Bollettino n° 13

 

Osservatorio Calamandrana sul carcere di San Vittore

"per la trasparenza e l’umanizzazione in carcere"

 

Bollettino n° 13 – giugno 2004

Continuiamo l'osservazione sul carcere

 

Commenti al libro di Cannavò

Da Rebibbia abbiamo ricevuto

Conversazioni in carcere

Commenti al libro di Cannavò

 

Reparto femminile

 

Lo scrittore (Cannavò) ha descritto il carcere di San Vittore come un’isola felice dove tutto funziona bene: il direttore è bravissimo, gli ispettori sono anch’essi bravi e gli agenti comprensivi. Le agenti sono addirittura materne. I detenuti si divertono, lavorano e si sposano. I delinquenti più incalliti si redimono.

Non si è però preoccupato di guardare, con occhio attento, dietro questo bella facciata, ma se l’è cavata descrivendo brevemente le crisi d’astinenza, le liti fra le donne, l’uomo che si è cucito la bocca e poco altro. Non si è preoccupato di ascoltare la vera sofferenza.

In questa isola felice, dove si danza e gioca a pallavolo, vivono persone ammalate nel corpo e nell’anima con dolori così pesanti da diventare a volte insopportabili fino al punto di indurle a togliersi la vita. Il suicidio di una persona anonima, di un galeotto, non fa vendere; è solo un dato statistico.

Sto leggendo "Chi"? o "Novella 2000"? Il gossip sembra essere lo scenario più importante in

S. Vittore. Peccato che manchino i fotografi, ci darebbero una notorietà più realistica di quella che ci ha regalato Cannavò e rappresenterebbero le nostre feste e la nostra allegria in modo più autentico. Il libro di Cannavò è in fondo in fondo deleterio: fa venire quasi voglia alle persone "normali" e "oneste" di soggiornare nelle patrie galere almeno per una vacanza. Il caro dottor Cannavò è venuto qua dentro con leggerezza e, dimenticando che le nostre sofferenze sono pesanti, ha manipolato storie e sentimenti per regalare una fragile notorietà non voluta.

Ho letto il libro che Candido Cannavò ha scritto sul carcere di S. Vittore.

Devo dire che il mio giudizio su quanto ha scritto non è positivo, ma penso che ciò sia dovuto al fatto che il dr. Cannavò ed io viviamo S:. Vittore e le sue realtà in maniera diversa.

La prima diversità è lampante: lui qui ci viene in visita per motivi di lavoro o di solidarietà, quindi si ferma quel tot di ore e vede ciò che chiede o che gli fanno vedere, io in carcere ci vivo 24 ore su 24 e non saltuariamente ma bensì per scontarci una condanna.

I personaggi che qui vivono hanno situazioni ed aspirazioni diverse, ma tutti stanno pagando il loro debito alla società. È vero, sono persone che hanno avuto il loro attimo di "celebrità" sui mass media, ma penso che ora il loro desiderio maggiore sia quello di farsi dimenticare o, quanto meno, di far capire che sono persone diverse. Non mi sembra quindi il caso che il dr. Cannavò riporti le loro situazioni attuali con riferimenti anagrafici che non aggiungono nulla alla struttura del libro, ma che possono recare danni ai loro familiari, colpevolizzandoli magari in ambienti che non conoscono il loro background e possono solo nuocere a loro.

Il dr. Cannavò si è mai soffermato a pensare, mentre scriveva il suo libro, che presentava S. Vittore quasi come un luogo ameno, dimenticando così le gravi carenze che sono state imputate a questo carcere. Non ha mai pensato che le persone che gli si erano confidate avevano familiari fuori dal carcere e che correvano il rischio di essere penalizzati solamente per il fatto che potevano essere collegate con i personaggi da lui descritti?

Dico questo perché mi tocca in prima persona. Il fatto che, nel libro, un mio familiare mi citi con il mio nome dicendo dei miei precedenti, può condizionarmi gravemente nei confronti di persone che mi conoscono come una persona normale. Infatti, grazie ai sacrifici che ho fatto per lunghi anni (esattamente nove) ho ricostruito una rispettabilità, tralasciando ogni occasione per delinquere.

