Sentenza illegittimità artt. 35 e 69 O.P.

 

Sentenza n° 26 - anno 1999

Repubblica Italiana

In nome del popolo italiano la Corte Costituzionale

 

composta dai signori:

 

- Prof. Giuliano Vassalli Presidente

- Prof. Francesco Guizzi Giudice

- Prof. Cesare Mirabelli

- Prof. Fernando Santosuosso

- Avv. Massimo Vari

- Dott. Cesare Ruperto

- Dott. Riccardo Chieppa

- Prof. Gustavo Zagrebelsky

- Prof. Valerio Onida

- Prof. Carlo Mezzanotte

- Avv. Fernanda Contri

- Prof. Guido Neppi Modona

- Prof. Piero Alberto Capotosti

- Prof. Annibale Marini

 

ha pronunciato la seguente

 

Sentenza

 

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come sostituito dall’art. 21 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, promosso con ordinanza emessa il 2 gennaio 1998 dal Magistrato di sorveglianza di Padova sui reclami riuniti proposti da Moschini Marco ed altro, iscritta al n. 95 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell’anno 1998.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 17 giugno 1998 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky.

 

Ritenuto in fatto

 

1. — Chiamato a decidere sui reclami proposti da due detenuti, a norma dell’art. 35 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in relazione a una determinazione della direzione dell’istituto penitenziario che non consentiva loro di ricevere, in istituto, riviste spedite in abbonamento ovvero da parte di familiari, in ragione del loro contenuto asseritamente osceno, e raccolta la documentazione pertinente al caso, il magistrato di sorveglianza di Padova ha sollevato, con ordinanza del 2 gennaio 1998, questione di legittimità costituzionale dell’art. 69, comma 6, della legge n. 354 del 1975, nel testo sostituito dall’art. 21 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

 

2. — Il rimettente riferisce che la determinazione della direzione del carcere di "trattenere" le pubblicazioni si basa sull’assunto che le medesime, per il loro contenuto, non possono considerarsi come periodici in libera vendita perché a) sono vietate ai minori, b) la loro esposizione è vietata dalla legge e c) la legge esonera da responsabilità per la loro divulgazione solo edicolanti e librai. Su tali ragioni della misura è altresì concorde l’amministrazione penitenziaria centrale.

 

3. — Il magistrato di sorveglianza osserva che egli deve provvedere sui reclami dei detenuti, facendo applicazione dell’art. 18, sesto comma, della legge n. 354 del 1975, che stabilisce che "i detenuti ... sono autorizzati a tenere presso di sé i quotidiani, i periodici e i libri in libera vendita all’esterno e ad avvalersi di altri mezzi di informazione".

Si tratta quindi di decidere in una fattispecie nella quale vengono in rilievo diritti che formano oggetto di protezione costituzionale in via immediata, come il diritto all’informazione garantito dall’art. 21 della Costituzione, in rapporto alla tematica dei limiti del "buon costume".

Ciò posto, il magistrato di sorveglianza solleva la questione di costituzionalità, sulla premessa che le decisioni che egli è chiamato a prendere a seguito di reclamo sono "giurisdizionalizzate" solo in determinate e limitate ipotesi, vale a dire in quelle nelle quali il reclamo attiene alla materia lavorativa o alla materia disciplinare. Negli anzidetti casi, è prevista un’apposita udienza di trattazione, con la presenza del pubblico ministero e del difensore dell’interessato, e con la possibilità, per quest’ultimo e per l’amministrazione penitenziaria, di presentare memorie, secondo il modulo procedimentale contenuto nell’art. 14-ter della legge n. 354 del 1975, cui l’art. 69 della stessa legge fa rinvio; inoltre, al termine di tale iter, che delinea un vero e proprio "giudizio", è espressamente prevista l’impugnabilità della decisione presa dal magistrato di sorveglianza, con ricorso per cassazione.

