La negoziabilità penale

 

La negoziabilità penale tra parsimonia e dissipazione

di Massimo Pavarini (Università di Bologna)

 

Ancora "pena giusta" contro "pena utile"?

L’incertezza "fisiologica" delle pene

Negoziabilità e ineffetività delle pene

I limiti al "negozio penale" e le tentazioni della "nuova" penologia

Anoressia e bulimia

Da una penologia "dall’alto" ad una "dal basso"

"Prison works" a patto che...

Dalle "carriere criminali" ai "criminali in carriera"

"Pre-visione" della pericolosità o "post-visione" dei rischi?

"Economie dell’eccesso" e castighi smodati

La pena e le emozioni collettive

Ancora "pena giusta" contro "pena utile"?

 

La distinzione e contrapposizione tra "pena giusta" e "pena utile" appartiene ad una sorta di linguaggio paradigmatico per mettere ordine su una vecchia questione. Distinzione/contrapposizione certo intelligente – nel senso che è capace di spiegare – ma spiegare qualche cosa che appartiene oramai alla storia del diritto penale. Oggi essa non è in grado di capire il presente della questione criminale. In due distinte occasione tematiche questa distinzione/contrapposizione si è palesata convincente ed assunta in termini appunto paradigmatici dalla società dei giuristi e degli scienziati della legislazione penale.

Alle origini del diritto penale moderno, la pena utile indicava quella in astratto e quindi coincideva con lo scopo del diritto penale che faticosamente si legittimava politicamente appunto a fini utilitaristici di prevenzione; pena giusta, indicava, per scrupolo e preoccupazione di garanzia, la pena in concreto, ovvero il momento commisurativo, ove appunto la persona non può essere mai oggetto di politica criminale. In questa originaria distinzione, come è evidente, il momento esecutivo semplicemente non era presente. Per ripetere la felice definizione del bel libro di Costa, il momento esecutivo si collocava allora nello spazio tematico del "non-diritto". Foucault, con diverse parole ma identica intelligenza, lo definisce come spazio della "disciplina", come altro, appunto, dal diritto. In questa dimensione storica, la retribuzione non è pertanto scopo, ma solo criterio formale nella commisurazione del castigo al caso concreto. La reazione penale al fatto di reato deve essere a questo proporzionata secondo il dominio dell’idea contrattuale per essere appunto formalmente giusta. A ben intendere, nulla più di un macchiavello, per cercare di limitare – in concreto – la reazione punitiva.

A fare corso almeno dalla seconda metà dell’ottocento, la distinzione/opposizione tra pena utile e pena giusta viene utilizzata per distinguere la fase commisurativa da quella esecutiva vera e propria. Ove - e la circostanza è decisiva - l’esecuzione si offre storicamente come amministrazione e gestione di uomini per un tempo di libertà sottratto coattivamente. Cioè si da come esecuzione di pene che si dispiegano nel tempo. Originariamente solo come pena carceraria. Alla pena giusta – ovvero meritata per il fatto – segue una pena che in quanto "esecuzione" è giocoforza costretta a fare i conti con il problema del trattare gli uomini, cioè con la disciplina (appunto il non diritto, quella dimensione che non può sottostare alle regole del sinallagma).

Insomma: la distinzione/opposizione tra pena utile e pena giusta segnano due significative tappe del processo prima di secolarizzazione poi di laicizzazione del diritto penale moderno; in qualche modo come due significativi momenti di resistenza ad accettare fino in fondo i costi inevitabili di un diritto penale che si fa strumento di controllo e di disciplina sociali.

Detto diversamente: non si censurano fatti, ma si rimproverano gli autori dei fatti illeciti; non si puniscono le condotte criminali, ma si fanno soffrire gli uomini colpevoli. E a questa disincantata evidenza storica della modernità, l’idea di giustizia come limite, non può (nel senso che non riesce) ad essere opposta al perseguimento dell’utile: censurare gli autori e punire i colpevoli, perché se non per ragioni (presunte o reali) di utilità sociale?

La dimensione del diritto penale della modernità si iscrive quindi totalmente e incondizionatamente nell’universo utilitaristico di ciò che può giustificarsi solo se serve. L’idea di pena giusta esprime quindi la memoria storica di una resistenza - politicamente agita e sempre agibile - da parte di chi contingentemente teme e/o non condivide e/o si oppone ad una determinata rappresentazione dell’utilità sociale come si da nell’azione politica. È insomma la gloriosa quanto - ahimè - sempre sconfitta volontà di fare del diritto penale il limite della politica criminale.

L’interesse si deve spostare dall’intendere le ragione del trionfo della pena utile sulle resistenze poste dalla pena giusta (ragioni ultime che sono iscritte nel patrimonio genetico della modernità), ai modi e se si vuole ai progressivi accomodamenti attraverso i quali questo processo di egemonia si è storicamente dato.

E indubbiamente l’interesse principale deve porsi proprio nella fase esecutiva, il primo terreno di occupazione - trionfante e totale - dell’egemonia utilitaristica della pena. E per fare ciò, dobbiamo riferirci a contesti giuridici e culturali specifici, perché ovunque essa si è data diversamente. Nella prima parte del presente saggio farò quindi riferimento alla situazione italiana e dirò cose forse ai più scontate. Ciò mi consentirà di essere rapido e di procedere rapsodicamente. Per punti, descriverò una sorta di conquista a tappe dell’idea di utile della pena a partire dalla fase esecutiva. E ritengo che la chiave di lettura più agevole per descrivere questo processo sia quella in grado di cogliere la progressiva erosione al principio della inderogabilità del giudicato in fase esecutiva, esigenza decisiva quest’ultima, alla affermazione del valore della pena meritata per il fatto come pena giusta.

Nella seconda parte, mi voglio invece occupare di un diverso profilo che a quello della "pena utile" oggi sempre più frequentemente si connette. Esso può essere in breve così sommariamente indicato: tra gli effetti necessari quanto scontati dell’affermarsi di un fondamento utilitaristico della pena va indicato l’irrompere della negoziabilità nella fase commisurativa ed esecutiva dei castighi legali [oltre che nella punibilità in senso stretto] e in conseguenza di ciò la produzione di ampie zone di ineffettività penale. È indubitabile che i valori della certezza ed uguaglianza delle pene siano oggi ovunque minacciati; oggi, in più contesti, è dato assistere ad una sorta di volontà di restaurazione di questi. È mia intenzione dimostrare che questo movimento in favore di un ritorno alla certezza delle pene – consapevolmente o meno – occulti una istanza di maggiore penalità.

L’incertezza "fisiologica" delle pene

 

Prendiamo atto che il principio della inflessibilità della pena in fase esecutiva quale effetto necessitato del principio della inderogabilità del giudicato nel nostro sistema positivo, a fare corso dalla unificazione italiana, non è mai esistito, se non appunto a parole o nella testa dei giuristi. La penalità meritata per il fatto è sempre stata solo virtuale rispetto a quella effettivamente eseguita.

