Bollettino n° 11

 

Osservatorio Calamandrana sul carcere di San Vittore

"per la trasparenza e l’umanizzazione in carcere"

 

Bollettino n° 11 – febbraio 2004

Continuiamo l'osservazione sul carcere - Sono troppi i morti in carcere

 

Inala gas da bomboletta. Muore a San Vittore

 

La storia di Luisa

Presentazione, 30 settembre 2003

L’informazione giornalistica sulle morti in carcere

Spiare da innamorati dalle inferriate

 

Un ragazzo di 20 anni, condannato per rapina, è morto la notte scorsa nel carcere di San Vittore dopo aver inalato del gas, probabilmente per eccitarsi. Il ragazzo, che era stato condannato in via definitiva per rapina a un anno e sei mesi, secondo una prima ricostruzione, sarebbe andato in bagno e avrebbe inalato del gas da una bomboletta. Poi ha avuto un malore ed è morto.

I compagni di cella hanno riferito che il giovane era tranquillo e lo era anche durante il colloquio che aveva avuto durante la giornata con i familiari. Per questo gli investigatori propendono per l’incidente all’interno del carcere e giudicano molto improbabile l’ipoteso del suicidio

 

I compagni di Maurizio parlano della sua morte

 

Da una conversazione con un gruppo di detenuti dello stesso raggio, 28.10.2003:

 

Cosa si poteva fare perché Maurizio non morisse?

Sappiamo che nel momento non si è potuto fare niente, ma noi potevamo aiutarlo per fargli passare i momenti di malinconia, come abbiamo già fatto.

 

Sono stato 3 mesi in cella con lui: era tranquillo, col sorriso. Lo ricordo col sorriso. Il carcere non gli pesava Diceva: "Io voglio vivere la mia vita". Aveva la foto della bambina vicino al letto. Ci teneva alla sua bellezza.

Era vivace e debole. Ma non prendeva terapia, a parte qualche sera, in certi periodi. Aveva chiesto gli arresti domiciliari, ma aveva ricevuto il rigetto.

 

Alle tredici del giorno della morte era con me all’aria, tranquillissimo, contentissimo, mi diceva che aveva appena fatto il colloquio con i parenti ed era andato benissimo. Era rimasto senza soldi e allora gli ho mandato un pacchetto di sigarette, quel giorno.

A mezzanotte nella sua cella hanno fatto casino. Per me questa morte è arrivata da un gioco: avevano cenato, preso il caffè; da un gioco a una cosa seria. La morte è arrivata dal gioco.

Era regolarissimo, non disturbato: hanno sbagliato a metterlo in cella con dei tossici.

 

Perché nessuno degli altri della cella gli ha chiuso la bombola?

Si poteva fare qualcosa prima; si sa che il gas è pericoloso, lo conosciamo, perché c’è sempre stato. E se uno si vuol suicidare può farlo con tanti mezzi. Occorre formare le celle con almeno uno responsabile. Sulla formazione delle celle decide l’assistente capo. Nella cella dove era quando è morto, erano tutti giovani, tutti prendevano metadone e terapia. Non dormivano mai di notte, giocavano a carte, e perciò dormivano di giorno.

Occorre dividere i tossici. Lui era un debole; lo trascinavi dove volevi. So che voleva venir fuori da quella cella, ma l’assistente capo gli aveva detto di no. Era la persona sbagliata nella cella sbagliata. E’ pesante trovarsi in una cella dove hanno altri linguaggi e non ti capiscono.

 

Perché non l’hanno separato prima?

Se l’avessimo avuto in cella avremmo potuto aiutarlo. Ciascuno è un po’ responsabile dei suoi compagni di cella.

Solo quelli con un rapporto di amicizia possono aiutare. Parlavamo con lui di palestra, ma mai dei nostri problemi.

Se avesse parlato de suoi problemi personali, avrei potuto dargli una mano. Perché quando uno rimane nel suo problema da solo, allora è più difficile. Se uno vuol parlare, allora vediamo insieme. Una volta, per esempio io ho calmato C. Io ero lì in quella cella; me lo sono visto morire davanti. Da allora non ho più pace, non sono più lo stesso. Dal comando mi continuano a chiamare. Io degli sbirri non mi fido.