Il rimettente lamenta che analogo procedimento non sia prescritto, in generale, in ogni ipotesi in cui il reclamo del detenuto abbia a oggetto la lesione di un diritto costituzionalmente garantito, come avviene appunto nella specie. In siffatte ipotesi il magistrato si trova a dover valutare e decidere sull’operato dell’amministrazione, che si assume incidente immediatamente su un diritto costituzionalmente protetto, secondo un procedimento de plano, privo di garanzie, senza l’intervento della parte pubblica e che si conclude, anche secondo la giurisprudenza, con un provvedimento non impugnabile in alcuna sede e altresì privo della cogenza propria delle decisioni giurisdizionali, non essendo neppure necessaria la forma dell’ordinanza ma reputandosi generalmente sufficiente un atto di carattere semplicemente sollecitatorio e di segnalazione alle autorità amministrative.

Ad avviso del magistrato rimettente, la mancata previsione di un modulo giurisdizionale effettivo nelle ipotesi anzidette risulta irragionevole e discriminatoria, ove si consideri che il modulo del processo è invece previsto in relazione a materie che assumono minore rilievo sul piano delle libertà costituzionalmente garantite, come ad esempio nel settore disciplinare.

D’altra parte, la figura del magistrato di sorveglianza è stata istituita e regolata proprio in vista della tutela dei diritti del detenuto, come la stessa Corte costituzionale ha più volte affermato.

Non si tratterebbe - aggiunge - di ridisegnare strumenti di tutela invadendo scelte proprie del legislatore, ma solo di ricondurre a razionalità un sistema che garantisce in modo più forte interessi più deboli e che viceversa esclude dalla tutela sul piano processuale interessi e beni di diretto rilievo costituzionale.

Il rimettente si sofferma altresì sul possibile rilievo del difetto delle caratteristiche del "giudizio" nel procedimento nel cui ambito egli ha sollevato la questione: ma da un lato la censura che egli propone è proprio quella della inadeguata connotazione giurisdizionale della procedura di cui è investito, e pertanto la questione medesima è rilevante perché in caso di accoglimento le cadenze procedimentali da mettere in opera sarebbero quelle delineate nell’art. 14-ter già citato; dall’altro, la Corte costituzionale ha frequentemente dato ingresso a questioni di costituzionalità sollevate da magistrati di sorveglianza in procedimenti che, non "giurisdizionalizzati" appieno - al pari di quello in discorso -, sono stati tuttavia ritenuti idonei a essere configurati come "giudizio" ai fini che si discutono (ad esempio, nelle questioni sollevate da magistrati di sorveglianza in tema di concessione di permessi-premio), in armonia con la tendenza crescente della giurisprudenza, costituzionale e ordinaria, a qualificare l’attività del magistrato di sorveglianza come funzione di garanzia dei diritti del detenuto, e dunque come giurisdizione in senso pieno.

Se, in definitiva, il giudice naturale di tutti i diritti del detenuto coinvolti nel corso e a causa o in occasione del trattamento penitenziario è il magistrato di sorveglianza, e non altra istanza giurisdizionale, ordinaria o amministrativa, cui pure in astratto il detenuto potrebbe rivolgersi, la questione prospettata, benché incentrata su un profilo procedurale, assume una valenza di particolare rilievo, finendo essa per qualificare il significato stesso della funzione della magistratura di sorveglianza.

In caso di accoglimento, infatti, le decisioni da prendere su reclamo ex art. 35 della legge n. 354 del 1975 sarebbero sempre e comunque precedute da un vero e proprio "giudizio", conformato secondo gli schemi del contraddittorio e delle garanzie difensive, e sarebbero assunte in forma di ordinanza; da ciò - sottolinea il rimettente - l’ulteriore e rilevante conseguenza della generalizzata impugnabilità di dette decisioni con ricorso per cassazione. Quest’ultima notazione è particolarmente sottolineata dal giudice a quo, nel senso che attraverso l’accoglimento della questione il giudice della nomofilachia diverrebbe a sua volta garante di una uniforme applicazione del diritto e della formazione di orientamenti giurisprudenziali stabili e di spessore nella materia, ciò che oggi è precluso da una ingiustificata "privazione" del modello processuale.