La penalità nei fatti è sempre stata governata dal Principe attraverso la politica criminale che definiamo di natura indulgenziale. Il sistema del politica non si è mai limitato a perseguire scopi di utilità attraverso la penalità in astratto (vale a dire attraverso la penalità edittale), ma costantemente ha governato anche la penalità in concreto per necessità utilitaristiche di varia natura: di governo del carcere, di economia finanziaria, di consenso politico, ecc. Insomma, la pena in fase esecutiva è sempre stata oggetto di "scambio" per ragioni di utile.

Il primo "esplicito" vulnus alla inflessibilità della pena per ragioni special-preventive (meglio: per presunte giustificazioni special-preventive) anticipa poi la stessa Codificazione Rocco: i regimi della sospensione e della liberazione condizionale della pena sono infatti di vecchia data, sempre applicati a livello di massa e con rigoroso automatismo. Malcelate sotto la foglia di fico della special-prevenzione, la sospensione e la liberazione condizionale della pena hanno perseguito il fine di contenere la penalità nei fatti consentendo al terrorismo sanzionatorio e al momento commisurativo della pena di soddisfare esigenze general-preventive, sia positive che negative, senza dovere pagare i costi che simile necessità determinano a livello esecutivo.

Infine solo con la legge di riforma penitenziaria del 1975 n. 354, nel sistema di giustizia penale italiano si porta a regola il principio (non più eccezione, per quanto quantitativamente vistosissima) della "pena flessibile" per sole ragioni special-preventive.

La scelta tecnica operata è stata quella - e non si vede quale altra poteva essere - della negoziazione della pena in fase esecutiva. Così, ad un primo "scambio negativo" (equivalenza tra reato e pena) che si opera nella fase di commisurazione del castigo legale al fatto di reato, si è venuto contrapponendo, in fase esecutiva, la praticabilità di uno "scambio positivo" o "scambio penitenziario" tra parte o intensità della sofferenza legale (attraverso la concessione delle misure alternative in senso proprio e dei benefici penitenziari) con valutazione prognostiche favorevoli di non-recidività. Almeno così negli intenti della legge.

La pena nei fatti acquistò così la virtù di potere essere più breve o più mite, quanto più lunga (ad esempio, per l’efficacia retroattiva della revoca di alcuni benefici penitenziari, come la liberazione condizionale e l’affidamento in prova al servizio sociale) o più severa (per la sottoposizione del detenuto al regime della sorveglianza particolare e della detenzione in carceri speciali) di quella originariamente meritata, per ragioni che non si rivolgevano più al passato - a ciò che si è fatto - ma al presente e al futuro: come si è e come è dato presumere che si sarà.

I parametri legali che vincolavano il potere discrezionale in fase esecutiva al processo sull’autore e che costituivano pertanto i termini paradigmatici in cui determinare la giudiziabilità dello "scambio penitenziario" erano dalla legge del 75 alquanto genericamente indicati come quelli su cui poteva fondarsi il giudizio prognostico di non recidività. Pertanto l’arsenale giustificativo della flessibilità della pena in fase esecutiva fu inizialmente quello proprio di un modello correzionale, essendo la discrezionalità nella flessibilità della pena fortemente vincolata a precisi contenuti special-preventivi. Con la Gozzini del 1986 le cose cambiano e di molto.

Si accentua la flessibilità della pena in fase esecutiva, per ragioni che sempre più si allontanano da quelle proprie special-preventive per aderire ad una premialità finalizzata a suscitare nel condannato comportamenti ritenuti altrimenti utili. Per altro - e conseguentemente - la meritevolezza del premio non è più legata ad una sua (per la verità solo presunta) verificabilità trattamentale, potendosi sempre più godere di benefici dallo stato di libertà.

Sono dell’opinione che il breve lasso di tempo che va dalla riforma Gozzini alla legislazione di contrasto alla criminalità organizzata dei primi anni novanta - sostanzialmente in un solo lustro - a livello di prassi interpretative e per interventi giurisprudenziali di legittimità si consumi definitivamente da un lato l’illusione correzionalitica (fortemente ideologica) e dall’altro lato si gettino le fondamenta di una "nuova" negoziabilità della pena di natura prettamente tecnocratica, sensibile alle ragioni squisitamente politiche di governo "deflativo" della penalità.

Si ponga mente alla lunga querelle in tema di "pena inflitta" e all’esito finale di intendere quella ancora da espiare, con l’effetto di consentire anche ai condannati alle pene medio-lunghe, financo ai condannati alla pena perpetua dell’ergastolo, di godere di notevoli benefici in una logica di diffusa calmierazione della severità dei castighi. Si ponga mente ancora all’intervento della C.C. che ha consentito a tutti i condannati a pena inferiore inizialmente ai tre anni o con residui pena inferiori a tre anni di fare istanza di affidamento in prova al servizio sociale senza assaggio di carcere e senza l’osservazione scientifica della personalità intra-moenia. Insomma: il circuito delle alternatività in Italia – il c.d. altro carcere – si è imposto dal punto di vista quantitativo solo alla fine degli anni ottanta, in una logica oramai irrimediabilmente lontana da quella originale di una pena più utile a scopi special-preventivi.

La nuova disciplina della differenziazione trattamentale per ragioni di pericolosità apportata dalla legislazione emergenziale di contrasto alla criminalità organizzata dei primi anni novanta certamente ulteriormente esaspera i termini della negoziabilità - fino all’estremo della rinuncia a punire il condannato alla pena dell’ergastolo a fronte di una collaborazione qualificata ovvero a punire in regime speciale ex art. 41 bis 2 comma or. penit., l’affiliato al crimine organizzato che non collabora -, ma, a ben intendere, essa non fa che procedere per una strada che da tempo era già stata tracciata.

Per altro, mai come in questo caso, l’utilità della negoziazione è apparsa a tutti evidente. Voglio dire, che difficilmente si può negare, anche alla luce dell’esperienza, che l’esasperata premialità volta a negoziare la collaborazione del mafioso non sia risultata utile nella lotta al crimine organizzato, mentre è legittimo dubitare che altrettanto utile sia mai stata a fini special-preventivi. Come dire che le ragioni dell’utile sono più soddisfabili quanto più la negoziabilità si costruisce su prestazioni verificabili nel presente che su prognosi comportamentali verificabili solo nel futuro.

E siamo così oramai al presente. La riforma Sindone - Saraceni in qualche modo estende ulteriormente i termini della flessibilità oltrepassando quelli stessi posti della negoziabilità. Per ragioni che nel presente non merita discutere, ma che personalmente anche condivido, con la Simeone - Saraceni siamo oramai altre la soglia di una flessibilità negoziata (perché manca la contrattualità, non si da scambio alcuno), per avventurarci in quelli di una parziale rinuncia "unilaterale" a punire nei fatti, al fine di tenere la penalità in concreto - oramai fuori controllo - entro limiti di compatibilità sistemica. Cerchiamo ora di porre in evidenza alcuni punti fermi emersi dalla lettura di queste vicende di riformismo penitenziario. Il riformismo penitenziario di questi ultimi venticinque anni partecipa da primo attore, ma all’interno di una ben più complessiva trama che si dispiega in un arco di tempo più ampio, alla grande trasformazione del sistema della giustizia penale, qualificandolo come fortemente segnato da queste tendenze di fondo:

  1. l’aumento del potere discrezionale, anche se non solo come conseguenza dell’ampliamento dei termini dello "scambio penitenziario"; e in ciò direttamente contraddicendo il paradigma fondante il diritto penale moderno come diritto penale uguale;

  2. l’accentuata frammentazione del sistema penale in sotto-sistemi di diritto penale speciale; e in ciò entrando in linea di collisione con la possibilità di una nuova codificazione penale;

  3. l’irresistibile attrazione del sistema di giustizia penale a strumento suscitatore di comportamenti desiderati e conformi in una logica di premialità; e con ciò delegittimando i criteri intrasistemici classici di autolimitazione (garantismo penale).