Non parlo solo per me che ho avuto precedenti giudiziari, ma anche per altri miei familiari, la cui colpa è di avere il nostro stesso cognome. E tutto questo in barba alla privacy ed in omaggio alle "liberatorie" Una vecchia volpe del giornalismo come lui avrebbe dovuto tener presente queste cose!

Leggendo il libro di Cannavò, un detenuto non può fare a meno di sorridere: il messaggio che trasmette è quello di un carcere all’acqua di rose, purtroppo la realtà è ben diversa. Questo bellissimo rapporto tra agenti e detenuti si vive, appunto, solo leggendo il libro; la sensazione che il carcere sia davvero rieducativo e che ti dia, dall’interno, la possibilità di ricostruire la tua vita etc. età.. anche quello è solo ciò che si legge nel libro. Se invece lo scopo del libro era quello di raccontare la storia di "qualcuno", beh allora risulta essere una interessante lettura leggera, e niente di più, tutto sommato leggibile e carina.

Più di qualcuno pensa questo!

 

Alcuni detenuti dei reparti maschili

 

Avrebbe dovuto venire qui da solo, oppure poteva fargli da guida un detenuto. Non si è accorto come stanno le cose qui e le dipinge troppo bene.

È stato alla Nave, come tutti i personaggi che vengono qui in visita, ma non è venuto al Coc, non sa che qui in una cella di 3m x due ci sono 6 brande e che mangiamo in otto in un tavolino piccolissimo. Scrive del direttore come di un superuomo. Ha scritto della visita del cardinale, ma non scrive che è venuto una volta sola in tutta fretta, una benedizione e via. Scrive di noi del sesto raggio come di pedofili, senza contare che molti di noi sono per ora solo imputati e non colpevoli.

Io non ho voluto essere intervistato da questo giornalista. È superficiale, lo leggi e non ti rimane niente. Vai avanti e trovi sempre le stesse cose. Come si capisce che lui certo non si dà da fare perché le cose cambino. Hanno detto di lui che è un "cantore di vita". A me già questa espressione mi urta! Lo dovremmo scrivere noi un libro sul carcere. Se scrivo io un libro sul carcere, io che posso dire la verità, dove finisco?

Da Rebibbia abbiamo ricevuto

 

Mi chiamo Gasparetto Arceno Ataides, Tais. Sono un trans del Reparto G8 , sezione B di Rebibbia. Voglio che si conosca la discriminazione subita dai trans a Rebibbia e perciò vi invio queste notizie:

Quando un trans litiga con un altro, si vieta a tutti di andare nell’aria sportiva. Con queste punizioni collettive si pensa di risolvere i problemi.

Nel lavoro i trans vengono praticamente schiavizzati. A loro sono assegnati i lavori più squallidi e meno pagati, che i detenuti uomini non accettano: io per esempio ho fatto il lavoro di pulire tutta la spazzatura che i detenuti buttano dalla finestra con una paga mensile in un primo momento di 240 euro; la paga mi è stata poi ridotta improvvisamente a 95 euro..

Il lavoro dai trans viene pagato meno di quello degli uomini detenuti. Il lavoro di pulizia dei locali dei colloqui mi è stato pagato meno di 50 euro al mese. So che i lavoranti uomini arrivano a guadagnare 700 o 800 euro al mese.

Gli educatori non sono sufficienti, e molti detenuti non vengono mai chiamati e neanche conosciuti dall’educatore.

Per essere inserito al primo anno di ragioneria ho dovuto aspettare l’educatore, e perciò ho potuto frequentare il corso solo dopo tre mesi che era cominciato.

 

Saluti

Tais Gasparetto Arceno Ataides - Rebibbia, giugno 2004

Brani tratti da Conversazioni in Carcere

 

I gruppi di dialogo

 

Cos’è questo lavoro

 

Questo non è un discorso sul carcere, ma ha l’ambizione di essere una presa diretta su come ci si vive. Attraverso queste trascrizioni di discorsi avvenuti a San Vittore fin dal 2002 durante incontri con gruppi di detenuti, vogliamo mostrare una realtà che non è molto conosciuta e che può essere scomodo conoscere.

Si tratta quindi di parlato riconvertito in scrittura, eco di parole pronunciate dentro le mura di un carcere. Sono parole uscite spontaneamente nel contesto comunicativo dei gruppi, quindi non pensate, elaborate e poi scritte.

Trascrivendole noi volontari abbiamo fatto da intermediari, cercando di far sentire queste voci.