 

4. — Il rimettente solleva dunque questione di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, "dell’art. 69, comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (c.d. ordinamento penitenziario) nella parte in cui non prevede che la procedura di cui all’art. 14-ter stessa legge si applichi (oltreché nelle ipotesi di cui alle lettere a] e b] dello stesso comma) anche nel caso di reclamo del detenuto avente ad oggetto la lesione immediata e diretta di diritti costituzionalmente garantiti".

 

5. — E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso nel senso dell’infondatezza della questione.

Le ipotesi di "giurisdizionalizzazione" della procedura di reclamo, contenute nell’art. 69, comma 6, della legge n. 354 del 1975, attengono al lavoro e alla materia disciplinare, cioè a profili strettamente legati al trattamento carcerario, e sono il portato di una scelta effettuata dal legislatore in un ambito tipicamente discrezionale, come tale sottratto al controllo di costituzionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza. Un limite, aggiunge l’Avvocatura, certamente non travalicato, sia per l’eterogeneità dell’ipotesi dell’atto dell’amministrazione avente immediata incidenza su diritti costituzionalmente garantiti rispetto ai casi posti a termine di raffronto, sia perché si tratta di ipotesi generica e scollegata dai profili del vero e proprio trattamento carcerario, suscettibile di trovare comunque la propria tutela nei comuni mezzi e secondo le ordinarie regole di competenza previsti dall’ordinamento.

 

Considerato in diritto

 

1.1. — Il magistrato di sorveglianza di Padova solleva questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 6, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come sostituito dall'art. 21 della legge 10 ottobre 1986, n. 663. Tale disposizione, riguardante le funzioni e i provvedimenti che il magistrato di sorveglianza è abilitato, rispettivamente, a svolgere e ad adottare nelle materie di ordinamento penitenziario, stabilisce che il magistrato medesimo "decide con ordinanza impugnabile soltanto per cassazione, secondo la procedura di cui all'art. 14-ter, sui reclami dei detenuti e degli internati concernenti l'osservanza delle norme riguardanti: a) l'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro e le assicurazioni sociali; b) le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell'organo di disciplina, la contestazione degli addebiti e la facoltà di discolpa". L'art. 14-ter, richiamato dalla norma denunciata, pone, a sua volta, le regole procedurali del reclamo, relativamente alla proposizione (comma 1), alla trattazione in udienza in camera di consiglio (comma 2), al contraddittorio - realizzato tramite la partecipazione personale del difensore e del pubblico ministero nonché la possibilità, riconosciuta all'interessato e all'amministrazione penitenziaria, di presentare memorie - (comma 3) e alla decisione del giudice in forma di ordinanza (comma 2) (con ulteriore rinvio [comma 4], per quanto non diversamente disposto, alle disposizioni del capo II-bis del titolo II della legge n. 354).

Il giudice rimettente è stato investito da reclami proposti da due detenuti, a norma dell'art. 35 della legge n. 354 del 1975, avverso determinazioni dell'amministrazione penitenziaria che hanno disposto il "trattenimento" di stampa periodica loro inviata dall'esterno del carcere, trattenimento disposto a causa dell'asserito contenuto osceno delle pubblicazioni. Essendo chiamato a decidere secondo la procedura stabilita in genere dall'art. 35 citato, una procedura priva dei caratteri propri della giurisdizione quali delineati invece nel denunciato art. 69, comma 6, di tale mancanza egli appunto si duole, in riferimento ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza della legge (art. 3 della Costituzione) sotto il profilo del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 della Costituzione). La procedura non giurisdizionale delineata dall'art. 35 dell'ordinamento penitenziario, nel caso di reclami che prospettano la lesione "immediata e diretta" di beni o di diritti costituzionalmente garantiti - ciò che, nella specie, si verificherebbe, relativamente al diritto garantito dall'art. 21 della Costituzione - risulterebbe irragionevole in rapporto con le garanzie di giurisdizionalità che la norma denunciata riconosce nelle decisioni sui reclami in materia di lavoro e di disciplina carceraria. Tale procedura, inoltre, derogherebbe senza ragione al principio di "giurisdizionalizzazione" dell'esecuzione penale, imperniata sulla figura del magistrato di sorveglianza.