Il riformismo penitenziario è quindi corresponsabile del processo di trasfigurazione del volto del diritto penale in un sistema di giustizia diseguale e speciale. Tutto ciò può essere letto come processo involutivo da un punto di vista dei principi del diritto penale classico; il medesimo fenomeno però può essere giustificato come necessaria (e pertanto inevitabile) evoluzione da un punto di vista di principi di un diritto penale post-moderno.

Il riformismo penitenziario contribuisce quindi a portare a definitiva maturazione il processo di disintegrazione del sistema sanzionatorio classico.

Una ragione strutturale ed una contingente (di comodo) privilegiano la fase esecutiva nella produzione del nuovo sistema delle pene: quella strutturale, che in ossequio al criterio della implementazione verso il basso della decisione, suggerisce che sia il segmento finale (cioè quello dell’esecuzione) a cercare contingentemente un improbabile equilibro tra istanze di politica criminale diverse e contrastanti non risolvibili "a monte"; quella contingente e di comodo, che trova nell’ideologia special-preventiva il comodo alibi per giustificare la più ampia discrezionalità nella produzione di un diritto penale diseguale e speciale.

Negoziabilità e ineffetività delle pene

 

Veniamo ora al nodo centrale dell’intera questione. L’irruzione della negoziabilità nel sistema penale - qui colto limitatamente e parzialmente alla sola fase esecutiva - viene ritenuto responsabile dell’involuzione verso un diritto penale diseguale, frammentario e soprattutto ineffettivo ed incerto. Non mi interessa tanto discutere sui primi due presunti vizi, che ritengo invece attributi necessari - non dico virtuosi - di un sistema di giustizia penale della post-modernità. Mi interessa invece discutere se l’irrompere della negoziabilità nel diritto penale (almeno nella sua fase esecutiva) sia alla base della presunta incertezza ed inefettività dei castighi legali.

Credo che molta confusione oggi regni sovrana in tema di ineffettività ed incertezza delle pene. Come se si trattasse di un fenomeno relativamente nuovo, una sorta di patologia del presente. Se ci poniamo invece da un punto di vista extrasistemico, l’ineffettività e l’incertezza della reazione punitiva sono le note strutturali e pertanto permanenti ed universali del sistema della giustizia penale. Ineffettività e incertezza sono infatti i necessari attributi della natura selettiva del sistema penale; come altrimenti dire che la giustizia penale può esistere in quanto si assumano i costi della sua incertezza e ineffettività.

Il sistema della giustizia criminale è altamente incerto ed ineffettivo in tutti i momenti in cui si sviluppa il processo di criminalizzazione secondario. Il primo livello di ineffettività ed incertezza si colloca nella selezione della criminalità manifesta e quindi perseguibile rispetto a quella latente, ma reale. La recente ricerca ISTAT in tema di vittimizzazione, per quanto concerne solo alcuni delitti contro la proprietà ed alcuni contro la persona, stima una propensione denunciataria a livello nazionale intorno al 40 %. Il che significa che limitatamente ai soli reati c.d predatori [per altro quelli nei confronti dei quali la propensione denunciataria è più elevata], oltre il 60 % dei reati consumati non viene neppure a conoscenza dell’autorità di polizia. E sia ben chiaro che questa percentuale e nella media degli altri paesi occidentali.

Della sola criminalità manifesta, una minima parte passa attraverso il secondo stadio, quello processuale giudiziario. In Italia i reati di autore ignoto sono circa il 90 % dei reati denunciati. E anche in questo caso, la realtà italiana è in tutto simile a quanto avviene altrove. Insomma: su 100 delitti commessi, meno di quaranta vengono a conoscenza del sistema della giustizia penale e di questi forse non più di tre conoscono un qualche esito processuale di cui più della metà è di proscioglimento e/o assoluzione. E sia ben chiaro ci riferiamo ai soli delitti c.d. naturali (omicidio, lesioni, furti, rapine) e tacciamo dei delitti c.d. artificiali rispetto ai quali la cifra oscura è di dimensioni che si approssimano a quelle della criminalità reale e il cui esito sanzionatorio è appunto apprezzabile solo in termini di rischio. Cento delitti e ben che vada un solo colpevole. E tutto ciò - ci insegna la penologia - è assolutamente fisiologico. Se mai il sistema della giustizia penale dovesse essere giudicato in un’ottica di produttività – come tendono a fare le retoriche di moda che parlano di "impresa giustizia" - il fallimento sarebbe stato già da tempo inesorabilmente dichiarato. Non conosco infatti altra istituzione così drammaticamente inefficiente ed inefficace da non essere in grado di "conoscere" e "trattare" - si badi: in regime di monopolio - neppure l’1 per 100% del proprio mercato!

Bene: tutti gli studi che sono stati rivolti al funzionamento del sistema della criminalizzazione secondaria, concordano nel riconoscere che questa esasperata selettività non solo non può ragionevolmente essere ridotta e ciò per precisi ed invalicabili limiti di compatibilità con il sistema della democrazia e con quello dell’economia, ma che anzi, quasi tutti i sistemi di giustizia penale si muovono se mai nel senso di ulteriormente ampliare la propria selettività.

Ma di più: i criteri di selettività non sono "governati" né "governabili" dall’interno del sistema penale stesso, cioè non rinviano a criteri intrasistemici di selezione, ma sono in qualche modo "sociologici" (la coscienza sociale, le risorse economiche disponibili, il livello di conflittualità, il grado di fiducia/sfiducia nei confronti del sistema penale stesso, ecc.) e pertanto operano al di là di ogni criterio giustificativo e condiviso. E tutto ciò - da un punto di vista del dover essere normativo - significa totale incertezza ed assoluta diseguaglianza.

