Il carcere dimenticato

 

Riflessioni

 

Violenza addizionale, di Sergio Piro

 

Per chi ha condotto lotte anti-manicomiali fin dal loro proporsi nella coscienza occidentale e che ha direttamente sperimentato, nel campo dell’esclusione psichiatrica, la validità inesorabile della proposizione "la libertà è terapeutica", i campi collegati del manicomio giudiziario e del carcere si presentano non solo come problema sociale, ma anche come tormento di coscienza e come paradosso epistemologico. Ciò perché la proposizione "la libertà è terapeutica" – che è un asserimento di diritti inalienabili – confligge con altri diritti dei cittadini, in una modalità dialetticamente affrontabile nel caso della salute mentale, incastrata in blocchi granitici nel caso della psichiatria giudiziaria, non affrontabile – per ora – nel caso del carcere.

Da questa rinunzia nascono sia la rassegnazione assistenziale dei settori progressisti di coloro che si occupano del problema o le bieche e camuffate espressioni di crudeltà vendicativa da parte di coloro che progressisti non sono.

Predicava il socialismo utopico dell’ottocento che una società socialista pienamente realizzata avrebbe abolito la pena, perché non vi sarebbe stato più il delitto. E poiché le utopie sono le uniche profezie della specie umana, può darsi che in un giorno lontanissimo tutto questo avvenga: ma fino ad allora bisognerà ingegnarsi a difendere (e con energia, e con efficacia!) la società e il diritto di tutti a una vita non sottoposta alla tirannide dal crimine, senza tuttavia cadere nella simmetria della violenza, nella potenza della vendetta, nella tortura del colpevole, nella sua uccisione fattuale anche là dove la pena di morte è abolita.

Qui si vuole ricordare solo un fatto primario, così ben noto a tutti coloro che si occupano di diritto. Nata la pena come esplicita vendetta, dapprima privata e poi pubblica, essa non ha perso affatto questo carattere intrinseco di violenza.

Ora se questo discorso sulla privazione di libertà come una vendetta sociale, che però appare paradossalmente necessaria per la tutela dei diritti degli altri cittadini, rimanda sine die una pratica risoluzione del paradosso e conferma per ora la privazione della libertà come pena, tuttavia v’è ben altro – nel mondo di oggi e in tutte le latitudini – che questo.

Tutto quello che eccede la privazione della libertà (dato per scontato che essa sia realmente la soluzione migliore per il terzo millennio e quelli successivi), tutto quello che eccede la privazione della libertà altro non può essere che arbitraria e illegale violenza: il freddo delle celle, il puzzo, la convivenza forzata, l’affollamento, le botte, i ricatti, la soggezione mortale, l’assenza di impianti igienici, la mancanza di cure mediche, le celle d’isolamento, i letti di contenzione, e così per un elenco che oggi ha tantissime voci. Si sta dicendo qui del modello carcerario prevalente in Italia all’inizio del secolo ventunesimo: se si parlasse del passato, dall’abate Faria ai Piombi, il museo degli orrori sarebbe una tristissima rassegna della cosiddetta "natura umana" e del carattere dello Stato detto moderno. Tutto ciò che, nel manicomio giudiziario e nel carcere, va oltre la pura e semplice privazione di libertà, si chiama "violenza addizionale".

Ora il campo di impegno (o di lotta, come si diceva in ere lontane) sembra essere proprio questo: la contestazione della violenza addizionale, la sua riduzione, la riaffermazione del diritto dei detenuti a vivere senza altre privazioni che quella. Tuttavia nessuno s’illuda che questo possa compiersi con facilità o con completezza: ciò perché la violenza primaria, per così dire "essenziale", della privazione della libertà genera a catena, senza posa, violenze addizionali e poi ancora altre violenze addizionali. L’azione riformatrice diviene così una solerte (e assolutamente lodevole) rincorsa di inedite negazioni di diritti, di nuove sopraffazioni, di altre omissioni di soccorso. Senza fine.

Tuttavia non sempre è possibile che le manifestazioni della violenza addizionale e gli impegni (lotte) contro di esse possano essere realmente antagonizzate e non risulta dunque sempre efficace l’occultamento della grande violenza iniziale (la privazione della libertà).

