Sulla Giustizia

 

La giustizia penale

Come mettere insieme punizione e promozione della persona

 

L’amministrazione della giustizia penale è una delle strutture essenziali della convivenza sociale.

 

Il delinquente resta sempre un "uomo"

 

La persona umana è il massimo valore a motivo della sua intelligenza e libera volontà, dello spirito immortale che la anima e del destino che l’attende. La sua dignità non può essere svalorizzata, snaturata o alienata nemmeno dal peggior male che l’uomo, singolo o associato, possa compiere.

L’errore indebolisce e deturpa la personalità dell’individuo, ma non la nega, non la distrugge, non la declassa al regno animale, inferiore all’umano.

Ogni persona è parte vitale e solidale della comunità civile; distaccare chi compie un reato dal corpo sociale, disconoscerlo, emarginarlo, fino addirittura alla pena di morte, sono azioni che non favoriscono il bene comune, ma lo feriscono.

 

Una domanda pungente

 

Le leggi e le istituzioni penali di una società democratica hanno senso se sono tese al ricupero di chi ha sbagliato, se operano in funzione dell’affermazione e sviluppo della sua dignità. Spesso mi domando: le leggi, le istituzioni, i cittadini, i cristiani credono davvero che nell’uomo detenuto per un reato c’è una persona da rispettare, salvare, promuovere, educare?

Per quanto riguarda le istituzioni, ci vogliono certamente leggi e ordinamenti che difendono e assicurano il rispetto della vita e dell’incolumità di tutti i cittadini. La sicurezza va garantita. Se tuttavia ci confrontiamo con l’esperienza di chi sta in carcere e di chi sta accanto ai carcerati, scopriamo con amarezza e delusione che la realtà carceraria in Italia (e anche altrove!) spesso non contribuisce al ricupero della persona.

 

Esperienza doverosa per un Vescovo

 

Per un Vescovo quella del carcere e dei carcerati è un’esperienza fondamentale e doverosa, perché risuona anche nell’oggi la parola di Gesù: "Ero in carcere e siete venuti a visitarmi" (Matteo 25,26).

La condizione carceraria mi coinvolge profondamente nel travaglio sia dei detenuti e dei loro parenti sia degli addetti al servizio, delle autorità e dei legislatori, non pochi dei quali si interrogano sempre più sulle contraddizioni e le sofferenze che la pena detentiva vorrebbe risolvere, ma di fatto non risolve, È un problema estremamente complesso, dai risvolti drammatici. Chi è stato offeso nei suoi beni, nei suoi affetti, nella vita dei suoi cari non riceve dalla detenzione dell’offensore un risarcimento reale per quanto ha sofferto.

 

Un problema da non rimuovere

 

Il problema carcere viene ancora oggi rimosso dalla vita della comunità per paura o per sensi di colpa; pur essendo gestito dallo Stato, in realtà è privatizzato dagli addetti ai lavori per ragioni di sicurezza sociale. Viene enfatizzato dai mass media di opposte parti e ragioni per sostenere o avallare le proprie ideologie, i propri teoremi, oppure per giustificare comportamenti e situazioni insostenibili e contrarie al rispetto dei diritti dell’uomo.

Far luce su tale problema sarebbe il modo migliore per giungere alla progettazione e alla pratica di strategie, educative e terapeutiche, del senso etico e sociale degli individui. La luce mette in fuga anche la notte più profonda.

Sarà utile, in particolare alle comunità cristiane, conoscere con maggiore verità la realtà del male, specificamente del male morale. Non esistono persone soltanto negative, tutte e sempre malvagie, identificabili nel reato; in ognuna c’è del frumento buono mescolato alla zizzania; le capacità del bene e del male nella persona umana convivono.

 

Il reato è un sintomo

 

Il reato è comunque sintomo di un disagio profondo, interiore, che produce violenza, ingiustizia, criminalità. Il comportamento delinquenziale è spesso causato da ignoranza, da mancanza di realismo, da irresponsabilità, da asocialità, da istinti negativi, da cattiva educazione. È necessario ritrovare ogni giorno le motivazioni dinamiche per convincerci che comunque l’uomo vale, può essere curato e, anche se è colpevole, resta sempre soggetto primario della società.