Così ad esempio, la sempre denunciata natura classista del sistema penale - in ragione della quale il diritto penale è nei fatti diseguale in ragione della variabile socio-economica degli attori sociali - non appartiene oggi (e forse mai è appartenuto nella Modernità) ad alcuna esplicita volontà del sistema penale stesso, che al contrario si è sempre legittimato - al suo interno - come diritto per eccellenza "uguale", anche se tutto ciò non gli ha impedito - nella sua dimensione funzionale - di produrre e riprodurre diseguaglianza. La certezza ed effettività del diritto penale e di conseguenza la certezza e l’effettività delle pene sono pertanto criteri di legittimazione "interni" del sistema penale che gli consentano - per seguire l’analisi di Luhmann - di operare una differenziazione funzionale tra sé è gli altri sistemi, cioè per preservare la propria specializzazione. E questa certezza ed effettività delle pene è comunque garantita "normativamente"a prescindere se nei fatti il sistema penale operi "sociologicamente" nell’assoluta incertezza ed inefettività. Se il sistema penale è per eccellenza "cognitivamente aperto", quanto "normativamente chiuso", cioè può recepire dall’esterno solo quanto a sé funzionale, possiamo ben dire che l’incertezza e l’ineffettività del suo "agire" è a garanzia della "certezza" ed "effettività" del suo essere. In questo senso l’irruzione della negoziabilità nel sistema penale opera appunto come formidabile gate-keeper volto a preservare l’autopoiesi del sistema penale stesso.

Ma quando oggi si parla di ineffettività e di incertezza dei castighi legali, evidentemente si parla di altro, che nulla ha a che vedere con l’incertezza ed ineffettività strutturale del sistema di giustizia criminale.

A mio modo di intendere, oggi con la richiesta di maggiore certezza ed effettività delle pene si esprime in termini educati ed edulcorati solo una domanda sociale di maggior penalità nei fatti. E nella situazione sopra descritta di strutturale inefettività ed incertezza del sistema di giustizia criminale, invocare maggior certezza ed effettività delle pene equivale a domandare solo un aumento del/nel valore simbolico della repressione in un’ottica squisitamente di general-prevenzione positiva.

I limiti al "negozio penale" e le tentazioni della "nuova" penologia

 

Per quanto utile e forse necessaria, esiste un limite all’irruzione della negoziabilità della pena? Sono dell’idea che il limite strutturale al processo di "negoziazione"della pena sia dato dalla ineliminabile funzione di censura sociale che ontologicamente appartiene al sistema di giustizia penale. Se il processo di "commercializzazione" si spinge oltre il limite superato il quale si determina socialmente la perdita del "senso" del punire - cioè del dare intenzionalmente sofferenza per produrre quell’aggiuntivo handicap che è in grado di determinare stigma - il sistema di giustizia criminale tradisce la sua mission. E seriamente dubito che ciò sia possibile.

Come uscire allora da questo paradosso? È possibile, in altri termini, non arrendersi ai paradossi della giustizia penale negoziata, quale unico porto a cui approdare per sfuggire all’insopportabile sproporzione tra domande e risorse del sistema di giustizia penale?

Penso che la questione non possa trovare soluzione facendo affidamento sulla sola volontà del sistema politico che unilateralmente conviene di contenere entro termini compatibili il ricorso alla risorsa della penalità. Il "diritto penale minimo" non si produce nella realtà per volontà del Principe (è questa una promessa della modernità mai mantenuta) e neppure per convenzione democratica.

La questione è certo più complessa. I confini della penalità possono essere diversamente tracciati in una logica riduzionistica solo ed in quanto si riescano a tutelare diversamente le necessità di difesa sociale che oggi si esprimono attraverso la domanda di penalità. In altre parole solo se le necessità di censura e di difesa sociale possono essere diversamente soddisfatte. Ove diversamente non indica uno spazio del "dover essere" normativo, ma propriamente quello dell’azione sociale.

Se questa indicazione per una costruzione sociale della sicurezza e della difesa sociale al di fuori dei confini della penalità dovesse rivelarsi politicamente non praticabile, temo che non sarà possibile sfuggire alle tentazioni tecnocratiche di una penalità contrattata e negoziata, ma nel contempo dubito che per questa scorciatoia si possa avventurarci oltre un certo limite, superato il quale la domanda sociale di penalità finirebbe per trovare una soddisfazione assai pericolosa al di fuori dei confini del sistema di giustizia penale.

Anoressia e bulimia

 

L’ultimo J. Young dedica alcune pagine interessanti nella descrizione delle differenze tra società della inclusione e società dell’esclusione, facendo esplicito riferimento ad una felice intuizione di Levi-Strauss. Da un punto di vista esterno - ci ricorda il grande antropologo francese - le società sembrano atteggiarsi in due modi opposti di fronte a chi è avvertito come pericoloso: o sviluppando un atteggiamento cannibalesco, cercano di fagocitare chi è avvertito in termini di ostilità, nella speranza così di neutralizzarne la pericolosità attraverso l’inclusione nel corpo sociale; o esasperando le pratiche di vero e proprio rifiuto "atropemico", vomitando al di fuori di sé tutto ciò che è socialmente avvertito come estraneo.

Ma, come precisa J. Young, ogni società è ugualmente afflitta sia da anoressia che da bulimia, cioè ogni organizzazione sociale esclude ed include nel medesimo tempo, determinando contingentemente una soglia di tolleranza, oltre alla quale non c’è più inclusione ma solo esclusione. Ciò che importa è riuscire ad intendere ove questa soglia si situa o arretra e perché essa non riesca ulteriormente ad estendersi. I confini mobili della esclusione/inclusione sono governati da una pluralità di cause e nessun modello esplicativo per quanto complesso è in grado, per ora, di dare conto di tutte e della loro interazione. Qualche cosa però di descrittivo dei modi e delle forme in cui si costruisce the exclusive society, è possibile invece già da ora conoscere. Ad esempio, in tema di penalità.

Da una penologia "dall’alto" ad una "dal basso"

 

Un dato a cui si presta poca attenzione: il carcere - nella sua bisecolare storia - è stata prevalentemente egemonizzato da retoriche elitarie, nel senso che la legittimazione di questa modalità di punire - per ragioni di prevenzione, sia generale che speciale - è risultata essenzialmente appannaggio di movimenti culturali e politici minoritari, spesso composti da soli professionali, animati sovente da intenti progressisti, che hanno espresso sulla pena e sul carcere un punto di vista di parte. Per quanto di parte e minoritario all’origine, questo punto di vista si è storicamente imposto nelle politiche penali e penitenziarie: in alcune realtà - penso agli Stati Uniti d’America - ciò si è determinato anche attraverso processi di ampia condivisione democratica; in altre - penso all’Italia - lo stesso si è realizzato sovente per astuzia giacobina.

In Italia, non mi risulta che nel passato il carcere sia mai stato condiviso da culture diffuse e popolari. Insomma: il carcere non ha mai avuto sociologicamente una legittimazione democratica. E neppure, forse, la pena e il sistema penale nel suo complesso. E difficile pensare che l’idea del carcere come extrema ratio, ovvero del carcere che rieduca abbia mai potuto incontrare un consenso sociale diverso da quello guadagnato all’epoca del Beccaria dalla proposta di abolire la pena di morte.

Ma ciò vale per il passato. Nel presente, le cose sembrano stiano cambiando. La topica carceraria vive oggigiorno la singolare avventura di essere diversamente intesa e spiegata. Quantomeno due distinte retoriche leggono la sua presenza. La prima - oggi in crisi - è quella appunto elitaria, di carattere prevalentemente progressista; la seconda - oggi in forte crescita - è invece più vicina al modo di intendere della maggioranza, apparentemente più democratica, certamente più populista.

