso dallo stato, è quello di ignorare che gli eventi negativi, per "la legge di gravità" si ripercuotono a catena su tutta la popolazione. Per cui è giunto il momento, di considerare tutta la razza umana allo stesso modo, senza esclusione alcuna. (sommario)

 

 

Stress

 

di Jmila Hammou

Da parecchio tempo ormai si parla di stress, quasi nel tentativo di identificare un qualcosa di non definito, che però, in funzione delle varie e molteplici sollecitazioni a cui l’uomo moderno è sottoposto, influisce sulla qualità della vita. Sicuramente, tutto ciò è vero ma lo sono anche due considerazioni ulteriori: lo stress è sempre esistito, oltre che psicologico, lo stress è anche un fattore biologico.

In riferimento al primo punto, ferme restando le difficoltà della vita odierna, non oso pensare che rimanere incastrati nel traffico cittadino possa essere peggio, ad esempio, di non avere cibo, essere vittime di oppressioni e di guerre o stare in prigione soprattutto per un non breve periodo, e quant’altro. Gli esempi sopra citati non hanno il significato di una classifica dei fattori più o meno stressanti, ma quello di evidenziare che i termini di insorgenza dello stress sono profondamente legati, oltre che all’intensità degli stimoli esterni, anche e forse di più, alle capacità di risposta dell’organismo (e cioè al suo equilibro energetico).

Tali meccanismi si evidenziano, e questo è il secondo punto, anche biologicamente con una serie di reazioni del sistema nervoso che gli consentono di affrontare nel migliore dei modi la componente stressogena, tipo un’attività eccitatoria o sportiva, ma anche inibitoria (rallentamento del ritmo cardiaco, ipotonia muscolare), e sono tutte metodiche con le quali l’organismo cerca di mettere in atto modalità di adattamento.

Se queste hanno successo, lo stress rientra entro parametri normali. In caso contrario l’organismo resta esposto e rischia di entrare in una fase di esaurimento in cui vi è un’incapacità reattiva migliorabile soltanto con la riduzione dei fattori scatenanti. Certo, in una società condizionata dalla velocità con tutto quello che riserva, esiste una maggior esposizione all’ansia e lo stress, a differenza delle generazioni passate che avevano un modo diverso di affrontare la vita, in cui l’aspetto umano era maggiormente presente.

Non intendo con ciò soltanto parlare di valori morali, ma mi riferisco soprattutto ad un diverso modo di relazionarsi, magari apparentemente più duro, ma sicuramente più vero ed esplicito di quello che regola la società odierna. L’insieme di questi condizioni, indubbiamente, influisce sul nostro stato d’animo, generando ansia, insicurezza, e paura del futuro. Ecco perché il ritorno al corpo ed alle sue funzioni psicofisiche è indispensabile, non soltanto come strumento di collegamento con le proprie emozioni, ma anche come forma di collegamento con gli altri e di personale revisione morale e spirituale. (sommario)

 

 

Il teatro come gioco

 

di Antonio Ragusa

Dopo anni di sofferta rassegnazione, continuavo a parlare di pazienza, quando per i misteri che regolano la nostra vita, che è sempre una lotteria, la Direzione di questo istituto di pena ci ha dato la possibilità di essere contattati settimanalmente da altri nuovi volontari della Misericordia di Siena, appassionati di teatro e musica.

La drammaturgia

Erminio Jacona è l’esperto di teatro, nonché un istrione della recitazione, che con la sua disponibilità ed allegria si è promesso di non farci ricordare, per qualche ora, il nostro stato di detenzione e strapparci un sorriso che costa meno dell’elettricità ma fa più luce.

Dunque, Erminio con l’assistenza di Saviana Chiaramonti e Bruna Matteagi (altre due volontarie della Misericordia) ci ha proposto di raccontare, attraverso il Gioco del teatro (corso di drammaturgia a cui possono partecipare tutti i detenuti dell’isolamento) tre piccole storie vere di gente comune accadute, sul finire del Medioevo, a Siena e nel suo territorio. Queste piccole storie, specchio reale dei tempi, non sono state riprese dai libri di storia, bensì da antichi documenti conservati nell’Archivio di Stato di Siena, tradotti dal latino ed adottati per la scena dal nostro regista. Erminio, per meglio farci entrare nel Gioco ci ha portato, in visione, le copie fotografiche dei documenti originali e la pianta dell’antica città di Siena, su cui abbiamo ripercorso i luoghi delle nostre piccole storie aiutandoci anche con la fantasia. Nella sostanza il piccolo spettacolo che stiamo montando è strutturato in tre scene che raccontano tre storie diverse accomunate dal dolore, dalla miseria e per certi versi dall’amore… Sentimenti che vanno però scoperti da chi vede e ascolta.