Non è l’uomo una bestia da domare, un bersaglio da colpire, un nemico da sconfiggere, un parassita da uccidere; è persona da stimare pur quando non ci stima, da comprendere anche se ha la testa dura, da valorizzare anche se ci disprezza, da responsabilizzare anche se ci appare incapace, da amare anche se ci odia.

 

Il carcere come emergenza

 

La carcerazione deve essere un intervento funzionale e di emergenza, quale estremo rimedio temporaneo ma necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta, impazzita e disumana, per fermare colui che, afferrato da un istinto egoistico e distruttivo, ha perso il controllo di se stesso, calpesta i valori sacri della vita e delle persone, e il senso della convivenza sociale.

Noi non siamo una società che vive il Vangelo. Se davvero tutti vivessimo il Vangelo e ci sforzassimo di amarci scambievolmente, di praticare la regola del "fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te", non ci sarebbero né giudici, né condanne.

Siamo molto lontani dalla comunità perfetta a cui punta il Vangelo, e quindi abbiamo bisogno di strutture di deterrenza e di contenimento. Ma il cristiano - se vuole essere coerente con il messaggio di Dio Padre misericordioso che non gode per la morte del peccatore, vuole anzi che si converta e viva e per lui fa festa - non potrà mai giustificare il carcere se non come momento di arresto di una grande violenza.

 

Inadeguatezza

 

I modelli sanzionatori non devono ritenere scontate le modalità di risposta al reato fondate semplicemente sulla ritorsione, sulla pena fine a se stessa, sull’emarginazione. È il tema del superamento della centralità del carcere nell’ambito penale. Bisogna fare di tutto perché il carcere sia luogo di forte e austera risocializzazione, con programmi chiari e controllati, con l’impegno di persone motivate e con incentivi atti a promuovere tali processi. Appare oggi più evidente l’inadeguatezza di misure repressive o punitive, che un tempo la società non poneva in questione. È quindi necessario ripensare la stessa situazione carceraria nei suoi fondamenti e nelle sue finalità, proprio a partire dalle attuali contraddizioni.

 

Colpa e pena nella Bibbia

 

Nella Bibbia ebraica esistono almeno due visioni differenti della pena o castigo: la punizione come intervento della giustizia di Dio e la punizione come effetto prodotto dalle dinamiche del peccato in se stesso. Occorre però aggiungere che, nella prima visione, l’intervento punitivo di Dio ha sempre una finalità salvifica ed è sempre indirizzato a scuotere la coscienza del popolo e degli individui per condurli alla conversione. Queste due tradizioni - che si ritrovano anche nel Nuovo Testamento - non vanno contrapposte, ma armonizzate; sia l’una che l’altra tendono al recupero dell’uomo per la sua salvezza e felicità.

 

Quattro insegnamenti dai racconti biblici

 

Penso ad alcuni racconti del Primo e del Nuovo Testamento che non finiscono mai di commuovere e di provocare: la colpa di Adamo ed Eva alle origini dell’umanità e la pena che ne è conseguita (Genesi 3); il fratricidio di Caino (Genesi 4); le discordie dei popoli nella costruzione di Babele (Genesi 11); il peccato di Davide (2 Samuele 11-12); la parabola del figlio prodigo che rifiuta di vivere con il padre (Luca 15); la passione di Gesù (Matteo 26-27). Se ripercorriamo questi racconti dal nostro punto di vista, troviamo quattro indicazioni.

  1. Nella colpa c’è già la pena. I peccatori nella Bibbia prendono gradualmente coscienza che commettendo quel reato si sono auto-condannati a vivere al di fuori della famiglia di Dio, a vivere da stranieri, Nella colpa c’è insita una sconfitta, un fallimento, e dunque sofferenza, umiliazione.

  2. La colpa trasforma la pena in responsabilità. Chi ha sbagliato, dovrà assumersi, come pena, responsabilità più gravi e onerose per riguadagnarsi la vita: faticare alla ricerca del pane, adattarsi alla vita di servo.

  3. La pena non cancella la dignità dell’uomo, non lo priva dei suoi diritti fondamentali (rispetto, nutrimento, istruzione, famiglia, libertà, solidarietà). Nessuno viene sradicato per essere rinchiuso in un luogo irreale e snaturato. Avendo però negato la paternità di Dio e infranto i rapporti pacifici con il prossimo e con se stesso, dovrà percorrere un duro cammino di ritorno verso la felice realtà di partenza, il ricupero della propria dignità, il rientro nella comunità. Tale cammino di conversione è la vera e unica pena richiesta da Dio per ridonare ai peccatori la remissione della colpa. C’è grande gioia in cielo per un peccatore pentito!