 

La storia di Luisa

 

Il 5 dicembre scorso Luisa si è uccisa impiccandosi nel bagno della sua cella. Le "concelline" si sono interrogate su questo nuovo, tragico avvenimento.

 

Era educata e molto riservata. Dopo alcuni mesi in infermeria,venne trasferita in reparto. Non socializzava con nessuno, nemmeno con le compagne di cella alle quali non si univa nemmeno per consumare il pasto. Se ne stava tutto il giorno sul suo letto a scrivere o a lavorare a maglia. Una settimana prima della sua morte era caduta in bagno dallo sgabello facendosi male a un gomito. Cosa faceva su uno sgabello in bagno? Giustificò la caduta con le sue compagne di cella dicendo che era salita sullo sgabello per poter appendere dei panni al bastone collocato in alto. Da quel momento (dalla caduta) cambiò. Convinta di essersi fratturata l’osso – anche se muoveva il braccio contuso – cominciò a chiamare insistentemente le agenti e ad essere agitata. La sera in cui decise di compiere l’insano gesto vide la televisione coricata sul suo letto, senza parlare come faceva di solito. All’alba, un urlo quasi disumano ruppe il silenzio. Le detenute capirono subito che era successo qualcosa di grave e i blindo si aprirono. Il corpo di Luisella adagiato su un carrello della spazzatura e coperto da un panno fu visto da molte.

Quel corpo meritava sicuramente un trattamento più dignitoso.

 

Dalla discussione fatta tutti insieme sono emersi questi tre punti:

 

Luisa era una persona a rischio: fino a qualche mese fa veniva costantemente controllata "a vista".

Recentemente Luisa aveva dato dei segni che potevano far pensare a un’intenzione suicida (vedi l’episodio della "caduta" soprascritto). Si chiede un maggior rispetto per i corpi dei morti in carcere, in particolare si vorrebbe che il trasporto venga fatto su una barella e non sul carrello della spazzatura. Inoltre: non è possibile tenere un piccolo "rito" (preghiera, momento di raccoglimento, ricordo collettivo, ecc…) da parte delle compagne detenute intorno al corpo ricomposto?

 

Tutti si devono sentire un po’ responsabili della morte di Luisa che, dietro l’apparente serenità, nascondeva grossissimi problemi.

 

Su questo argomento proponiamo alcuni stralci dal dossier "Morire di carcere" di Ristretti Orizzonti di Padova, che ricostruisce accuratamente le storie di detenuti morti in carcere per suicidio, mala sanità, overdose, cause oscure. Pensiamo che parlare di questi morti sia un modo non solo per restituire loro dignità umana, ma anche per adoperarsi a trovare strategie affinché questi tristi episodi diminuiscano. Ricordiamoci che i suicidi in carcere sono 19 volte più frequenti che fuori. Succede a volte che di queste morti non si dia notizia da nessuna parte, come nel caso di Luigia. Questo ci sembra gravissimo in un periodo in cui si parla tanto di carcere trasparente.

 

Presentazione, 30 settembre 2003

 

Il dossier Morire di carcere rappresenta un contributo importante per far conoscere all’opinione pubblica le reali condizioni del carcere, a cominciare dallo stato di abbandono della sanità penitenziaria. La parte principale del dossier è costituita dalle storie (alcune di poche righe, altre di una pagina) dei detenuti morti nelle carceri italiane tra il gennaio 2002 e il settembre 2003, per suicidio, per malattia, per overdose, per "cause non accertate". Siamo riusciti a restituire un’identità a 124 di loro, togliendoli dall’anonimato delle statistiche sugli "eventi critici".

Per altrettante persone, morte in carcere nello stesso periodo, non c’è stato modo di sapere nulla nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, uno passa "inosservato".