Il Principe dei Ribaldi, la prima storia accaduta nel 1413, narra di un accordo tra il capitano senese Antonio Bellanti - che ha il compito preciso di ripulire il territorio Amiatino da una banda di ribaldi e ladroni capeggiata da un astuto Slavo (ieri come oggi?) di nome Giovanni soprannominato dalla fantasia popolare "Il Principe"- e Antonio di Petruccio, detto Antonio del Lago, ora per convenienza delle parti, collaboratore di giustizia.

Gardo di Ciello, la seconda storia accaduta nel 1414, narra di un tal Gardo di Ciello contadino che affitta come servo il proprio figlio Giovanni a un notaio senese per 15 anni. Il contratto di affitto viene sottoscritto dalle parti ma quello che può apparire un fatto innaturale è invece un atto di amore dettato dalla miseria: secondo i termini del contratto l’undicenne Giovanni avrà per 15 anni vitto in abbondanza, potrà studiare e non sarà obbligato a fare lavori gravosi.

La roba degli Ugurgieri, la terza e ultima storia accaduta nel 1463, narra una storia d’amore: Caterina, schiava di Azzolino Ugurgieri, si è concessa per amore a Giovanni da Grotti, giovane popolano da cui attende un figlio. Azzolino pretende, e la legge gli da ragione, di aver subito un danno economico di cui chiede il risarcimento. Invano il fratello Giovanni, abate del monastero del Monte Amiata, vorrà indurlo al perdono; Azzolino prosegue per la sua strada perché un danno economico così rilevante non può essere passato sotto silenzio. (sommario)

 

 

Insegnare in carcere

 

di Francesco Giglioli, insegnante Igea

nella Casa di Reclusione di San Gimignano

La mia esperienza del carcere è abbastanza limitata; infatti è solo il secondo anno che mi trovo ad insegnare Geografia economia agli studenti detenuti che seguono il corso di Igea per Ragionieri curato dall’Istituto "Roncalli" di Poggibonsi. Qualche tempo fa un articolo di Senio Sensi su questo giornale nel quale, tra l’altro scriveva: "Ma vorrei anche che il carcere non fosse tortura. Vorrei che approfittassero di questo momento, più o meno lungo, per crescere come uomini, per imparare a rispettare il prossimo e le leggi. Molti lo fanno. Ma vorrei anche che l’opinione pubblica capisse che la colpa non si cancella calpestando la dignità del colpevole, vorrei si insegnasse loro a lavorare, a pensare positivo, e metter la loro intelligenza al servizio del bene, a recuperare valori perduti talvolta non per colpa loro". Percepii in queste parole la sua profonda conoscenza della realtà carceraria, e come un’allusione a questioni davvero basilari e misteriose come il delitto, la colpa, la pena, l’espiazione.

Problemi che hanno sempre accompagnato gli esseri umani fin dai primordi. Freud, nella sua opera intitolata "totem e tabù", sostiene che "la società si poggia su una colpa comune, su un crimine di cui tutti sono stati complici"; e come dire colpa ed espiazione sono le basi della vita umana. Forse un modo per mitigare questo ineluttabile stato di cose è tentare di capirsi, di venirsi incontro, di stabilire rapporti cordiali, forse persino amichevoli. Ed effettivamente fare l’insegnante in carcere è qualcosa di diverso nel farlo nelle scuole ordinarie. Non puoi non dare spazio al rapporto umano, non puoi mantenerti distaccato e freddo, anche perché ti rendi davvero conto che il nozionismo, forse sempre inefficace, qui è davvero fallimentare. Perché a un certo punto ti chiedi se davvero è importante per gli studenti detenuti sapere la sua materia a menadito, o non piuttosto imparare ad interessarsi, accendere nell’anima un’idea, un’intuizione, una curiosità verso il mondo là fuori, quel mondo che li ha sconfitti, puniti, vinti, ma che forse avrebbe avuto bisogno anche di loro, ha bisogno anche di loro, loro che pensano positivo, che mettono le loro intelligenze al servizio del bene, loro che recuperano valori perduti talvolta non per colpa loro. (sommario)