  4. Dio non fissa il colpevole nella colpa identificandolo in essa. L’unico e vero giudice dell’uomo è Dio, che trasmette a tutti i colpevoli anche la speranza in un futuro migliore, mira alla riabilitazione completa, chiede loro di non ripetere il passato errore e di risarcire il male compiuto con gesti positivi di giustizia e di bontà. A tutti poi offre sempre l’aiuto necessario per vivere da uomini giustificati.

 

Il senso definitivo dei quattro momenti dinamici

 

Questi quattro momenti dinamici della pena sono reali, fattibili, non perdonistici, ma impegnativi. E assumono il loro senso definitivo nella passione di Gesù che si fa carico di tutto il male del mondo: muore per tutti.

La pedagogia biblica del superamento del peccato e della riabilitazione del peccatore si evolve con l’evolversi della cultura e mentalità del popolo di Dio, purificandola e perfezionandola. La definitiva volontà del Padre, il suo progetto, è il perdono e la salvezza per tutti in Cristo Gesù.

 

L’autocritica del colpevole

 

È auspicabile che venga superata la cieca fiducia nella pena retributiva, meccanica, quale unica forma capace di migliorare i comportamenti del colpevole. Chi è vittima del proprio delitto deve compiere un’autocritica, e occorre aiutarlo a rientrare in se stesso, a scendere nel profondo del proprio spirito, ad andare oltre una conoscenza superficiale di sé; occorre aiutarlo anche a rinunciare a quei falsi meccanismi di difesa che lo inducono a fuggire da sé, a giustificarsi e ad auto-assolversi. La storia di tante prigionie conferma la possibilità di un’attiva cooperazione, da parte del detenuto, quando l’espiazione perde la valenza vendicativa per assumere quella medicinale. Si configura così la dinamica di un travaglio spirituale che conduce a una vera rinascita personale e sociale.

 

La pena di morte

 

Sono ancora molti gli Stati in cui si applica la pena di morte e, purtroppo, si assiste talora a prassi che sconcertano: dalle condanne per reati politici o di opinione a quelle che sanciscono un processo difettoso e iniquo e che si aggiungono a forme di maltrattamento e di tortura; dalle esecuzioni di massa, alle esecuzioni le cui vittime sono adolescenti o anziani.

La considerazione di questi fatti sconcertanti induce a intraprendere con forza campagne per l’abolizione della pena capitale. Oggi sembra assai difficile che si possano realizzare le circostanze che, nel passato, avevano indotto molti Stati, anche cristiani, ad applicarla ritenendo che in certi casi rappresentasse l’unico ed estremo mezzo di difesa della comunità e del bene comune. Nell’attuale momento storico, considerando la più diffusa e approfondita consapevolezza del valore della persona e della sua dignità, come pure i progressi realizzati nella conoscenza delle motivazioni profonde e complesse dell’agire umano, siamo persuasi che in ogni società civilizzata l’ordine può essere salvato, la giustizia assicurata, il delitto intimorito con altre pene e provvedimenti senza ricorrere alla soppressione del reo. È assolutamente necessario tendere verso tale traguardo attraverso l’edificazione di una società più autenticamente democratica e cosciente della dignità di ogni persona.

 

Incoraggiamento al male?

Promuovendo il senso della dignità umana - per cui nessun uomo merita di essere emarginato per sempre, ma occorre sperare nella sua capacità di ripresa, di rieducazione - non s’incoraggia forse il male? Non si trattano alla stessa stregua la vittima e il carnefice? Di fronte a chi compie il male, bisogna tacere, lasciar correre?

Assolutamente no, perché equivarrebbe a condividere il male, anzi a premiarlo. L’intervento contro il male, contro l’ingiustizia e la violenza, ci deve essere da parte di tutti, non solo da parte di chi è ufficialmente costituito per questo. E non si può nemmeno pensare: lo Stato fa giustizia e io pratico il perdono! Tutti dobbiamo essere forti e decisi nel respingere il male: lo esige la coscienza, lo esige la natura delle cose e lo esige la stessa parola di Dio: "Se un tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo..." (Matteo 18,15).