Una seconda sezione del dossier raccoglie notizie e riflessioni tratte dai giornali carcerari: testimonianze di detenuti che conoscevano le persone morte, a volte degli stessi compagni di cella. Inoltre contiene materiali tratti da inchieste delle Associazioni impegnate in difesa dei diritti civili (Antigone, Nessuno tocchi Caino, Osservatorio Calamandrana, etc.), alcuni articoli di Adriano Sofri e Sergio Segio, un’intervista al direttore del carcere "Le Vallette" di Torino, Pietro Buffa, sui "gruppi di attenzione" al disagio psichico attivi nell’istituto che dirige. L’ultima parte è costituita da tabelle riassuntive: l’elenco dei detenuti morti, la loro età e il motivo della morte, le carceri nelle quali si sono verificati i decessi, etc.

 

Il dossier Morire di carcere è stato presentato ufficialmente il 21 settembre 2003 a Venezia, nel corso del dibattito "Carcere: progetti e percorsi di recupero" (al quale hanno partecipato, tra gli altri, Alessandro Margara, Sergio Segio, Francesco Gianfrotta e Beppe Caccia). Vorremmo però ci fossero anche altre occasioni per proporre questa ricerca al pubblico, quindi per richiamare l’attenzione della società sulle condizioni di degrado estremo nelle quali vivono tanti detenuti. Per progettare e poi realizzare queste occasioni di confronto sarebbe importante avere il contributo di tutte le persone che si occupano dell’ambito penale-penitenziario: se l’iniziativa le interessa, la invitiamo a mettersi in contatto con noi, utilizzando i recapiti che trova nell’intestazione della lettera.

 

L’informazione giornalistica sulle morti in carcere

 

"I detenuti sono uomini, non numeri". Forse questo è un pensiero poco originale, sono in tanti che lo ripetono… e qualcuno ci crede anche. Poi sfogli una rassegna stampa sul carcere e trovi molti articoli che sembrano proprio note contabili: c’è il numero totale dei detenuti, di quelli che sarebbero di troppo rispetto alla "normale capienza", degli stranieri e dei tossicodipendenti, per finire con gli autolesionisti ed i morti suicidi.

Questa catena di cifre ricorda tanto le cronache di guerra, con le dimensioni degli eserciti, dei "corpi speciali" di combattenti e, infine, con il bilancio di morti e di feriti. La propaganda bellica si cura di far apparire i nemici come semplici quantità numeriche e, allo stesso tempo, di umanizzare i propri soldati, riprendendo la loro partenza - tra abbracci, baci e lacrime -, magari mostrandoli mentre soccorrono gente bisognosa, mentre pregano o giocano a carte. Allora, il parallelo con l’informazione "dall’interno" potrebbe avere un senso parlando di lotta alla criminalità, piccola e grande, con la contrapposizione tra le forze benigne mobilitate dalla società civile ed i delinquenti, disumani e disumanizzati. I casi sono due: chi finisce in galera rimane per sempre nemico (quindi indegno di essere rappresentato come persona), oppure il ricorso alla contabilità è la maniera meno impegnativa per scrivere del carcere… basta prendere qualche dato dal sito internet del ministero… le cifre sono grosse, fanno impressione, ed è risaputo che la gente cerca cose impressionanti. In questo modo chi non è detenuto, parente o amico di detenuti, volontario od operatore penitenziario, legge del sovraffollamento delle carceri come potrebbe leggere della migrazione delle oche canadesi… non gliene frega niente, in pratica!

 

La fonte privilegiata della notizia – spesso l’unica – è la direzione del carcere, che di solito trasmette uno scarno comunicato nel quale si preoccupa soprattutto di difendere il lavoro svolto dagli agenti, "prontamente accorsi per soccorrere il detenuto", dai medici "chiamati d’urgenza" che "si sono prodigati per salvargli la vita" e dagli altri operatori che "lo seguivano costantemente". Sono loro i veri protagonisti dell’articolo che compare sui giornali: tante volte non c’è nemmeno il nome del detenuto morto (per suicidio o per malattia)…

Ritorna quindi la regola della spersonalizzazione del "nemico" e in più i cronisti aggiungono, di propria iniziativa, un giudizio morale sull’accaduto, spesso senza conoscere la storia che c’è dietro.  Eppure sarebbe possibile dare queste notizie in modo diverso: su circa 300 articoli esaminati nella ricerca almeno una trentina sono costruiti con maggiore attenzione… Trenta articoli "buoni" su 300 sono pochi, … per far riflettere i lettori, per aiutarli a capire (semmai gli interessi) i motivi di un suicidio o di uno sciopero della fame protratto fino a morirne.

