Sorveglianza speciale

    

Sulla sorveglianza speciale

Gazzetta del Sud, 4 marzo 2003

Se la pena, come previsto dalla Costituzione, ha finalità di correzione e recupero, può essere disposta la sorveglianza speciale a una persona mentre è in carcere e che quindi, almeno astrattamente, è impegnata in uno sforzo di recupero e che, altrettanto astrattamente, potrebbe non essere più pericolosa per la società una volta uscita (quando cioè la misura si applicherà)? Sulla rilevanza della questione - così espressa in estrema sintesi - dovrà esprimersi a breve la Corte Costituzionale.

A sollevarla è stata nei giorni scorsi il tribunale di Catanzaro sezione misure di prevenzione (presidente Vecchio, giudici a latere Mellace e Barillari, relatrice) su richiesta degli avvocati Piero Mancuso e Saverio Loiero. Il Questore il 21 giugno del 2002 aveva proposto al tribunale di Catanzaro che a A.F., detenuto presso la casa circondariale di Siano, fosse applicata la misura di prevenzione della sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno nel comune di residenza. All'udienza del 30 dicembre in camera di consiglio, il pubblico ministero ne chiedeva l'applicazione per il periodo di due anni.

La difesa ha evidenziato in quell'occasione che il proprio assistito sta espiando una pena di sette anni di reclusione per detenzione illecita di stupefacenti. Ed è su questa condanna che si incentra il giudizio di pericolosità sociale formulato nella proposta del Questore. Gli avvocati hanno obiettato che la pericolosità sociale del soggetto è "neutralizzata" per la semplice constatazione che egli è in carcere per un periodo (sette anni) superiore a quello di durata dell'eventuale misura di detenzione.

Ma la difesa - e qui sta il punto - ha chiesto in subordine anche la sospensione "sino al completamento del periodo di espiazione della pena, allorquando sarà possibile verificare per l'appunto se in esito ad esso sia stato in concreto conseguito il positivo effetto di recupero e di emenda sulla personalità del condannato". In altre parole - sembrano dire gli avvocati - applicategli pure se ritenete la sorveglianza speciale ma solo dopo che, essendo uscito dal carcere, egli possa essere ancora considerato socialmente pericoloso perché evidentemente la pena come medicina non ha funzionato.

La legge, però, mentre consente la revoca se si dimostra, scontata la pena, di non essere più pericolosi socialmente, non consente al giudice di differire il giudizio sulla pericolosità al momento in cui il soggetto è uscito dal carcere. In altre parole se A.F. sarà pericoloso o meno va deciso ora, mentre è ancora in carcere (dal quale viceversa per la Costituzione dovrebbe uscire "come nuovo"). Il che carica il giudice a volte di facoltà divinatorie! Il tribunale di Catanzaro ha quindi sollevato la questione di legittimità (rispetto al principio che la pena deve mirare alla rieducazione del condannato) della norma "che consente l'applicazione della sorveglianza speciale alla persona che sia stata condannata a una pena superiore alla durata massima della sorveglianza stessa e che si trovi detenuta proprio per quel reato che sta alla base del giudizio di futura pericolosità sociale".

Per gli addetti ai lavori il principio è quello sancito dall'articolo 27 comma tre della carta fondamentale e la norma impugnata è contenuta nell'articolo tre della legge 1423 del 1956. La decisione sulla questione è sospesa fino alla pronuncia sul punto del giudice delle leggi. Le misure di prevenzione derivano da provvedimenti che possono variare ma che in qualche modo si riconducono tutti alla presunta pericolosità di un soggetto. Introdotte sotto il fascismo nel codice Rocco, sono state "tollerate" nel sistema giuridico del dopoguerra ma sempre viste con sospetto.

Cozzano contro l'idea costituzionale (liberale e democratica) che le limitazioni alla libertà personale siano possibili solo per decisione di un giudice che abbia in via definitiva riconosciuto la colpevolezza del cittadino e per fatti specifici. Sembra una questione accademica, da azzeccagarbugli di provincia e per non addetti ai lavori. Ma non lo è. Si tratta infatti di un problema spinoso e, in tempi di indulti ed indultini, di particolare attualità. Chi conosce le carceri sa quanto la volontà dei padri costituenti sia lontana dalla realtà. Non è un mistero che dietro le sbarre, nonostante l'impegno degli operatori spesso allo stremo, si costituiscono delle scuole di specializzazione del crimine, o comunque si sviluppano situazioni di abbrutimento umano, di svilimento della persona che non di rado hanno esiti tragici.

Ci sono però dei casi che fortunatamente fanno eccezione. E su questi casi inciderà la decisione della Corte. Chi compie reati deve pagare. Ma essere delinquente non è una situazione irreversibile, un segno indelebile come pretendevano alcune correnti positivistiche. Al di là del giuridichese, c'è un dilemma umano alla base: chi ha dimostrato nel passato di essere ribelle verso le regole sociali, al punto da commettere reati, continuerà ad esserlo per tutta la vita - in omaggio al detto "chi nasce tondo non muore quadrato" - oppure la speranza non è solo argomento per anime belle? Ai giudici l'ardua sentenza.

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