Anche la conoscenza profonda di coloro che sbagliano gravemente ci permette di dire che, quando ritrovano la verità di se stessi, almeno in cuore loro ammettono di aver sbagliato e di dover pagare. La correzione, perciò, è giusta e doverosa, ma va esercitata con umanità, con giustizia, con ragionevolezza.

 

L’efficacia sociale del perdono

 

Nel Padre nostro Gesù ci esorta a pregare: "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori" e poi aggiunge: "Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi" (Matteo 6,12-14).

Si ritiene, di solito, che le parole di Gesù valgano soltanto nell’ambito dei rapporti familiari o, al massimo, all’interno delle comunità credenti; invece valgono anche nell’ambito della società civile.

Il tema del perdono e della sua efficacia sociale va inquadrato nel tema più vasto del perdono di Dio e di quell’attività salvifica che viene chiamata "giustificazione dell’empio": la rivelazione si gioca proprio sul perdono e sulla riabilitazione dell’uomo delinquente.

È un tema esistenziale che tocca tutti e ciascuno di noi, e non possiamo separarlo dalla giustizia penale. Ognuno di noi ne ha esperienza perché ogni uomo è peccatore. Il modo con il quale la società si comporta verso i delinquenti, è quindi parte del vissuto e della sofferenza di ogni persona umana.

 

Tradizioni penali nella storia

 

Nel corso della storia tradizioni penali diverse si sono mescolate con stimoli provenienti dal cristianesimo, senza che si sia potuto finora effettuare una sintesi armonica. Da una parte si sono spacciate per cristiane alcune formule, interpretate riduttivamente in maniera retribuzionista - come a esempio un’accezione semplificatoria della cosiddetta legge del taglione -, mentre dall’altra è mancato lo sforzo sistematico di provare a ritradurre i temi della giustificazione e del perdono nel linguaggio della giustizia degli Stati. A mio avviso è urgente esprimere in termini autenticamente biblici e cristiani una risposta sostenibile al problema criminale, che prometta di essere feconda anche in termini civili e secolari, superando l’attuale impasse culturale e operativa.

 

Abbandonare i falsi valori

 

La società umana, per imparare a perdonare, dovrebbe ritornare a scoprire e a credere che le persone sono un grande valore; che pure i colpevoli appartengono vitalmente alla comunità; che per motivi di solidarietà è chiamata a condividere il loro fallimento così da ricondurli a una nuova umanizzazione.

Una società è davvero matura quando sa assumersi le proprie responsabilità di fronte al male e ne condivide la colpa e l’espiazione; convinta, dalle ricerche psicosociologiche sulla carcerazione, degli effetti sfavorevoli di essa nei confronti del detenuto, la società è chiamata a inventare qualcosa di alternativo alla pena. Oggi, purtroppo, la società non riconosce nemmeno il valore e l’espiazione totale di una pena, anche quando sia stata scontata interamente; si è più propensi a ritenere che il colpevole, espiata la pena, continui a essere indegno di reinserirsi a pieno diritto nella comunità.

 

Una cascata di interrogativi

 

In questi anni ho visitato molte volte il carcere perché è il luogo in cui avverto più che mai il mio servizio di Vescovo. E sempre, dopo gli incontri con i detenuti o anche in occasione degli scambi epistolari con loro, emerge l’inquietante interrogativo: è umano ciò che stanno vivendo? È efficace per un’adeguata tutela della giustizia? Serve alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? Cosa ci guadagna e cosa ci perde la società da un sistema del genere? Ma dietro a questi interrogativi di carattere pratico, ce n’è uno più di fondo: è giusto questo modo di trattare i colpevoli? A quale visione globale di uomo e di società corrisponde? Quale ideale di giustizia rappresenta?

 

Ascoltare i desideri

 

Più volte ho sentito esprimere da detenuti colpevoli di gravi crimini e avviati a un cammino di conversione sincera, il desiderio non di scontare una pena qualunque rispetto a una collettività generica - pagando in maniera astratta il loro debito verso una società di cui conoscono dal di dentro le malefatte e le ingiustizie -, bensì di riparare il male compiuto o verso le persone offese o verso gruppi da loro lesi, con azioni positive di servizio gratuito in favore di ideali simili agli ideali che hanno violato.

A me pare di cogliere, in questi desideri, ciò che corrisponde a quella personalizzazione dell’atto riparatorio che affiora nei racconti biblici e che potrebbe servire come uno degli elementi per il ripensamento di un sistema penale in grado di restituire l’equilibrio dei rapporti rotti dalla delinquenza; così viene raggiunto sia l’intento di restaurare l’ordine violato sia l’intento di farlo in maniera personalizzata e ricca di motivazioni umanizzanti.