 

1.2. — Da questa esposizione, risulta la necessità di una puntualizzazione dei termini della questione che tenga conto della sua configurazione additiva, comprendente quindi una parte dichiarativa della incostituzionalità dell'omissione legislativa e una parte ricostruttiva della disciplina necessaria a superarla.

La norma in applicazione della quale il giudice rimettente è chiamato nella specie a provvedere è quella contenuta nell'art. 35 della legge di ordinamento penitenziario che prevede una procedura ritenuta incostituzionale perché priva di caratteri di giurisdizionalità sufficienti. L'art. 69 della medesima legge, del quale l'ordinanza di rimessione finisce conclusivamente per denunciare l'incostituzionalità in quanto la sua portata applicativa sarebbe ingiustificatamente limitata ai due casi espressamente previsti, occupa, nella formulazione della questione, un posto diverso: valendo, oltre che come tertium comparationis per argomentare l'irrazionalità della carenza di garanzie giurisdizionali propria dell'art. 35, come elemento normativo idoneo a colmare, attraverso la sua estensione, l'anzidetta carenza.

In breve: l'art. 35 ha a che vedere con l'incostituzionalità da dichiarare; l'art. 69, con la disciplina da costruire, in luogo di quella che si pretende incostituzionale. Per la risoluzione della questione proposta, entrambe le disposizioni devono essere prese in considerazione, ciascuna per la parte che le spetta.

 

2. — Così configurata, la questione è fondata, nei termini di seguito precisati.

 

3.1. — L'idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all'organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti.

I diritti inviolabili dell'uomo, il riconoscimento e la garanzia dei quali l'art. 2 della Costituzione pone tra i principi fondamentali dell'ordine giuridico, trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti a una restrizione della libertà personale i limiti a essa inerenti, connessi alle finalità che sono proprie di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione. La restrizione della libertà personale secondo la Costituzione vigente non comporta dunque affatto una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell'autorità preposta alla sua esecuzione (sentenza n. 114 del 1979).

L'art. 27, terzo comma, della Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Tali statuizioni di principio, nel concreto operare dell'ordinamento, si traducono non soltanto in norme e direttive obbligatorie rivolte all'organizzazione e all'azione delle istituzioni penitenziarie ma anche in diritti di quanti si trovino in esse ristretti. Cosicché l'esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità - nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina - non possono mai consistere in "trattamenti penitenziari" che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà. La dignità della persona (art. 3, primo comma, della Costituzione) anche in questo caso - anzi: soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di libertà, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile - è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell'uomo che anche il detenuto porta con sé lungo tutto il corso dell'esecuzione penale, conformemente, del resto, all'impronta generale che l'art. 1, primo comma, della legge n. 354 del 1975 ha inteso dare all'intera disciplina dell'ordinamento penitenziario.

Al riconoscimento della titolarità di diritti non può non accompagnarsi il riconoscimento del potere di farli valere innanzi a un giudice in un procedimento di natura giurisdizionale. Il principio di assolutezza, inviolabilità e universalità della tutela giurisdizionale dei diritti esclude infatti che possano esservi posizioni giuridiche di diritto sostanziale senza che vi sia una giurisdizione innanzi alla quale esse possano essere fatte valere (sentenza n. 212 del 1997). L'azione in giudizio per la difesa dei propri diritti, d'altronde, è essa stessa il contenuto di un diritto, protetto dagli articoli 24 e 113 della Costituzione e da annoverarsi tra quelli inviolabili, riconducibili all'art. 2 della Costituzione (sentenza n. 98 del 1965) e caratterizzanti lo stato democratico di diritto (sentenza n. 18 del 1982): un diritto che non si lascia ridurre alla mera possibilità di proporre istanze o sollecitazioni, foss'anche ad autorità appartenenti all'ordine giudiziario, destinate a una trattazione fuori delle garanzie procedimentali minime costituzionalmente dovute, quali la possibilità del contraddittorio, la stabilità della decisione e l'impugnabilità con ricorso per cassazione.

A questi orientamenti fondamentali, che rappresentano un rovesciamento di prospettiva rispetto alle concezioni vigenti nel sistema giuridico precostituzionale, l'ordinamento penitenziario - materia di legge, alla stregua dell'art. 13 della Costituzione - deve conformarsi.