Proprio dall’area della psichiatria di liberazione viene qualche esempio significativo e sintomatico. In regime di detenzione la massima parte delle terapie somatiche è praticabile (i centri clinici e i ricoveri in Ospedale garantendo l’assistenza nelle condizioni più gravi). Ma in carcere non può essere utilizzato seriamente nessun trattamento di psicoterapia, di sistematico trattamento esistenziale, di attività terapeutica "trasformazionale".

Ora v’è subito da fare una precisazione: secondo i canoni operazionali ed epistemologici prevalenti nella letteratura e nella prassi internazionali, deve considerarsi come "psicoterapia" non una qualunque azione o intervento di sostegno, gratificazione, consolazione, appoggio, relazione o altro aspetto umanitario di questo tipo, bensì un duro lavoro di indagine sull’interiorità, sulle relazioni, sulla storia singolare, sugli sviluppi di personalità, sulle simbolizzazioni, sulle dinamiche interne, sulle compensazioni e supercompensazioni, etc. condotte da operatori che abbiano avuto una lunga preparazione tradizionale o innovatrice.

Questo tipo di attività trasformazionale sistematica ("psicoterapia" nella dizione tradizionale) presuppone fondamentalmente:

1) Il progressivo passaggio da una fase di chiusura e di diffidenza del paziente a una fase di collaborazione e di apertura. Ciò comporta un lavoro peculiare e implica una sostanziale neutralità del curante: in nessuna istituzione (carcere, reparto ospedaliero giudiziario, manicomio giudiziario, etc.) un rapporto così profondo e decisivo può realizzarsi poiché vi è, senza scampo, un’identificazione del curante con l’istituzione, cioè con figure a funzione normativa, informativa, giudicante, cogente, condizioni queste che impediscono la formazione di un transfert in cui il curante sia vissuto e trattato come figura emozionale esclusiva della propria vita privata, intima, segreta. Nel carcere, nel manicomio giudiziario, nei centri medici carcerari, questa identificazione pubblica e normativa delle figure istituzionali è tanto grande da sbarrare ogni possibilità di confiance psicoterapeutica, talora anche di semplice inizio di un rapporto e non puramente "umano".

2) Una progressiva, graduale e calibrata ripresa di rapporti naturali di vita nell’ambiente e nella famiglia. Ciò è possibile solo nella spontaneità di una vita non reclusa in un’istituzione segregante; questo fattore terapeutico è essenziale; superare la chiusura esistenziale al futuro (così tipico nella depressione) e lo sbarramento del pessimismo disforico in una cella o in reparto clinico carcerario è realmente impossibile; vivere in un ambiente in cui siano possibili rapporti interumani soddisfacenti non è più momento coadiuvante di una terapia, ma assume in questo caso la dignità di momento strutturante, parzialità necessaria di una trasformazione terapeutica in senso antropologico.

3) Il ripristino della prassi. È un altro momento strutturante, non facoltativo né adiuvante, ma indispensabile come la sottrazione al freddo di un ammalato di polmonite: da qualunque punto (d’indirizzo, di dottrina, di scuola) la depressione e le condizioni adiacenti vengano considerate, il blocco della prassi rimane pur sempre uno dei momenti costituenti di ogni condizione di sofferenza umana; il ripristino della prassi è possibile solo là dove esistono condizioni tali da permettere una gradualità nell’operare, nell’agire, nel cimentare se stessi nelle attività, cioè in libertà.

Questo esempio sull’impossibilità istituzionale di una "cura" sistematica della sofferenza, è utile qui per ricordarci la distinzione del tutto artificiosa fra la violenza sostanziale e necessaria della privazione della libertà e la violenza "addizionale" derivata dalla negazione (non contemplata dalla pena) di altri diritti come quello di curarsi.

Il problema di fondo rimane dunque inalterato nonostante tutti i nostri impegni, sacrosanti e inevitabili, contro la violenza addizionale del carcere. Un ottimismo millenario che prevede di abolire per sempre la guerra dalle condotte umane, risolverà contestualmente il problema della pena. Gli impegni parziali contro la violenza addizionale del carcere tendono a diventare così l’impegno a una trasformazione pacifica dell’umanità, a un superamento definitivo delle violenze che oggi appaiono "necessarie".