Sul versante opposto, invece, c’è il rischio di trasformare la storia vissuta (e tragica) in una sorta di romanzo.

…Abbiamo cercato di realizzare una ricerca che privilegiasse l’aspetto divulgativo, piuttosto di quello più propriamente scientifico.

La parte principale è costituita dalle storie – alcune di poche righe, altre di una pagina – di detenuti suicidi, morti per malattia, per overdose, per "cause non accertate", in ordine cronologico dal gennaio 2002 al settembre 2003. Sono oltre centoventi, quelli ai quali siamo riusciti a restituire un’identità e una provenienza togliendoli dall’anonimato delle statistiche. Per quasi altrettanti non c’è stato modo di sapere nulla, nonostante la rassegna stampa (che ha fatto da base per l’indagine) contenesse notizie tratte da tutti i principali quotidiani nazionali e da molti giornali locali: la conclusione più logica è che, ogni due detenuti che muoiono, uno passa quasi "inosservato". Una seconda sezione della ricerca raccoglie notizie e riflessioni tratte dai giornali carcerari: testimonianze di detenuti che conoscevano le persone morte. L’ultima parte è costituita da tabelle riassuntive: l’elenco dei detenuti morti, la loro età e il motivo della morte, le carceri nelle quali si sono verificati i decessi

 

Ci hanno scritto…

 

Spiare da innamorati dalle inferriate

 

Don Angelo Casati, parroco di S.Giovanni Laterano, ha partecipato nel mese di novembre 2003 ad un incontro organizzato dal Gruppo Cuminetti con le detenute del reparto femminile di San Vittore che avevano letto per loro iniziativa il Cantico dei Cantici; Don Angelo ci ha cortesemente inviato un suo scritto su quest’esperienza così significativa, di cui riteniamo interessante pubblicare uno stralcio a testimonianza del fatto che in carcere, a situazioni drammatiche come quelle evidenziate prima, si alternano momenti di autentica emozione.

Il mio Natale quest’anno ha avuto un anticipo di mesi, due se ben ricordo. La celebrazione, come vedi, si fa lunga, viene da lontano. Era una mattina di fine ottobre, mattina a sferzate di piovaschi e di vento. A stento, quasi impossibile il riparo fuori dal carcere, piazza Filangeri 2, San Vittore. Aspettavo un’amica e interpretavo volti. Di coloro che entrano e di coloro che uscivano. Alla ricerca di che cosa li potesse portare a quella soglia, dentro e fuori la soglia. Poi arriva Francesca. Lei è un’esperta, esperta anche nelle burocrazie. Si entra per tappe, a sbarramenti successivi, a sorveglianza di controlli. La verifica del permesso, meticolosamente, prima a uno poi a un altro controllo. E gli agenti a sfogliare carte alla ricerca della tua, che guarda caso sembra non esserci e poi puntigliosamente appare. E si apre l’ultima porta dietro uno sferragliare di chiavi. Ti risuoneranno, a intervalli di sofferenza, per tutto l’arco del giorno. E oltre. E tu sai che la porta si chiude ma si riapre. Per altri no, si chiude né e dato sapere se si aprirà né quando. Sali le scale. Quante ne salirai, centinaia di gradini, in un colpo solo, a misura di vecchiaia, in questo andare per case, che precede il Natale, ma forse mai i gradini furono più pesanti di questi. Entri nel braccio femminile. Dal corridoio ora ti pesano sulle spalle le celle, dove quasi non osi guardare. Ti vai infatti chiedendo se un detenuto o una detenuta possano sopportare con piacere l’essere guardati o salutati in simile degrado. E ti si affacciano alla memoria parole, discorsi da salotto, che osano evocare il carcere come soggiorno - e via! - non privo di conforti. Passi il corridoio. Gli occhi ora portano il peso del disgusto.