La prima lettura - si è detto - è oggi fortemente in crisi, anche perché non riesce ad uscire da un stato di depressione profonda. Essa si esprime prevalentemente sulle riviste scientifiche, nel linguaggio della giurisprudenza, nella voce di chi ha responsabilità istituzionali. Questa narrativa penologica oggi sopravvive raccontando la propria nevrosi: il lamento di fronte ad una pena che nei fatti non è come avrebbe dovuto essere. Da qui il palese imbarazzo di fronte a qualche cosa che sempre più appare come scandaloso. Non solo - e forse non tanto - perché il carcere "non funziona", quanto piuttosto perché la pena carceraria si è storicamente imposta nell’illusione delle sue incontestabili quanto evidenti virtù. E nella fede in queste, si è edificato l’intero sistema della giustizia criminale e la sua legittimazione. È difficile immaginare di potere fare a meno del carcere al di fuori di un’idea diversa di giustizia penale. L’invenzione penitenziaria, infatti, si celebra nella sua presunta capacità di dare piena soddisfazione alle necessità di un sistema moderno di giustizia penale, cioè ad una giustizia uguale, mite ed utile. Constatare che a fronte di questi fini ideali della pena, le funzioni materiali del carcere sono invece quelle determinate dalla produzione e riproduzione della diseguaglianza sociale, attraverso l’irrogazione di una violenza segnata da elementi irriducibili di crudeltà e con effetti di elevata nocività sociale, induce al pessimismo penologico, ulteriormente esasperato dalla constatazione di non possedere alcuna strategia valida per un effettivo contenimento o abolizione di questa modalità di infliggere la pena, sempre che si convenga sulle necessità e/o opportunità, presenti e future, di un sistema legale di penalità.

Il secondo discorso penologico - oggi in forte crescita - non mostra alcun imbarazzo di fronte al carcere. Esso è certo della utilità della pena detentiva, anche se invoca modalità nuove di applicazione della stessa. Questa "nuova" idea di penalità appare sovente rozza nelle sue estreme semplificazioni e comunque non ama celebrarsi in dissertazioni accademiche. Essa si esprime nei discorsi della gente. E parla direttamente alla gente nelle parole dei politici e prevalentemente attraverso i mezzi di comunicazione di massa; ma si diffonde e finisce per articolarsi in topiche che trovano - o cercano di trovare - anche una loro legittimazione scientifica. E ovviamente non manca chi si cimenti scientificamente nell’impresa. Si sta diffondendo oggi una cultura populista della pena, che pone, forse per la prima volta, la questione di una penalità socialmente condivisa "dal basso".

Credo che per un complesso di ragioni comprensibili, ma difficilmente giustificabili, in Italia la cultura scientifica presti poca attenzione a questa nuova cultura della penalità legittimata "dal basso", di cui è imprudente dire che sia sempre "di destra" (la politica penale del governo democratico negli USA, di quello laburista in Inghilterra e alcuni intenti emersi nei "pacchetti giustizia" dei due ultimi governi di centro-sinistra in Italia, lasciano sospettare che il "nuovo realismo di sinistra" ben poco abbia da invidiare a quello dei governi conservatori).

Nelle poche pagine che seguono vorrei prendere in seria considerazione alcune affermazioni della cultura post-moderna della pena e del carcere al fine di rendere criticamente evidente quanto segue: per quanto questa penologia "dal basso" dichiari di volere sfuggire da ogni compromissione con orizzonti giustificativi di natura ideologica per privilegiare approcci tecnocratici, finisce per approdare definitivamente a concezioni pre-moderne della penalità.

"Prison works" a patto che...

 

Il carcere può " funzionare" contro la criminalità. A certe condizioni la pena del carcere può essere utile nel produrre meno criminalità e meno recidiva. Certo non perché attraverso l’esecuzione della pena detentiva si possano risocializzare i criminali; ovvero perché la pena del carcere riesca ad intimidire i potenziali devianti. Il carcere può essere utile nel governo della criminalità e della recidività se ed in quanto sia messo in grado di operare con finalità di "neutralizzazione selettiva".

Il fine della "neutralizzazione selettiva" origina all’interno di una cultura tecnocratica ed amministrativa della penalità: essa interpreta la giustizia penale come sistema che persegue obiettivi di efficienza, quali, ad esempio, differenziare la risposta per livelli di pericolosità e implementare strategie di controllo sui gruppi sociali. La retorica che emerge è quella del calcolo probabilistico e di distribuzione statistica applicati nei confronti delle popolazioni che creano problemi sociali.

Non molto diversamente dalle tecniche assicurative, il linguaggio della utilità sociale e del governo dei rischi sociali prende progressivamente il posto di quello della responsabilità individuale e della prevenzione speciale nelle politiche penali. Il linguaggio della penologia tecnocratica è pertanto caratterizzato da un’enfasi sulla razionalità sistemica e formale. Il governo amministrativo del controllo penale tende a costruirsi intorno ad obiettivi sistemici che radicalmente divergono dall’uso simbolico della penalità. La gestione amministrativa della penalità risponde solo ad una sua logica interna, svincolata da finalità extra-sistemiche.

Un’amministrazione delle pene che ribalta pertanto i paradigmi stessi dell’uso ideologico della sofferenza legale. Mentre la risorsa simbolica del sistema della giustizia penale utilizza un vocabolario in cui i termini più utilizzati sono imputazione, responsabilità personale, meritevolezza del castigo, esemplarità della pena, etc., insomma, le molte espressioni che definiscono la riduzione individuale della dimensione sociale dei problemi, la gestione amministrativa delle pene parla un’altra lingua: non più quella di punire gli individui, ma di gestire gruppi sociali in ragione del rischio criminale; non più quella correzionalistica, ma quella burocratica di come ottimizzare le risorse scarse, in cui l’efficacia dell’azione punitiva non è più in ragione dei telos esterni al sistema (educare e intimidire), ma in ragione di esigenze intra-sistemiche (neutralizzare e ridurre i rischi).

Tutto l’arsenale correzionalistico subisce un radicale ribaltamento di funzione e di senso: il trattamento e la terapia, come l’aiuto, perdono ogni riferibilità nei confronti del fine special-preventivo. Il trattamento, la terapia e l’aiuto diventano risorse utili per garantire il governo della questione criminale ai livelli di compatibilità del sistema della giustizia penale. Risorse utili, per differenziare le popolazioni devianti in ragione del rischio criminale, per incapacitare selettivamente i più pericolosi, per articolare lo spettro custodiale, per economizzare risorse.

L’uso improprio della cultura e della prassi trattamentale da parte della nuova penologia è incontenibile quanto irresistibile. Solo alcuni esempi tra i più eclatanti. Per il lungo periodo di egemonia della cultura e prassi correzionalistiche, la ricaduta nel delitto era cartina di tornasole dell’insuccesso dell’investimento educativo in carcere. La recidiva segnava il fallimento. Nella stagione delle misure alternativa, la revoca delle stesse definiva la speranza della reintegrazione sociale come illusoria. Oggi, al di fuori di ogni filosofia special-preventiva, i parametri che segnavano l’insuccesso vengono invece interpretati come utili indicatori dell’efficienza del sistema penale nel suo complesso. Gli indici di recidività mostrano sia che il sistema penale ha fin dall’inizio selezionato efficacemente la propria clientela, sia che, sulla base della esposizione alla ricaduta nel delitto interpretata per gruppi sociali, è possibile definire predittivamente le categorie a rischio e di conseguenza diversificare la risposta punitiva.