Mancano naturalmente in questo documento il timbro, le intonazioni, i respiri del parlato. Forse il lettore può immaginarli. Il testo non è fatto di argomentazioni concatenate quanto di esplosioni espressive, e vi abbondano gli aforismi. Questo andamento della conversazione è dovuto alla situazione carceraria, all’urgenza di esprimersi, alla povertà degli strumenti culturali.

 

Obiettivo

 

Conoscere queste conversazioni può servire a ricordarci l’umanità dei così detti delinquenti. Ma in più la straordinaria energia di queste parole può diventare un esempio stimolante per i non reclusi.

 

Atteggiamento dei detenuti

 

I linguaggi che qui sono trascritti non sono uniformi, perché svariate sono le culture dei partecipanti, le esperienze e anche la capacità di sopportare la vita in cattività.

Ma ciò che accomuna questi discorsi e li rende a volte di una sostanza raramente reperibile in altri contesti liberi, è la voglia di parlare, di farsi sentire, anche come reazione alla sensazione che le parole pronunciate in luogo recluso non solo non escono fuori nel mondo, ma non valgono, perché non sono ascoltate. Chi è dentro, infatti, non è molto considerato come essere pensante, ma anzi è annullato come soggetto. "Siamo ridotti a dei numeri", sentiamo spesso dire. E invece la gente privata della libertà, in stato di astrazione e di separazione dal mondo, ha un accresciuto bisogno di riflettere; e in certi casi riesce anche ad affinare i suoi strumenti.

Conversare in un gruppo diverso da quello della cella, insieme a dei non detenuti, è stato un modo di reagire anche al carcere, che impone non solo ritmi di vita, tempi, ma anche discorsi. "Siamo stufi dei soliti discorsi carcerari da cella!", ci siamo sentiti dire spesso.

In una situazione di totale disinvestimento di energie, lo scambio di opinioni è servito a investirle. Per queste ragioni il fatto che alcuni siano invogliati a venire ai nostri incontri non per desiderio di cultura ma per uscire dalla cella, non ci sembra che sminuisca il valore della partecipazione.

 

Atteggiamento dei volontari

 

Noi volontari non vogliamo né persuadere e manipolare, né essere assenti o impersonali. Cooperiamo senza nessuna intenzione di mostrare la retta via, limitandoci ad essere una occasione di contatto con il mondo. Soprattutto non obblighiamo ad esserci riconoscenti.

 

Come si è svolto il lavoro

 

In un primo ciclo di incontri la conversazione si è avviata da alcune occasioni: un articolo di giornale, il racconto di un episodio, una poesia letta o scritta da qualcuno, un’espressione ascoltata, una lettera scritta, un libro letto. Le trascrizioni di queste conversazioni sono state da noi ordinate secondo le diverse tematiche che contenevano.

In un secondo ciclo, con partecipanti diversi, abbiamo presentato l’elenco delle tematiche emerse l’anno prima, invitando i presenti a sceglierne una da discutere la settimana dopo.

In questo caso, quindi, quando ci si incontrava si sapeva già l’argomento da discutere. La lettura degli appunti su quanto già detto da altri l’anno prima, ha facilitato l’andamento della conversazione, come complemento a quanto appena ascoltato.

 

Argomenti

 

Attraverso queste conversazioni si vengono a conoscere, fra l’altro, le condizioni di vita del carcere, anche se non sono direttamente e compiutamente descritte.

Gli argomenti trattati (mai proposti da noi) non sono esaustivi, e sono esposti con un certo disordine, una casualità.

 

Metodo

 

Abbiamo usato una pratica di cooperazione, esprimendo confronti col nostro modo di vedere le cose e con la nostra esperienza. L’unica regola che abbiamo imposto è stata quella di non parlare mentre un altro sta parlando. Abbiamo cercato di:

limitare l’eccessivo divagare, la dispersione, o l’accentramento su di sé di alcuni, lasciando però abbastanza libero il discorso entro un certo rispetto del tema;

evitare nostre domande tipo intervista.

incoraggiare a volte in modo indiretto i più chiusi o timidi ad intervenire

Poiché abbiamo preso appunti, questo nostro scrivere poteva anche somigliare a un verbale poliziesco, perciò abbiamo dato spiegazioni mostrando quello che scrivevamo, (niente più delle parole dette e nessun nome) giustificandolo con lo scopo di valorizzare il loro parlato ("che le vostre parole siano conosciute anche fuori")

Spesso durante la lettura degli appunti c’è stata qualche esclamazione di soddisfazione: "Sono io che ho detto questo!"