 

3.2. — La questione di costituzionalità che la Corte è chiamata a decidere non riguarda la difesa giudiziaria dell'insieme dei diritti di cui il soggetto sottoposto a restrizione della libertà personale sia titolare. Non riguarda innanzitutto i diritti che sorgono nell'ambito di rapporti estranei all'esecuzione penale, i quali trovano protezione secondo le regole generali che l'ordinamento detta per l'azione in giudizio. Ugualmente estranee all'oggetto della presente decisione sono le posizioni soggettive che possono venire in considerazione nel momento applicativo degli istituti propri dell'esecuzione penale, incidendo concretamente sulla misura e sulla qualità della pena (istituti previsti, ad esempio, nei capi III e VI del Titolo I della legge n. 354 del 1975). In tali casi, valendo pienamente la riserva di giurisdizione prevista dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione (sentenza n. 349 del 1993), il codice di procedura penale (art. 678, in relazione all'art. 666) ha configurato il procedimento applicativo in termini sicuramente giurisdizionali, affidandolo alla magistratura di sorveglianza, presso la quale le posizioni soggettive di quanti si trovino a subire una pena limitativa della libertà possono trovare adeguata protezione.

La presente questione di legittimità costituzionale riguarda invece specificamente la tutela giurisdizionale dei diritti la cui violazione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale e dipenda da atti dell'amministrazione a esso preposta. Occorre precisare, in contrasto con l'impostazione data alla questione dal giudice rimettente: di tutti i diritti rientranti in questo àmbito, non essendo possibile, considerando la portata generale degli artt. 24 e 113 della Costituzione, distinguere, per assicurare la garanzia giurisdizionale solo ai primi, tra diritti aventi e diritti non aventi fondamento costituzionale.

Specificamente, si tratta della tutela dei diritti suscettibili di essere lesi per effetto (a) del potere dell'amministrazione di disporre, in presenza di particolari presupposti indicati dalla legge, misure speciali che modificano le modalità concrete del "trattamento" di ciascun detenuto; ovvero per effetto (b) di determinazioni amministrative prese nell'ambito della gestione ordinaria della vita del carcere (come sarebbe avvenuto, ad avviso del giudice rimettente, nel giudizio che ha dato luogo alla presente questione di costituzionalità). La questione prospettata invita a procedere oltre nell'opera, intrapresa da tempo dal legislatore e dalla giurisprudenza, di diffusione delle garanzie giurisdizionali entro le istituzioni preposte all'esecuzione delle misure restrittive della libertà personale, innanzitutto gli istituti carcerari, e a perseguire in tal modo, come obiettivo, la sottoposizione della vita in tali istituti ai principi e alle regole generali dello stato di diritto.

Questa Corte ha da tempo abbandonato l'originario indirizzo che, facendo leva sul carattere esecutivo delle misure prese nell'ambito del "trattamento" penale - secondo le matrici storiche dell'ordinamento penitenziario in cui è stata collocata la magistratura di sorveglianza -, insisteva sulla natura amministrativa tanto delle misure stesse quanto delle eventuali garanzie che l'ordinamento penitenziario avesse previsto (fase che dalla ordinanza n. 87 del 1978, attraverso la sentenza n. 103 del 1984 e l’ordinanza n. 166 del 1984, giunge fino alla ordinanza n. 77 del 1986). In un momento successivo, la giurisprudenza costituzionale si è arricchita, rendendosi più duttile, attraverso l'accoglimento della distinzione, elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, tra provvedimenti relativi alle modalità dell'esecuzione della pena negli istituti a ciò destinati - attratti nell'area della amministrazione e dei soli rimedi di indole amministrativa - e provvedimenti riguardanti la misura e la qualità della pena, e spesso attinenti a momenti di vita extracarceraria, attratti invece nell'area della giurisdizione, alla stregua della riserva costituzionale di giurisdizione (oltre che di legge) vigente in materia (in proposito, sentenze nn. 349 e 410 del 1993; 227 del 1995).