Tra l’altro verrebbe ristabilito anche il rapporto tra offensore e vittima, rapporto che spesso rimane giocato nell’ambito puramente vendicativo, e si contribuirebbe più efficacemente alla prevenzione dei crimini futuri e all’armonia sociale.

 

Pentimento e pentiti

 

Attraverso una certa legislazione, partita dai tempi del terrorismo, si è giunti a usare il termine "pentiti" per indicare un atteggiamento che non esprime direttamente l’insegnamento del Vangelo e della Chiesa. Il vero pentimento si verifica quando una persona vuole sinceramente cambiare vita, riconoscendo di aver sbagliato e di aver bisogno di essere perdonata da Dio e dagli uomini. È dunque un evento interiore, nobilissimo, che dice l’anelito a una vita nuova e pulita. Il "pentito" secondo la legge, cioè il collaboratore, può non avere nessuna intenzione interiore di cambiare vita, di riconoscere le sue colpe. Il pentimento cristiano è un cambiare il cuore.

 

La tutela della società

 

La preoccupazione per la tutela della società - che è grave dovere dell’autorità pubblica - non è per nulla in contrasto con il rispetto e la promozione della dignità del condannato. È inoltre più produttiva, anche in termini di prevenzione generale, una politica criminale tesa a investire sulle capacità dell’uomo di tornare a scegliere il bene che non una politica fondata sul solo fattore della forza e della deterrenza. Ciò non esclude, ma comprende tutte le necessarie cautele nel caso in cui sussista il reale pericolo della reiterazione di delitti gravi, soprattutto su persone inermi e su bambini. Sarà arduo trovate la giusta misura ed esisteranno situazioni e momenti turbolenti in cui una società dovrà attenersi a una particolare cautela. Ma pure in queste situazioni bisognerà esercitare quella prevenzione che consiste anche in una coscienza diffusa di resistenza e di condanna del crimine, non chiudendo gli occhi e non voltando lo sguardo altrove quando qualcuno è in pericolo.

 

L’impegno di ciascuno

 

Ciascuno di noi può gradualmente sciogliere la durezza della nostra società, rendendola sempre più giusta e più attenta all’uomo. Anche una società dove regna il peccato è in grado di cominciare a vincerlo così da diventare più umana, più preoccupata della riabilitazione del colpevole. È necessario l’impegno di ogni cittadino per estirpare quelle radici di risentimento, di superiorità e di rivalsa che avvelenano i rapporti sociali e sono alla base di atteggiamenti di rifiuto e di vendetta, e per promuovere iniziative di riconciliazione a livello familiare, ecclesiale e di solidarietà che immettono il lievito evangelico in una società sempre più segnata dalla competizione e dal conflitto.

Tutti i cittadini sono chiamati ad assumersi gli oneri necessari per ridurre i fattori che favoriscono le scelte criminali e le zone d’ombra, economiche e sociali, dove la criminalità cresce e si propaga. Non bastano le nuove leggi, le riforme strutturali, i rinnovati programmi politici, gli interventi giudiziari, pur importanti e necessari.

Bisogna anzitutto agire sulle persone, dall’interno delle persone, contrastando quel processo di massificazione che spersonalizza e aliena. Bisogna appellarsi all’individualità e alla libera volontà di ciascuno: ognuno deve essere trattato e spinto ad agire come persona umana responsabile, membro vivo e utile dell’intera comunità. Per uscire dal nostro malessere generale, è dunque necessario riscoprire insieme il senso dell’essere popolo, società, comunità umana, fraternità.

 

Trarre il bene dal male

 

È possibile anche dal male del carcere trarre un bene per la società. Per questo è necessario testimoniare la stima e la fiducia nei detenuti e nella loro capacità di compiere un cammino di speranza e di verità; creare, per detenuti ed ex detenuti, posti di lavoro adeguato che dia significato alla loro vita e assicuri alle famiglie un’esistenza; facilitare il ritorno e l’inserimento positivo nella comunità; consentire loro di rivalutare in favore di altri, soprattutto giovani, la propria esperienza di male e di sofferenza.