Lo stesso dicasi per le revoche delle misure alternative: la distribuzione differenziata delle stesse per diversi gruppi sociali diventa un criterio decisivo di correzione delle politiche penitenziarie e giudiziarie, nel senso che suggerisce alle amministrazioni e alle giurisdizioni nuovi criteri statistici su cui vincolare la discrezionalità. Una discrezionalità, quindi, che non si illude più di fondarsi sulla osservazione scientifica della personalità, ma che ancora sempre più la propria decisione ad un calcolo statistico dei rischi per popolazioni criminali e gruppi sociali devianti, piuttosto che affidarsi al rischio di "scommettere sull’uomo" attraverso una valutazione personologica della pericolosità.

Lo stesso processo di differenziazione trattamentale nel carcere non risponde più al bisogno di individualizzazione dell’esecuzione per finalità special-preventive, ma si piega sempre più alle necessità di usare anche il carcere come variabile dipendente in ragione di una diversa distribuzione del rischio. Così lo strumento del carcere di massima sicurezza non si orienta ad una logica di incapacitazione individuale, per cui esso è l’estrema risposta per i colpevoli di reati particolarmente gravi o per i detenuti "soggettivamente" pericolosi, ma diventa il contenitore per tutti coloro che risultano ad una logica di incapacitazione selettiva come appartenenti a gruppi sociali ad elevato rischio criminale.

Questo approccio sistemico al governo dei criminali riflette un nuovo discorso sul crimine stesso e sul ruolo del sistema penale. I devianti non sono più, o sono sempre meno, il referente organizzativo del sapere criminologico, perché la criminologia sta progressivamente diventando un marginale capitolo di una generale analisi di public policy. La questione in gioco non è più quella pretenziosa quanto ingenua di sconfiggere il crimine, ma semplicemente di razionalizzare l’operatività dei sistemi che consentono di "gestire" la criminalità sulla base di valutazioni di tipo attuariale.

Numerose le questioni nodali che la penologia "amministrativa" pone: con quale grado di validità empiricamente verificabile è possibile incapacitare selettivamente?; esistono limiti - economici e funzionali - che strutturalmente definiscono la penalità come risorsa limitata?; è possibile misurare gli effetti positivi di governo della criminalità attribuibili alle strategie di incapacitazione selettiva? Interrogativi semplici ma che comportano risposte complesse.

Dalle "carriere criminali" ai "criminali in carriera"

 

I reati predatori, cioè quelli opportunistici contro la proprietà - furti, scippi, borseggi, piccole rapine, etc. - sono oramai di massa. Ma masse non sono sempre coloro che li commettono. Si è calcolato che tra il 15 e il 22% di coloro che sono stati condannati per alcuni di questi delitti risultava responsabile di più del 50% di tutti i reati predatori consumati nel medesimo territorio nell’ultimo anno, includendo anche quelli coperti dalla "cifra oscura". Mediamente - attenendosi alle dichiarazioni offerte da questa minoranza di "criminali in carriera" - essi in libertà infrangevano la legge penale più di duecento volte all’anno.

Da qui l’ovvia tentazione: se si potesse individuare con precisione questa minoranza di criminali all’inizio della loro criminal career prima che si trasformino in career criminals, basterebbe mettere questi "pochi" nell’impossibilità di delinquere per ottenere "grandi" risultati nella riduzione della criminalità. La questione è quindi quella, ben conosciuta dalla scienza penalistica e criminologica, del giudizio di pericolosità sociale o criminale, cioè, in ultima istanza dei criteri di predittività dell’azione deviante. Una vota che questi siano individuati e che rispetto ai medesimi si confidi nella capacità tecnica di selezionare i futuri high-rate offenders, la risposta sanzionatoria non sarà in ragione di valutazioni di colpevolezza, ma di pericolosità: i futuri "criminali in carriera" debbono essere impediti di diventare tali, attraverso l’irrogazione di no-fixed o life sentences, vale a dire, nella nostra cultura e tradizione giuridica, attraverso misure di sicurezza detentive per imputabili. E senza ovviamente che si debba mettere in campo il rito di valutazioni criminologiche personologiche, costose quanto inutili. Siamo molto prossimi a criteri di presunzione legale di pericolosità costruiti su valutazioni statistiche di rischio per appartenenza a gruppi.

Nelle "linee guida" che si dettano per disciplinare il potere discrezionale nel sentencing, totalizzare quattro o più handicap tra i sette indicati, ad esempio da Greenwood e Abrahamse:

  1. aver già sofferto di una detenzione per il medesimo reato;

  2. aver passato più di un anno in carcere negli ultimi due;

  3. essere stato in carcere quando si era minori d’età;

  4. essere stato preso in carico dai servizi sociali della giustizia minorile;

  5. fare uso di eroina già dalla minore età;

  6. fare uso di eroina negli ultimi due anni;

  7. non aver lavorato almeno un anno negli ultimi due - significa essere considerato ad elevato rischio, a prescindere del reato per cui si sponde, e quindi selettivamente incapacitato.

Nella realtà americana, le ricerche ci insegnano che i condannati che sarebbero secondo questi criteri di predittività selettivamente definiti ad elevato rischio di recidività sono compresi tra un quarto e un terzo della popolazione condannata penalmente. Da qui la speranza di ridurre la popolazione detenuta e nel contempo di elevare i livelli di sicurezza, segregando in carceri di massima sicurezza e a vita non più di un 30% dell’attuale popolazione detenuta, riservando ai restanti condannati penalità soft e poco costose, come ad esempio quelle offerte dalle nuove tecnologie di controllo elettronico.

I modelli di predittività della recidività offerti dalla criminologia attuariale in questo ultimo decennio sono molteplici e sovente anche assai complessi. O almeno troppo complessi sono risultati quando si è cercato di metterli in pratica. Allora, per semplificare il tutto, nella legislazione e nelle prassi americane ha progressivamente preso il sopravvento la vecchia e rodata regola del baseball: "Three striks and you’re aut", vale a dire carcere a vita ovvero a pene detentive non inferiori a trenta anni per la recidiva reiterata aggravata, anche per reati non particolarmente gravi, come spaccio di droghe leggere e scippo.

L’eccesso - per noi scandaloso - degli USA è solo apparente. Considerazioni fondate su valutazioni presuntive di pericolosità non dissimili funzionano già in Inghilterra e in altre democrazie occidentali per quanto concerne la concessione di percorsi di alternatività alla pena detentiva. La "revisione" alla legge Gozzini in Italia più volte annunciata in questi ultimi tempi in favore di un’ipotesi di differenziazione trattamentale tra "bassa", "media" ed "elevata sicurezza" in ragione del rischio di recidività non potrà che ispirarsi alla medesima filosofia, una volta che si decida di vincolare la risposta punitiva - vuoi nella commisurazione della pena, vuoi nella flessibilità della stessa in fase esecutiva - al parametro esterno della sicurezza e/o al sentimento di sicurezza della collettività.