Più di recente, tuttavia, questa Corte, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del potere amministrativo di sospensione, per ragioni particolari di ordine e sicurezza, dell'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati (art. 41-bis dell'ordinamento penitenziario), con le sentenze nn. 349 e 410 del 1993, 351 del 1996 e 376 del 1997, ha negato rilievo alla suddetta distinzione tra i diversi provvedimenti, sulla base del riconoscimento che anche in situazioni di restrizione della libertà personale, sussistono diritti che l'ordinamento giuridico protegge indipendentemente dai caratteri della ipotizzabile lesione. Con la sentenza n. 212 del 1997, l'esigenza costituzionale del riconoscimento di un diritto d'azione in un procedimento avente caratteri giurisdizionali si è infatti affermata indipendentemente dalla natura dell'atto produttivo della lesione, individuandosi la sede della tutela nella magistratura di sorveglianza, magistratura alla quale spetta, secondo l'ordinamento penitenziario vigente, una tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti e degli internati. Una garanzia - è stato altresì precisato - che comporta il vaglio di legittimità pieno non solo del rispetto dei presupposti legislativi dettati all'amministrazione per l'adozione delle misure, ma anche dei loro contenuti, con particolare riferimento all'incidenza su non comprimibili diritti dei detenuti e degli internati, la cui garanzia rientra perciò, nel sistema attuale, nella giurisdizione del giudice ordinario.

Muovendosi nel medesimo ordine di idee, questa Corte, con la stessa sentenza da ultimo citata - concernente il diritto dei condannati al colloquio col difensore - ha affermato che il procedimento di reclamo presso il magistrato di sorveglianza, previsto dall'art. 35, n. 2, della legge di ordinamento penitenziario, costituisce sede idonea alla proposizione della questione incidentale di legittimità costituzionale delle leggi. Anche la proposizione dell'incidente di costituzionalità, infatti, costituisce espressione del diritto di difesa, in questo caso contro le leggi incostituzionali, e deve pertanto - come questa Corte ha numerose volte affermato - essere ammessa tutte le volte in cui non sussistano vie alternative per farlo valere.

 

3.3. — L'idoneità del procedimento su reclamo davanti al magistrato di sorveglianza a essere luogo di promuovimento della questione incidentale di legittimità costituzionale, ai sensi degli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e quindi l'affermata sufficienza dei caratteri di giurisdizionalità - specificamente in relazione al carattere soggettivo del procedimento - ai fini della proposizione della questione stessa non vale tuttavia affatto come riconoscimento dell'idoneità di tale procedimento sotto il diverso rispetto della garanzia del diritto costituzionale di azione in giudizio. Ed è precisamente sotto questo aspetto che viene sollevata, e sollevata fondatamente, la presente questione di legittimità costituzionale.

Il procedimento che si instaura attraverso l'esercizio del generico diritto di "reclamo", delineato nell'art. 35 dell'ordinamento penitenziario, nonché nell'art. 70 del regolamento di esecuzione (d.P.R. 29 aprile 1976, n. 431) è, all'evidenza, privo dei requisiti minimi necessari perché lo si possa ritenere sufficiente a fornire un mezzo di tutela qualificabile come giurisdizionale. Quale semplice veicolo di doglianza, il reclamo è indirizzato a eterogenee autorità amministrative o politiche (il direttore dell'istituto, gli ispettori del Ministero, il direttore generale per gli istituti di prevenzione e pena, il Ministro di grazia e giustizia, il presidente della giunta regionale, il Capo dello Stato: nn. 1, 4 e 5 dell'art. 35), o soggetti estranei all'organizzazione penitenziaria ma interessati all'esecuzione delle pene, sotto il profilo della legalità e della tutela della salute (le autorità giudiziarie e sanitarie in visita all'istituto: n. 3), o, infine, al magistrato di sorveglianza (n. 2). Nulla è previsto circa le modalità di svolgimento della procedura o l'efficacia delle decisioni conseguenti. Solo per il reclamo a coloro i quali, rispetto all'esecuzione delle pene, sono investiti di una specifica responsabilità - l'amministrazione penitenziaria e il magistrato di sorveglianza - è previsto un obbligo di informazione, verso il detenuto che ha presentato il reclamo, "nel più breve tempo possibile … dei provvedimenti adottati e dei motivi che ne hanno determinato il mancato accoglimento" (art. 70, quarto comma, del d.P.R. n. 431 del 1976), un obbligo generico cui non corrisponde alcun rimedio in caso di violazione e che, comunque, è fine a se stesso, non essendo preordinato all'esercizio conseguente di un diritto di impugnativa da parte dell'interessato. E in effetti è consolidata giurisprudenza (a) che la decisione del magistrato è presa "de plano", al di fuori cioè di ogni formalità processuale e di ogni contraddittorio; (b) che la decisione che accoglie il reclamo si risolve in una segnalazione o in una sollecitazione all'amministrazione penitenziaria, senza forza giuridica cogente e senza alcuna specifica stabilità, e (c) che avverso la decisione del magistrato di sorveglianza non sono ammessi né ulteriori reclami al tribunale di sorveglianza né, soprattutto, il ricorso per cassazione.