 

Riabilitare chi ha sbagliato

 

Le pene detentive, in forza della legge derivante dalla nostra Costituzione, hanno lo scopo di riabilitare chi ha mancato, di restituirlo alla società come membro sano. Mi viene in mente un passo della legge sull’ordinamento penitenziario, del 1975, che recita: "Deve essere attuato un trattamento educativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale dei colpevoli". Di fatto, le cose vanno diversamente e continuo ad augurarmi che si giunga molto presto almeno alla semplice attuazione delle norme legislative: sarebbe un passo avanti sulla via della giustizia giusta.

 

Tre condizioni per la rieducazione

 

A mio avviso sono tre le condizioni che rendono possibile la rieducazione del colpevole. Le possiamo leggere nella parabola evangelica del figlio prodigo (Luca 15,11-32), possono essere tradotte in termini laici e, quindi, esigite da un ordinamento giuridico che aspiri a quella perfezione e rispetto dell’uomo cui, in realtà, s’ispira il nostro ordinamento.

Disse ancora (Gesù): Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre. "Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta". E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperpero le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.

Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso, e disse. "Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni".

Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: "Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". Ma il padre disse ai servi. "Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono a far festa.

Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose. "È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo". Egli si indignò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi ha dato mai un capretto per far festa con miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso".

Gli rispose il padre: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato".

 

Aiutare a riconoscere la società

 

Prima condizione: aiutare il colpevole a riconoscere la realtà del mondo umano, dalla quale si era allontanato negandola con l’infrazione della legge o con la condanna della società, con lo sfruttamento del prossimo, con una vita drogata. Il figlio prodigo aveva negato la società, "era andato in un paese lontano", si era messo fuori e il racconto evangelico ci dice che fu aiutato a riconoscere l’ambito da cui si era allontanato e a ritornarvi.

 

Insegnare ad appagare i bisogni fondamentali

 

Seconda condizione: insegnare ad appagare, in maniera giusta, i bisogni fondamentali, a partire dai quali è avvenuta la devianza.

Bisogno di sentirsi un valore per se e per gli altri, non una nullità e un peso dannoso; di scoprirsi utili per la felicità di qualcuno; di amare e di essere amati.

Il problema dell'affettività, difficilissimo, non può restare ignorato, irrisolto o addirittura esasperato o snaturato! È un problema reale e di grande valore.

 

Educare alla responsabilità

 

Terza condizione: educare alla responsabilità. Ciascuno di noi deve imparare a essere responsabile della propria e dell'altrui felicità; deve cioè acquistare la capacità di appagare i bisogni fondamentali così da non calpestare quelli di altri. L'ozio forzato, l'isolamento immotivato, il parassitismo strutturale non responsabilizza certo chi è irresponsabile.

Ogni persona, anche se in carcere, va posta nella condizione di autodeterminarsi sostanzialmente in alcune cose e di collaborare alla ricostruzione del bene comune.

Si tratta di ideali molto alti e però conseguenti all'accettazione della rieducazione, della riabilitazione, del re inserimento dei carcerati, quali punti di riferimento per affermare il diritto del valore della persona umana.

 

L’obiettivo principale

 

Il cambio della mentalità e del cuore - da «contro le persone» a «in favore di esse» -, per una vita pacifica e non più bellicosa, è l'obiettivo principale da proporre e fare desiderare a ogni uomo colpevole, a ogni detenuto.

Mi si potrebbe replicare che il mio è un punto di vista proprio di un cristiano, e non lo si può imporre allo Stato e alle sue leggi.

Tuttavia, pur se le leggi dello Stato non parlano propriamente di conversione, di cambiamento della mentalità e del cuore, ma di rieducazione, di risposta ai bisogni di ciascuno, di reinserimento sociale, ci troviamo di fronte a delle espressioni che coincidono, in parte, con la conversione biblica.

Davvero non c'è situazione umana, per quanto disastrata, che non possa essere salvata; non c'è uomo, per quanto reo di colpe gravi, che non possa essere recuperato.

Il libro della Genesi ci aiuta a leggere - nel racconto del primo peccato dell'uomo e della donna - la condizione di ognuno di noi, prigioniero in cerca di libertà. È il nostro senso della colpa, della pena e del bisogno di risalire nonostante il cammino sia faticoso. È il senso di una seria riabilitazione della dignità umana grazie al perdono e all’amore di Dio che vuole reintegrare l'uomo nel suo interno.

 

 

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