Ma perché proprio lì, dietro la porta che sordamente si chiude, cominciasse il mio Natale, ora mi è difficile spiegare. Ti dirò che non fu solo per accostamento di scale e gradini, scale e gradini che, da che sono prete di parrocchia, fanno da vigilia al Natale. Fu invece per via di alcune donne che incontrammo in un locale lungo e stretto. La chiamano biblioteca. Da tempo esse stavano leggendo il Cantico dei Cantici, un libro della Bibbia, che a motivo del suo scoperto erotismo trovò resistenza ad essere riconosciuto nell’elenco dei libri canonici. Le donne ci avevano dato appuntamento per parlarne. A cuore libero. E fu a cuore libero. Ora gli occhi, i miei, passavano in rassegna i volti lentamente, con la lentezza di chi indugia a scoprire. E non era più curiosità che invade dagli spioncini delle celle. Erano volti. Ed era un incrociarsi di occhi. E dietro i volti, dietro gli occhi storie sconosciute che li avevano scavati. Volti scavati ma non prosciugati. C’era un riconoscimento di terre di bellezza.

Erano volti. E furono parole calde di umanità, a vibrazione di corpi, a trasalimento e sconfinamento di emozione, di fedeltà. Come se un amato le spiasse dalle inferriate. E non era spiare da secondini, ma spiare dell’amore.

L’amata del Cantico dei Cantici mai più avrebbe pensato che la sua canzone d’amore sarebbe stata letta al di dentro di ben altre inferriate, quelle del carcere.

 

Una voce, il mio diletto.

Eccolo viene

saltando per i monti

balzando per le colline.

Somiglia il mio diletto a un capriolo

o ad un cerbiatto.

Eccolo, egli sta

dietro il nostro muro,

guarda dalle finestre

spia attraverso le inferriate.

 

Dietro il muro, attraverso le inferriate il filtrare dell’unica cosa che ci fa umani, ci fa grandi, l’amore, fuori dalle sbarre della durezza, dell’indifferenza, del vuoto di sentimenti. Il disamore, la durezza, è la vera drammatica, definitiva prigione, prigione a segno di eternità, che ci fa detenuti e detenute. Per sempre. Furono parole e non furono parole. Era l’eco di storie lontane e vicine. Accadevano storie nella cosiddetta biblioteca, al secondo piano, braccio femminile di un carcere chiamato S.Vittore.

E sul finire delle parole l’ultima, o la penultima, che anticipò di due mesi il Natale, parola che abbracciava tutto l’orizzonte dell’amarezza umana. "Ci giudicano" disse "senza nemmeno guardarci in faccia, senza alzare lo sguardo dalle carte, dai giornali". E la sofferenza era giunta ad inumidire gli occhi: "senza nemmeno guardarci in faccia".

 

Abbiamo ricevuto dal magistrato Francesco Maisto queste righe che volentieri riportiamo, data l’autorevolezza della fonte:

 

Cari amici,

ho ricevuto il bollettino 10 del gruppo Calamandrana e devo riconoscere che, ancora una volta, pur nella povertà della forma, è invece ricco di informazioni e di "pugni nello stomaco". Mandatelo anche a quelle sedi istituzionali che possono o devono intervenire.

 

Buon lavoro.

 

Francesco Maisto

 

 

Per informazioni, segnalazioni e adesioni rivolgersi a Gruppo Calamandrana, presso Lega dei Popoli, via Bagutta n. 12 - Milano telefono 02780811 e-mail lidlip@libero.it

 

Gli originali degli scritti pervenutici direttamente da detenuti sono a disposizione presso la nostra sede

 

Maria Elena Belli, Nunzio Ferrante, Augusto Magnone, Maria Vittoria Mora, Mario Napoleoni, Dajana Pennacchietti, Gabriella Sacchetti, Sandro Sessa

 

 

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