Da tutto questo si trae che il reclamo di detenuti o internati, ancorché rivolto al magistrato, non si distingue da una semplice doglianza, in assenza di alcun potere dell'interessato di agire in un procedimento che ne consegua. Ciò che si presenta, senza necessità di alcun'altra considerazione, contrario alla garanzia che la Costituzione prevede nel caso della violazione dei diritti.

 

3.4. — Poiché nella norma che riconosce una possibilità di generica doglianza ai detenuti e agli internati, vale a dire nell'art. 35 dell'ordinamento penitenziario, mancano del tutto i caratteri obiettivi della giurisdizione, il giudice rimettente rivolge la sua attenzione alle previsioni, contenute nell'art. 69, comma 6, in collegamento con l'art. 14-ter, che, in casi particolari quali i reclami concernenti l'osservanza delle norme riguardanti il lavoro e l'esercizio del potere disciplinare sui detenuti e sugli internati, delineano un procedimento davanti al magistrato di sorveglianza contrassegnato invece da elementi giurisdizionali e di tali previsioni chiede, attraverso una pronuncia costituzionale additiva, un'estensione del campo applicativo.

Tali previsioni, nella sostanza della prospettazione della questione costituzionale, rappresenterebbero, oltre che il tertium comparationis argomentativo dell’irrazionalità denunciata, anche il dato normativo che, attraverso la sua estensione alle ipotesi carenti di tutela giurisdizionale, dovrebbe consentire di "chiudere" la questione.

Non è tuttavia così. La rilevata incostituzionalità per omissione, nella disciplina dei rimedi giurisdizionali contro le violazioni dei diritti dei detenuti e degli internati, si presta a essere rimediata attraverso scelte tra una gamma di possibilità, relative all'individuazione sia del giudice competente sia delle procedure idonee nella specie a tenere conto dei diritti in discussione e a proteggere la funzionalità dell'esecuzione delle misure restrittive della libertà personale.