 

Amori epistolari e tra finestre

 

La posta è tutto, qui dentro! Le lettere d’amore fanno bene, ma quando sarò fuori è una cosa diversa, perché io non mi voglio mettere con una persona che mi ha scritto una lettera d’amore solo perché era chiusa. Non è vero, a me non me ne frega di come è fatto e che è chiuso. Mi sono intrippata! In un mese che ci scriviamo ho avuto 27 lettere, 44 fogli, 17 cartoline e in più tanti regalini carini. Se era fuori non so cosa facevo...

Ma quando sei fuori scopri che sono solo affetti. "Ti amo", e poi una volta che sei uscito...più niente. Bisogna vedere cosa vuol dire la parola ti amo. No, può funzionare anche se si esce. Con me e T. ha funzionato: l’ho conosciuto nel 96, a Mantova, all’aria. Ho alzato gli occhi e lui mi fa: Sei la nuova giunta? E io: " Si, cosa vuoi?" e lui: "No, niente,. ti guardavo"

Lui lavorava alla cucina del maschile, e affacciato vedeva l’aria femminile.che è sotto. Il carcere lì è piccolo, solo 8 detenute, e loro allora fanno le poste e sanno chi arriva. "Ti chiami M?" "Si, piacere" Così ci siamo conosciuti, e via. Io gli ho detto "Guarda , io mi scrivo con miei amici ergastolani. E lui mi fa: "Va bene, ti scrivo anch’io" E mi scriveva, ma poi era geloso, perché io ricevevo lettere da 17 persone. E mi diceva:" M, devi smettere di scrivere" Si, io mi scrivevo con un sacco di gente, ma lettere di amicizia. Magari loro mi scrivevano.:Ciao M, sei una ragazza in gamba, ti voglio bene, sei dolcissima, mi hai fatto capire tante cose anche se fra noi non nascerà mai niente... ma io da parte mia solo amicizia.

Sono uscita e lui dice: "Esci, non mi scriverai più" Invece gli ho sempre scritto. Ero innamorata, ero proprio persa, non capivo niente. E poi quando è uscito ci siamo incontrati. Queste storie ti prendono al cuore veramente, vorresti fare pazzie.

E pensare che le persone che vivono fuori hanno difficoltà a trovare l’amore, e qui in carcere, invece...

Siamo chiusi e ci manca l’affetto qua, ma se per esempio io mi metto a scrivere con quel ragazzo della finestra...

Ah, l’amore di finestra, come è bello! Nasce così: io metto le mani, lui mette le mani. Ecco, si, vedo le mani Non riusciamo a vederci, perché ci sono le sbarre. Con lo specchio si può. Io riesco con lo specchio un po’. Ma io non lo vedo anche perché sono miope. Io ho l’occhio lungo lungo lungo, lunghissimo che vedo tutto tutto tutto. Io con gli uomini di là mi parlo: sento le loro grida. Loro mi chiedono, ma come ti chiami?, perché non mi scrivi? Io faccio con le mani le lettere del mio nome. E non posso urlare perché gli sbirri stanno lì. Ascolta lei come faceva, con uno straccio appoggiato alla sbarra...

E io per San Valentino ho fatto uno straccione e ci ho scritto: buon San Valentino! ti amo! e glie l’ho fatto vedere dalla finestra. Lui mi scrive: sei proprio un fiore, il tuo nome è fantastico, e così, piano piano... . E gli scrivo quello che faccio, quello che non faccio, un po’ di poesie, di qua e di là. E lui dopo un po’ ha mandato una lettera con scritto: ti posso chiamare amore? E io gli ho scritto. Sì che mi puoi chiamare amore, eh eh, e è iniziato: ciao topolina, ciao micetta, ciao gioia, ciao tesoro. È bello, è bello! Di lui ho visto solo le mani, le sue manine bianche. Mi ha detto il prete che lui ha una risata, infatti ha una risata...

