Alessandro Margara

 

Il magistrato che trattava i detenuti come uomini

 

La Repubblica, 11 luglio 2002

 

Il 24 giugno scorso Sandro Margara è andato in pensione. («Il giorno dei fuochi di San Giovanni - mi ha detto - ma non erano per me»). La storia del maggior esperto di diritto penitenziario che ci sia in Italia comincia quando la magistratura di sorveglianza ancora non esisteva. Fu allora che Margara inventò di sana pianta un nuovo mestiere: quello del magistrato di sorveglianza, senza dilettantismi, com'è suo costume, e creando prassi solide che aprivano la strada alle leggi future. Quando la legge istituì i Tribunali di sorveglianza, Margara era già un veterano; affidargli la presidenza fu del tutto naturale, quasi un diritto acquisito. Da allora egli è per tutti «il Presidente». Il segno della sua presenza nell'universo del carcere fu subito deciso e nuovissimo. L'apertura delle sue decisioni contribuì a creare un'aria di novità e di speranza che il carcere non viveva da tempo. Girava in quegli anni la storiella che molti detenuti si facevano trasferire in Toscana, perché a Firenze c'era un giudice diverso dagli altri. Noi scoprimmo che era vero. La sua popolarità tra i detenuti è altissima: il segreto sta nel fatto che non ha concesso loro altro che quello che era necessario a salvaguardarne la dignità di uomini. n tanti anni Sandro ha attraversato la dolente schiera dei carcerati senza blandirli, senza temerli, con una fermezza mite che ha indotto i detenuti a pensare che quello finalmente era un uomo. Perché li trattava da uomini, come impongono la Costituzione e le leggi. Nel carcere, dove facilmente gli uomini diventano numeri, Margara si è rifiutato di «incasellare» gli uomini. Appena l'altro ieri, parlando ad alcuni amici, diceva: incasellare significa tagliar via fette di umanità e gli pareva che la cosa più grave fosse l'indifferenza del carcere; «il carcere inutile - come lo definisce lui stesso - che contiene le persone senza stabilire relazioni con esse, con le loro esistenze e i loro destini». Voleva, al contrario, un carcere che credesse nella emancipazione possibile dell'uomo. Perché questa è la scommessa e l'impegno di una società civile: «farsi carico del detenuto, interessarsi di lui, cambiare le oggettive condizioni del suo agire». E, proprio per questo, licenze, permessi, misure alternative erano concessi con la bussola della Costituzione e il coraggio profetico di chi anticipa i tempi. Una volta lo sottoposero a procedimento disciplinare, lui uno dei padri della legge Gozzini, accusandolo di averla male applicata. Il procedimento è stato l'occasione per insegnarci non solo come si trattano i detenuti, ma anche come un giudice debba applicare le leggi dello Stato. Un uomo così è difficile che piaccia ai politici. Ma il Ministro Flick capì che, se voleva riformare le istituzioni penitenziarie, non avrebbe potuto farlo senza Margara. Il Presidente arrivò a Roma e in pochi giorni fece la rivoluzione: niente burocrazia, semplicità di modi, intuizioni geniali sostenute con fermezza Per i burocrati era davvero troppo: gli stava buttando all'aria tutto ciò che di vecchio c'era nel Dipartimento. Dopo poco più di un anno il nuovo ministro Diliberto lo licenziò in tronco: s'era convinto che un direttore così non poteva tenerselo, a dimostrazione che non basta essere di sinistra per vedere lontano. Margara tornò a Firenze e scelse di fare il semplice giudice di sorveglianza. Non voleva lasciare la sua trincea del carcere, non voleva smettere di chiedere al carcere di essere utile e di restituire dignità agli uomini. Non so se nei prossimi settant'anni Margara si occuperà a tempo pieno di carcere. Sarebbe una buona cosa, perché abbiamo bisogno della semplicità profonda e della genialità delle sue intuizioni. Ma soprattutto è il carcere ad averne bisogno. Chissà se la notizia della pensione di Margara provocherà la rivolta nelle carceri italiane. Se succederà, l'uomo giusto per domarla è proprio lui. Com'è già accaduto, affronterà i detenuti senza minacce, senza ultimatum e senza megafono. E per ore ed ore gli dirà quasi nulla, salvo poche parole alla buona che sanno di casa e di famiglia. E nessuno più dei detenuti sente il bisogno di casa e di famiglia. Alla fine cederanno per stanchezza e torneranno in cella. Convinti, per sovrappiù, di aver fatto una buona azione.

 

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