 

 

Miele di campagna

 

di Alessandra Cencini, insegnante Igea

nella Casa di Reclusione di San Gimignano

La vita, a volte, è veramente strana. Nel corso degli anni si avvicendano situazioni e circostanze che, in apparenza, sembrano banali, ma, poi, nel ricordo divengono curiose e incomprensibili. Generalmente, presi dalla fretta del vivere quotidiano, si percorre il presente senza farsi tante domande "esistenziali". È necessario esseri concreti. Spesso si va alla ricerca di una tregua alla follia cittadina nella campagna e una gita, fatta in un giorno di sole, resta impressa nella memoria.

Essa diviene una pausa salutare, l’occasione per respirare un po’ d’aria fresca e pura. Ricordo le motivazioni di quella lontana gita nei pressi di San Gimignano. Mi avevano indicato un posto dove comprare cibi genuini. Sapevo che costavano un po’ cari, ma erano buoni e, poi, potevamo portare la "cittina" a vedere conigli, galline, anatre e a fare una corsa nei prati. Arrivati a destinazione, dopo una strada tortuosa, vedemmo un gruppo di case, filari di viti, alberi da frutto e, in un recinto cagnolini da caccia nati da pochi giorni. Comprammo vino, uova fresche, ortaggi e soprattutto, un miele dal colore dell’ambra.

Uno squisito miele di campagna come ormai non si trova più. Tornammo altre volte alla fattoria per fare provviste ma, un giorno, ci dissero che il luogo sarebbe notevolmente cambiato, in un certo senso " modernizzandosi". Iniziavano grandi lavori di sbancamento, ma non per razionalizzare il percosso stradale o costruire lotti di villette da utilizzare come residenze campestri.

Anzi un giornalista, che aveva comprato una casetta là vicina come "buon retiro", era piuttosto preoccupato. Egli credeva di aver fatto un valido acquisto perché un anziano, ormai solo, aveva venduto a buon prezzo, dicendo: "Che ci faccio a coltivare la terra?". D’inverno a Ranza la tramontana è terribile non si trova un posto alla biseandola ed io ho l’artrite. Devo stare sempre nel canto fuoco a bere latte caldo e miele. Ormai è inutile rimanere tra queste colline, voglio una casa piccola ma con il riscaldamento. Strana storia… Certo, allora, non avrei immaginato quello che oggi vedo: un carcere dove insegno!! (sommario)

 

 

Lo spettacolo del fuoco

 

di Enzo Falorni

Marcellino ricordava i momenti più belli delle vacanze passate: rievocava un caminetto nella casa di famiglia, con le fiamme alte e poi le braci sempre pronte a riaccendersi. È il simbolo della vita, gli diceva lo zio: la vita che può riprendere con forza anche dopo un periodo di difficoltà.

In attesa delle prossime vacanze, Marcellino pensava che fosse possibile ricordare gli episodi più belli di quelle passate e che, per il semplice fatto di ricordarli, potesse ancora riviverli. Uno degli scherzi straordinari della memoria, infatti, è che il passato nel ricordo diventa attuale. "Passato, ma presente", gli era venuto da dire, anche se una simile conclusione era bene non riferirla alla professoressa di italiano che in questo periodo stava spiegando i verbi.

In particolare ricordava alla perfezione il fuoco che durante le vacanze di Natale la famiglia accendeva frequentemente nella casa di campagna di uno zio materno. La memoria del fuoco aveva messo in secondo piano persino i ricordi delle persone. C’era un focolare e le fiamme avevano dimensioni straordinarie, una variabilità e nello stesso tempo una continuità piene di fascino.

Seduto sulla pietra del focolare, qualche volta ne rimaneva incantato. Il fuoco era per Marcellino bellissimo e misterioso. Non era facile spiegare il parlottare della fiamma, il suo innalzarsi con forza e poi rallentare e mostrarsi tranquilla. Bastava indirizzare un po’ di aria con il soffietto e la fiamma si rianimava, assumendo nuovo vigore. Marcellino vedeva nella sua memoria le scintille e lo scoppiettio che creavano un clima di festa.