E allora penso che sia importante dare conto che - a volere tacere di ogni altra valutazioni etica e/o politica - il sistema della incapacitazione selettiva "purtroppo" non funziona: la popolazione detenuta aumenta e i reati non diminuiscono.

"Pre-visione" della pericolosità o "post-visione" dei rischi?

 

Il calcolo del rischio criminale sembra relativamente funzionare "in astratto" per il passato, ma mai "in concreto" per il futuro. Posso scientificamente dimostrare che se nel passato si fosse neutralizzato quel 30% di condannati che risultavano "pericolosi " secondo determinati criteri, oggi si potrebbe godere di una significativa riduzione della criminalità, ma appena si mettono in opera le medesime valutazioni di predittività per il futuro, i conti non tornano più. Molto e di interessante è stato a questo proposto dimostrato dalla scienza criminologica in questi anni. Numerose, ad esempio, le critiche al fallimento delle politiche di incapacitazione selettiva.

Prestando attenzione alla statistica della penalità del passato, si deve prendere atto che se la strategia di neutralizzazione fosse stata applicata secondo i diversi criteri di predittività oggi avanzati dalla New Penology su valutazioni di rischio per appartenenza a categorie, il tasso di insuccesso sarebbe stato comunque elevatissimo, superiore al 50% nei due sensi: la metà di chi sarebbe stato definito pericolo non risulta abbia recidivato una volta scontata la pena e la metà di chi sarebbe stato definito non pericoloso ha continuato a delinquere. Anche se non esperti di statistica, chiunque si avvede che un errore di tali proporzioni nella selezione predittiva equivale a convenire che statisticamente si sarebbe potuti pervenire al medesimo risultato estraendo a sorte, un condannato su tre. "Bene o male - come convengono recentemente Hess H. E Scheerer S. - dobbiamo rinunciare alla vecchia ossessione che un giorno l’illecito potrà essere prevenuto semplicemente aggirandosi per i kindergarden a caccia di futuri criminali". Da qui l’insorgere della tentazione nell’eccesso predittivo: se si vuole elevare le probabilità di neutralizzare i soggetti che effettivamente continueranno a delinquere, bisogna pagare il prezzo che comporta incapacitare anche coloro a posteriori pericolosi non risulterebbero (i c.d. "falsi positivi").

Ma ove anche si convenisse di eccedere fino al limite ipotetico di incapacitare tutti coloro che comunque impattano con il sistema della giustizia penale, a ben vedere neppure in questo caso il risultato di contenere o ridurre la criminalità sarebbe a priori garantito. Infatti la criminalità opportunistica e predatoria trova una convincente spiegazione eziologica sul modello "situazionale" o "delle opportunità". Come dire che la quantità di illegalità è determinata prevalentemente dall’offerta di occasioni per delinquere che una determinata organizzazione sociale offre. E quell’offerta sarà sempre soddisfatta da un’adeguata domanda. Man mano che si provvede a neutralizzare preventivamente alcuni accessi sul versante di chi trova conveniente sfruttare le opportunità presenti entrando nel mercato illegale, "per sostituzione" altri troveranno conveniente entrarvi.

Ma di più: a fronte di un modello esplicativo della criminalità di massa tendenzialmente orientato a dare un peso decisivo alle opportunità, i criteri di predittività della pericolosità criminale si costruiscono sull’illusione di una predisposizione a delinquere per ragioni di deficit sociale, razziale, culturale ed economico. Paradossalmente essi raggiungono livelli soddisfacenti di predittività "in astratto" in prossimità di una definizione della pericolosità che coincide con quella di problematicità sociale. Come dire che tutti coloro che appartengono a gruppi sociali svantaggiati sono - appunto potenzialmente - pericolosi. Ergo: per ottenere effetti apprezzabili si dovrebbe neutralizzare tutta la marginalità sociale.

Impresa - si obietterà - impossibile. Ma su questa strada ci si è spinti molto avanti. Ancora gli USA ci danno un esempio eloquente con due milioni di detenuti presenti giornalmente nelle istituzioni carcerarie e almeno altri quattro di penalmente controllati di cui circa il 70% composto da giovani maschi neri o di provenienza ispano-americana. Il conto è presto fatto: tra i maschi appartenenti alla c.d. underdog class uno su due conosce almeno un’esperienza detentiva nella propria vita, ovvero ci sono più blacks nelle carceri americane oggi che iscritti alle scuole medie superiori. Di conseguenza ci si sarebbe dovuti attendere che questi elevati tassi di carcerizzazione - la popolazione detenuta è aumentata di cinque volte negli ultimi venti anni - siano stati premiati da un contenimento o da una riduzione della criminalità. Lo cose stanno invece diversamente.

In effetti gli elevatissimi tassi di carcerizzazione qualche effetto sull’andamento della criminalità sembra abbiano determinato, ma non nel senso auspicato. La criminalità di massa negli USA, ad esempio, non è significativamente aumentata nel tempo, mostrando anche, negli ultimi anni, una lieve flessione. Per altro ciò non deve stupire, stante che gli USA non hanno neppure nel passato conosciuto indici di criminalità predatoria più elevati di quelli che si potevano registrare mediamente in alcuni paesi dell’Europa occidentale, e soprattutto perché anche in Europa negli ultimi anni è stato possibile registrare una lieve flessione dei reati contro la proprietà. Ciò che rendeva e rende invece gli USA assolutamente incomparabili con il resto del mondo occidentale sono sempre stati i tassi elevatissimi di omicidi da arma da fuoco in conseguenza o in occasione di azioni criminose contro la proprietà. E questi gravi delitti purtroppo sono nel tempo sempre cresciuti. Certo questa peculiarità americana deve essere messa in relazione a fattori culturali assai radicati, quale appunto una elevata violenza nei rapporti intersoggettivi unitamente alla diffusione delle armi da fuoco. È comunque possibile sospettare nelle politiche di incapacitazione selettiva una possibile concausa, ovvero un elemento di amplificazione del fenomeno dell’aumento delle vittime di omicidio. In effetti, attraverso le politiche di neutralizzazione si è finito per annullare se non a volte per invertire la differenziazione sanzionatoria originariamente proporzionata alla gravità del reato commesso. Se per molti omnibus fellons (coloro che sono disposti a commettere qualsiasi reato che l’ambiente in cui vivono offre come opportunità) anche uno scippo può comportare il rischio di una life sentence, perché mai dovrebbero trattenersi dall’uccidere la vittima che resiste alla rapina?