Tali scelte, nell'ordinamento penitenziario attuale, il legislatore ha compiuto caso per caso, in relazione a esigenze singolarmente considerate e secondo gradi diversi di articolazione e completezza degli schemi processuali di volta in volta utilizzabili: (a) dal ricordato rimedio ex art. 14-ter dell'ordinamento penitenziario - di cui il giudice rimettente chiede una generalizzazione - apprestato sia per la decisione del magistrato di sorveglianza sui reclami dei detenuti in materia di lavoro e in quella disciplinare, in base all'impugnato art. 69 della legge n. 354 del 1975, sia per le controversie dinanzi al tribunale di sorveglianza ai fini del controllo dei provvedimenti che impongono il regime di sorveglianza particolare a norma dell'art. 14-bis della legge citata, sia, infine, per il controllo giurisdizionale del tribunale sui provvedimenti del Ministro di grazia e giustizia che dispongono il regime detentivo di particolare rigore previsto dall'art. 41-bis, comma 2, della stessa legge, in presenza di gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica; (b) al rimedio dinanzi al collegio (tribunale di sorveglianza o corte d'appello), previsto negli artt. 30-bis e 30-ter della legge di ordinamento penitenziario, in tema di mancata concessione di permessi e permessi-premio cui, con la sentenza n. 227 del 1995 di questa Corte, è stato riconosciuto carattere giurisdizionale; (c) al mezzo di verifica, ancora dinanzi a un giudice collegiale, del mancato computo nel periodo di detenzione del tempo trascorso in permesso-premio o licenza (art. 53-bis, comma 2, della legge n. 354), riconfigurato, a seguito della sentenza n. 53 del 1993 di questa Corte, attraverso la sostituzione del modulo semplificato dell'art. 14-ter con quello disciplinato dal nuovo codice di rito negli artt. 678 e 666; (d) fino a questa ultima disciplina, che ha rinnovato il procedimento di sorveglianza contenuto nel capo II-bis del titolo II della legge n. 354 del 1975, ma - per disposto dell'art. 236 disp. coord. cod. proc. pen. e per interpretazione giurisprudenziale - limitatamente alle procedure affidate al tribunale di sorveglianza, rimanendo dunque in opera il precedente procedimento per le materie assegnate al giudice monocratico.

In ogni caso, l'elemento fondamentale che accomuna tutti questi rimedi posti a tutela di posizioni soggettive connesse all'esecuzione di provvedimenti limitativi della libertà personale è la loro idoneità ad assicurare la tutela, di volta in volta, dei diritti del detenuto secondo modalità di natura giurisdizionale. Questa matrice unitaria è stata in numerose occasioni valorizzata e sottolineata dalla giurisprudenza di questa Corte, ogni volta che è stata sottoposta al controllo di costituzionalità una normativa riconducibile all'ambito del "trattamento" in carcere e alla relativa gestione amministrativa. E ogni volta si è ribadita l'esigenza costituzionale della garanzia della giurisdizione, escludendosi ogni potere dell'amministrazione penitenziaria libero da controlli, a fronte dei diritti dei detenuti (sentenze nn. 349 e 410 del 1993; 227 del 1995; 351 del 1996).

Ma, entro questa impostazione comune, i procedimenti e le varianti previsti nei singoli casi sono numerosi e importanti, cosicché manca un rimedio giurisdizionale che possa essere considerato di carattere generale. Nel sistema della legge, il rimedio generale c'è ma è costituito dalla procedura non giurisdizionale su reclamo generico. Ma è di questo che, per l'appunto, il giudice rimettente fondatamente si duole, senza peraltro che vi sia nell'ordinamento, come s'è visto, la possibilità di individuare, oltre le discipline singolari, una norma e una procedura giurisdizionale che questa Corte sia abilitata a estendere e generalizzare.

 

4. — Per le considerazioni che precedono deve concludersi che la questione proposta deve essere accolta per la parte in cui con essa viene denunciata nella disciplina dell'ordinamento penitenziario, e in particolare negli artt. 35 e 69, che disciplinano le funzioni e i provvedimenti del magistrato di sorveglianza, un'incostituzionale carenza di mezzi di tutela giurisdizionale dei diritti di coloro che si trovano ristretti nella loro libertà personale; ma allo stesso tempo, che non può essere accolta l'indicazione rivolta a estendere, a tale scopo, lo specifico procedimento che il medesimo art. 69, in riferimento all'art. 14-ter, prevede.

Pertanto, fondata essendo la questione di costituzionalità relativamente al difetto di garanzia giurisdizionale ma gli strumenti del giudizio di costituzionalità sulle leggi non permettendo di introdurre la normativa volta a rimediare a tale difetto, non resta che dichiarare l’incostituzionalità della omissione e contestualmente chiamare il legislatore all’esercizio della funzione normativa che a esso compete, in attuazione dei principi della Costituzione.

 

per questi motivi

 

la Corte Costituzionale

 

dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 35 e 69 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), quest’ultimo come sostituito dall'art. 21 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nella parte in cui non prevedono una tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 febbraio 1999.

 

Presidente Giuliano Vassalli

Redattore Gustavo Zagrebelsky

 

Depositata in cancelleria l’11 febbraio 1999

 

 

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