Era talmente attratto che i grandi avevano dato a lui l’incarico di occuparsi del fuoco e quindi di aggiungere all’occorrenza i pezzi di legna; qualche volta aveva constatato che c’era solo brace, ma bastava poco e la fiamma di nuovo ripartiva. Un va e vieni, una fine che sembrava annunciata e che riportava invece un vigore neonato. Era facile ridurre lo spettacolo del fuoco a un pezzo di legno che diventava cenere dopo aver prodotto fiamme. Ma Marcellino si poneva altre domande: dove va a finire la fiamma che si alza? "È un simbolo - gli aveva detto una volta lo zio - , un simbolo della vita. La vita che può riprendere con forza, magari dopo un periodo di difficoltà. Un simbolo della luce, mentre attorno si fa buio". A questo punto si era intromessa la nonna, che disse con quel suo parlare lento: "E’ anche il simbolo della Risurrezione, del rinascere, della speranza".

La nonna era un po’ triste, poiché sapeva che anche il fuoco muore e tutto si fa polvere. Marcellino non lo sapeva: in quei lunghi giorni da fuochista aveva lottato per mantenerlo sempre acceso. Riusciva persino a non farlo spegnere la notte: raccoglieva molte braci che poi copriva di cenere e appena sveglio correva al focolare ed era felice nel ritrovarne ancora molte rosse, pronte per alimentare un nuovo fuoco con l’aggiunta di legna. Non sapeva se un uomo, da grande, potesse vivere dedicandosi al fuoco. A lui sarebbe piaciuto farlo. (sommario)

 

 

Rozafa e il castello misterioso

È più che una leggenda e ha il fascino di una fiaba

 

di Ndreda Ferdi

Intorno al 100 A. C. in una città del popolo di Iliri, chiamato Scodra, c’erano tre fratelli di nome Mark, David e Giorgìi, i quali decisero di costruire un castello sulla collina all’entrata della città. Iniziarono i lavori, ma subito si accorsero di uno strano fatto, cioè di una maledizione! Tutti i santi giorni i tre fratelli si alzavano all’alba e andavano a prendere pietre alla riva del fiume, per costruire le mura del castello. Ma il giorno dopo trovavano tutto distrutto; le mura non c’èrano più, le pietre erano tornate dove le avevano prese, cioè al fiume.

Questa storia andò avanti per un paio di mesi, finché un bel giorno non passò da lì un vecchio con la barba bianca e che si reggeva in piedi grazie ad un bastone. Il vecchio si fermò a parlare con i tre fratelli, che raccontarono la loro disgrazia. Il vecchio allora, disse loro: "Se volete costruire il castello dovete fare un sacrificio importante agli dei. I tre fratelli risposero che avevano già sacrificato degli animali e più di una volta. Allora il vecchio disse: "Non è il sangue di un animale, con il quale dovete bagnare le fondamenta del castello, ma di una persona e per di più a voi molto cara". I tre fratelli chiesero di sapere tutto quello che dovevano fare. Il vecchio disse ancora: "quella delle vostre mogli che domani vi porterà il pranzo, dovrà essere seppellita nella fondamenta del castello, ma queste non debbono saperlo prima".

I tre fratelli ringraziarono il vecchio e tornarono a casa cercando di far finta di niente. Poi una volta nelle loro stanze i due fratelli Magiari, dissero tutto alle loro mogli e si raccomandarono di non venire il giorno dopo a portare il pranzo. Il fratello piccolo invece, non disse niente a sua moglie. Il giorno dopo i tre fratelli andarono, come sempre, a lavorare e una volta arrivati si misero seduti ad aspettare mezzogiorno, per vedere quale delle loro mogli sarebbe venuta con il pranzo. Quel giorno il pranzo sarebbe toccato portarlo a Barbara, ma lei trovò una scusa e chiese a Lule di andarci lei, ma pure Lule trovò una scusa; a quel punto Barbara e Lule, chiesero a Rozafa se poteva andarci lei.