Ma nascono anche gelosie. Questo, per esempio, sa che io faccio colloquio col mio coimputato ed è geloso La domenica dalla finestra mi fa: e allora domani colloquio? E io:no, no, non ci vado! E così, siccome è geloso, io da quando conosco lui non scrivo più né al mio ragazzo, né a quello del processo.

Sono sentimenti che provi all’attimo, che vivi qua dentro. Perché non può nascere l’amore? Ma scusa!

C’era uno che per 11 anni, solo in una cella in un carcere speciale, non si è mai scritto con nessuno. Allora un mio amico che conosco da una vita mi dice: "Perché non gli scrivi? "e io gli ho scritto a questo qua. E lui dopo un anno che ci scrivevamo mi ha scritto: mi sono innamorato del tuo cervello,, ma non ti amo. Quando sono uscita, io gli ho continuato a scrivere. Lui mi ha scritto: io ho ancora 12 anni da fare, perciò dimenticati di me, perché io non voglio che tu mi stai dietro. Ma se mi diceva stammi dietro, io gli stavo dietro.

Una volta il mio amico aveva il suo compagno di cella che stava male, proprio da buttare , e mi fa: "Scrivigli tu una lettera, ti conosco da una vita; così me lo tiri un po’ su." E io: gli scrivo, con molto piacere, perché è giusto, è detenuto.

E gli ho scritto sempre di amicizia, mai gli ho scritto ti amo, amore, mai , sempre di amicizia.

Qui la maggior parte delle lettere sono con le persone che già si conoscono.

Si, ti puoi innamorare delle frasi, ma se quando la vedi non ti piace? Lo devi mettere in preventivo.

Già dalla scrittura due si accorgono se vanno d’accordo.

Dopo la corrispondenza può nascere l’amore.

Quando uno si mette a scrivere una lettera a una persona che non conosce, con cui non ha un contatto fisico, le parole sono quasi quelle di un’altra persona.

Uno scrivendo può tirar fuori la personalità nascosta dentro di sé.

Il pensiero va da solo alla persona, ti viene in mente, ti affezioni.

È stupida quella che non ha scritto più al suo ragazzo perché scriveva a un altro.Allora forse non l’amava più

Tanta gente si scrive senza vedersi. Esiste la rivista Cronaca vera dove ci sono richieste di corrispondenza. Molte relazioni epistolari si attivano così.

Si scrive solo per compagnia.

Anche fuori scrivere è un impegno, ma qui è amplificato. Scrivere qui è condizionato dal contesto..

È solo un discorso di amicizia.

È meglio stare con i piedi per terra. Se non la conosci le scrivi perché ti senti solo. E ti fa piacere ricevere posta.

È una speranza, ma non si scrive pensando di trovare l’amore.

Io che ho la donna scrivo a lei.

Può essere un gesto di speranza, un aiuto, specie per chi fuori ha difficoltà.

C’è chi è vergognoso.

Un mio amico poco fa ha conosciuto una ragazza in questura. Poi le ha scritto , ma ormai è una settimana e non ha avuto risposta.

Se scrivi a un familiare, ci sono le tue parole e serve per passare il tempo.

Con le lettere si mantengono i rapporti con i compagni di cella.

Io in ogni carcere ho fatto amicizia che poi sono continuate anche a casa. Ci tengo a mantenere vivi questi rapporti. Perché c’è sincerità.

Nella mia cella riceviamo lettere di un nostro compagno trasferito. Gli rispondiamo a più mani.

Io no, non posso scrivere, perché ho il pensiero a un’altra cosa.

Potresti sfogarti!

No, il discorso è freddo.

Un amico di cella con cui condividevo tutto, una volta usciti non ci siamo sentiti più, abbiamo perso i contatti.

Per informazioni, segnalazioni e adesioni rivolgersi a Gruppo Calamandrana

Presso Lega dei Popoli, via Bagutta 12 Milano tel. 02780811

e-mail gruppocalamandrana@libero.it

Sito internet: http://calamandrana.interfree.it

Gli originali degli scritti pervenutici direttamente da detenuti sono a disposizione presso la nostra sede.

Maria Elena Belli, Nunzio Ferrante, Augusto Magnone, Maria Vittoria Mora, Mario Napoleoni, Dajana Pennacchietti, Gabriella Sacchetti, Sandro Sessa. Le Associazioni: Naga, Lega per i Diritti dei Popoli - Sez. di Milano.

 

 

Precedente Home Su Successiva