"Economie dell’eccesso" e castighi smodati

 

La filosofia della penalità moderna si è fondata su una "economia della parsimonia". Un esercizio del castigo vincolato a criteri tanto di autolimitazione sistemica (quelli garantistici della "pena minima") che di limitazione extra-sistemica (quelli finalistici della "pena utile"). Come dire che anche la sofferenza legale moderna deve sottostare alla logica del risparmio e dell’investimento. E in ciò forse si coglie l’elemento più radicale di contrapposizione con la pena pre-moderna, quella - come ci insegna Foucault - segnata appunto dalle virtù diseconomiche della magnificenza, dell’ostentazione e della dissipazione. Possiamo interrogarci se la penalità nella post-modernità - nonostante l’enfasi posta sui valori della razionalità burocratica, della efficienza e del calcolo - finisca per dovere fare affidamento ad una "economia dell’eccesso" dei castighi, insomma ad una penalità squisitamente espressiva.

L’ipotesi è suggestiva e su essa merita riflettere. In effetti - e con ciò ritorno a quanto accennato all’inizio del presente scritto - quanto oggi sembra potersi cogliere come elemento nuovo è la perdita progressiva di peso delle élite intellettuali a favore di quelle politiche sulla cultura della penalità. E nei sistemi democratici, forse per la prima volta la penalità diventa oggetto significativo (in alcuni casi persino il principale) dello scambio politico tra elettori ed eletti, tra opinione pubblica e sistema della politica. E in ciò forse è possibile cogliere un profilo di democratizzazione della politica criminale, sia pure nel senso nuovo offerto dalla "democrazia d’opinione".

Garapon e Salas, ad esempio, suggeriscono un approccio convincente al fenomeno dell’inflazione della penalità - sia in astratto che in concreto - come segno della crisi della democrazia rappresentativa e dell’emergere prepotente di una democrazia d’opinione. Nella democrazia d’opinione ad essere esaltata è la percezione emozionale del soggetto ridotto alle sue emozioni più elementari: paura e rancore. E il nuovo discorso politico tende sempre più ad articolarsi su queste emozioni, di cui singolarmente il sistema di giustizia penale è in grado di dare coerente espressione, nella funzione di produzione simbolica di senso attraverso il processo d’imputazione di responsabilità.

Non è tanto la crisi della politica tout-court che determina l’effetto dell’espandersi del penale come risposta alla domanda sociale di penalità; al contrario: si tratta di una riqualificazione della politica, della volontà di instaurare "contro-poteri" là dove prima non ve ne erano, di ritrovare la sovranità là dove essa era stata concessa, ovvero espropriata, ai/dai sistemi burocratici di rappresentanza. Come dire che la costruzione sociale che produce l’espansione della domanda di risorsa penale è solo il sintomo più vistoso di una trasformazione e crescita della democrazia oltre la funzione della rappresentanza fornita dallo stato di diritto. Ma ciò su cui non si è sufficientemente riflettuto sono le precondizioni materiali che hanno reso possibile questo processo di emergenza di una domanda di penalità "così come la vuole l’opinione pubblica", a cui in qualche modo il sistema della politica è oggi costretto a dare una qualche risposta.

Concordo pienamente su un decisivo aspetto con Garland. I cittadini delle democrazie occidentali debbono confrontarsi con una esperienza nuova - soprattutto se consideriamo i livelli di sicurezza dalla criminalità nella seconda parte del XX secolo - che si può ritenere strutturale ai nuovi processi di globalizzazione: il rischio da criminalità si sta diffondendo (nel senso di "spalmando") ed espone oramai la maggioranza dei cittadini e reiteratamente all’esperienza vittimologica. La nostre società sono e sempre più saranno high crime societes, ove il rischio criminale per attentati alla proprietà non sarà più ristretto a pochi - in buona sostanza, come nel passato, ai membri della uperclass - ma esteso alla maggioranza dei consociati.

Le politiche di "legge ed ordine" e "zero tollerance" si iscrivono pertanto all’interno di un orizzonte miope di riproposizione di vecchie ricette a nuovi problemi. In assenza di una cultura adeguata per una società ad elevato rischio criminale si finisce per rispondere ai diffusi rischi criminali con lo strumento della penalità diffusa. Ma la scorciatoia repressiva presto si mostra illusoria: per quanto si possano elevare i tassi di carcerizzazione e penalità essi si mostreranno sempre inadeguati e per difetto a quelli della criminalità di massa, come abbiamo potuto intendere nell’analisi critica delle strategie della incapacitazione selettiva. Da qui il rischio che la penalità sfugga progressivamente ad ogni finalismo utilitarista e ad ogni criterio razionale, per celebrarsi unicamente in una dimensione espressiva. E diventare pertanto smodata. Un eccesso di penalità, in un primo momento, a fronte di un eccesso di criminalità; una penalità simbolica (come la pena di morte, ovvero pene detentive draconiane in carceri di massima sicurezza) - in una seconda fase - di fronte all’amara constatazione che più penalità non produce più sicurezza dalla criminalità.

La pena e le emozioni collettive

 

È interessate notare come la deriva obbligata verso una penalità smodata finisca per liberare la stessa giustificazione della pena da ogni solido ancoraggio a rigorose valutazioni tecnocratiche; essa finisce per essere di nuovo attratta verso un oceano di giustificazioni ideologiche.

Si pensi, ad esempio, alla ripresa delle teorie neo-retribuzionistiche; esse, in termini per la verità alquanto semplicistici, si richiamano al vecchio arsenale giustificativo della meritevolezza della pena, che, con riferimento esplicito al comune sentire della gente, afferma l’esistenza di un referente sicuro - per quanto storicamente e culturalmente determinato - sul fondamento del quale è possibile determinare la pena in concreto come quella socialmente meritata. Ma il riferimento ad un concetto di meritevolezza non viene più operato nella prospettiva di porre dei limiti al potere discrezionale nella commisurazione della pena, quanto di agganciare questa al public panic.

Tentativi apparentemente più seducenti, ma sostanzialmente identici nelle conseguenze, sono quelli oggi particolarmente apprezzati dalla dottrina penalistica di formazione tedesca che teorizzano - in ossequio alle teorie luhmaniane - una funzione di "pedagogia sociale" alla pena. Questi approcci utilizzano nello specifico della giustificazione della pena la concezione del diritto come strumento di stabilizzazione del sistema sociale, di orientamento dell’azione e di istituzionalizzazione delle aspettative. Al centro dell’attenzione è in particolare il concetto della fiducia istituzionale, intesa come forma di integrazione sociale che, nei sistemi complessi, sostituisce le forme spontanee di affidamento reciproco degli individui nelle comunità elementari. La reazione punitiva alla violazione della norma avrà, in questa teoria, la sola funzione di ristabilire la fiducia e di prevenire gli effetti negativi che la violazione di norme produce per la integrazione sociale. Ne consegue che si punisce non per retribuire un male con un altro equivalente male, e neppure per dissuadere i potenziali violatori della legge penale a non delinquere; si punisce perché attraverso la pena si esercita la funzione primaria che è quella di consolidare la fedeltà vuoi nei confronti del diritto, vuoi nei confronti dell’organizzazione sociale da parte della maggioranza.

La giustificazione del diritto di punire ritorna così alla sua primitiva origine, a quella fase che precedette la rottura imposta dalla modernità, cioè ad una penalità liberata nei suoi contenuti e nelle sue forme da ogni vincolo razionale. Una sorta di regresso, quindi, ad una "penologia fondamentalista".

 

 

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