Rozafa aveva un bambino di pochi mesi e, chiese a loro, se si occupavano del bambino nel frattempo che portava il pranzo. Una volta arrivata sul luogo di lavoro del marito, lo trovò assieme ai due cognati in piedi che l’aspettavano con aria preoccupata e scuri in volto. Suo marito Giorgìi la invitò a sedersi e le raccontò tutto quello che il vecchio aveva detto a lui e ai suoi fratelli. Rozafa con le lacrime agli occhi disse: "Quando mi seppellirete sotto le fondamenta del castello, mi dovrete lasciare fuori l’occhio destro per vedere il mio bambino, l’orecchio destro per poterlo ascoltare, la mano destra per poterlo reggere, il piede destro per poterlo cullare e il seno destro per poterlo allattare. Questo avvenne; il castello venne costruito e prese il nome di Rozafa; ha protetto la città di Skhodra da mille battaglie, ed ancora oggi c’è un punto, dove è stata seppellita Rozafa, in cui escono delle gocce di latte.

Questa è la storia vera del castello Rozafa di Skhodra (Albania).

 

Legenda: ILIR: vecchio nome del paese Albanese

Scodra: Skhodra, l’attuale città che si trova a nord (sommario)

 

 

Nessun vinto, tutti vincitori

 

di Kasa Erzen

Martedì 16.03.2004, noi detenuti facenti parte del corso Igea abbiamo sostenuto una partita di calcio, nel locale campo sportivo. Innanzitutto è doveroso ringraziare chi ha permesso ciò e, in particolare la nostra insegnante d’educazione fisica Elisabetta Bardini, organizzatrice della detta competizione sportiva.

Anche "dall’Alto" siamo stati aiutati, nel senso che per le pessime condizioni meteorologiche si era stati costretti a posticipare la partita di calcio, ma quel giorno tutto era favorevole, splendeva un sole tiepido primaverile, che ci ha riscaldato anche gli animi nel senso buono della parola. Tutto si è svolto nel migliore dei modi, ci siamo alternati durante la competizione, è stata una bella partita sempre nel pieno rispetto della persona e delle regole.

Non nascondo che è stata molto emozionante, poiché il pubblico oltre ad essere formato dai nostri compagni, era formato dal corpo docenti, ed essere osservati specialmente da persone d’ambo i sessi dopo molti anni imbarazza. In ogni modo ci siamo divertiti molto, abbiamo trascorso una giornata diversa e molto serena, sfogando il nostro nervosismo sul campo, offrendo un bello spettacolo agli "spettatori" siglando dei bei goal. Anche se nella routine quotidiana delle persone esterne queste partite sono normali eventi, per noi detenuti è realmente un modo per "evadere" ma soprattutto ci permette di confrontarci su molti punti, considerando che siamo di nazionalità e cultura diverse.

Non è la prima partita a cui partecipo, purtroppo, dentro le patrie galere, è posso assicurarvi che sono competizioni molto utili per un detenuto, poiché alla fine della manifestazione agonistica non c’è nessun vinto ma siamo tutti vincitori, per il semplice fatto che abbiamo trascorso qualche ora assieme divertendoci in piena serenità, e in questo luogo non è affatto un fatto insignificante.

Dalle esperienze d’altri istituti di pena come: Opera, Massa, San Vittore, mi chiedo spesso se durante la stagione estiva si possa organizzare degli incontri di calcio magari con le cittadinanze locali; come: la squadra di San Gimignano, Colle Val D’Elsa, Poggibonsi; una squadra composta dal Monte dei Paschi che sovvenziona la locale redazione d’Idee libere, atc… Oltre ad essere una stupenda opportunità ai fini di reinserimento e socializzazione, permetterebbe di farci conoscere sotto un’ottica diversa e non come ci definiscono: carcerati che hanno commesso dei reati, e quindi si potrebbero creare i presupposti per una migliore integrazione futura. Premesso che il sottoscritto considera il carcere come un punto di partenza e non assolutamente d’arrivo per ogni persona, credo che da qualche tempo con vari modi la popolazione detenuta ha dimostrato una maggiore crescita e maturità, perciò faccio appello agli organi competenti affinché questo nostro desiderio divenga realtà, sempre nel pieno rispetto delle regole.

Sperando nel futuro auspicato, continueremo ad allenarci. (sommario)

 

 

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