 

Il carcere possibile di Francesco Saverio De Martino

 

 

Nell’immaginario collettivo la prigione rappresenta l’ignoto e perciò gode di una stretta prossimità con la morte che è il massimo dell’ignoto e della privazione di tutte le libertà.

Questa rappresentazione non è solo il frutto di un pregiudizio, ancorandosi, invece, ad una tradizione consolidata che fa del carcere una realtà endogamica.

Ma ogni endogamia è asfittica: i college, i campus universitari, i gruppi esclusivi, le riunioni politiche, le associazioni culturali.

Ancora di più lo è il carcere cui non si accede mediante una volontaria iscrizione e verso il quale, evidentemente, non si sviluppa, per fortuna, nemmeno un senso di appartenenza.

La condizione detentiva in quanto tale, al di là di tutti gli apprezzabili sforzi del legislatore e degli operatori, tende ad appiattire una persona ad un reato, ad uno stigma ghettizzante.

Saltano le coordinate spazio-tempo.

Più correttamente si potrebbe dire che il carcere è limitazione di spazio compensata da eccesso di tempo. Se di compensazione si può parlare…

Un tempo dilatato, scandito dalla battitura delle inferriate e da un cadenzato sbattere di porte, senza maniglie.

Non voglio indugiare ulteriormente su questi aspetti che pure meriterebbero approfondimenti.

Anche perché sono consapevole che la propedeutica, branca peraltro obsoleta della comunicazione, la propedeutica, dicevo, sull’iniziazione al perdonismo ed alla comprensione non trova molti iscritti.

La società era ed è pervasa da grandi paure, a volte irrazionali: non si capisce ad esempio perché una rapina al Banco Ambrosiano generi allarme sociale, il crack del Banco Ambrosiano no; paure che generano una richiesta di sicurezza in un mondo che produce insicurezza da ogni parte.

Da qui la richiesta indiscriminata di pene esemplari. Da qui le reazioni inorridite al fatto che i detenuti hanno il televisore a colori, vanno in permesso, ecc..

Ma, come ci insegna la vecchia storia, la paura bussa alla porta, la fede, ognuno la intende come vuole se può servire allo scopo, la fede, dicevo, va ad aprire, fuori non c’è nessuno.

Bisogna, quindi, trovare il coraggio di "aprire".

Non si tratta di una scelta ideologica ma di un’insopprimibile necessità.

In quest’ottica va probabilmente letto il Nuovo Regolamento di Esecuzione del 30 giugno 2000 n° 230, nato dall’esigenza di adeguamento della normativa penitenziaria alla indicazioni internazionali.

Apprezzabile è lo sforzo del legislatore, per un verso teso a formulare una regolamentazione che consenta l’esercizio da parte dei detenuti di tutte le libertà che la condizione detentiva in sè non esclude, con conseguente riduzione di ogni forma di restrizione non connessa all’esecuzione della pena; per un altro attento a fissare standards qualitativi della condizione detentiva rispettosi della dignità e della personalità dei ristretti ed a favorire percorsi trattamentali più concreti ed incisivi.

Rimangono, peraltro, interrogativi e perplessità.

Pena breve ma senza sconti o fuga dalla pena detentiva? Depenalizzazione o diritto penale minimo? È giusto risolvere nella sede del processo o dell’esecuzione quello che è un problema sostanziale? E con quali risultati?

Si è chiesto al carcere la composizione di istanze antitetiche, con torsioni adattive della pena che non hanno soddisfatto né le istanze forcaiole né quelle di recupero.

La legge di riforma penitenziaria, che pure ha rappresentato un valido strumento di controllo del carcere e dei detenuti, aprendo il carcere alla società esterna e contribuendo notevolmente ad una umanizzazione del regime detentivo, ha mostrato, tuttavia, notevoli limiti quanto alla rieducazione ed al reinserimento.

E non poteva essere diversamente se ricordiamo l’insegnamento per il quale "la storia è servita a questo, a fare intendere all’uomo che egli è libero e lo è per essenza"; se consideriamo quanto ardua possa essere la "rieducazione" di chi vive, nonostante gli enormi sforzi degli operatori, una condizione di deprivazione affettiva e sensoriale; se riconosciamo che il reinserimento sociale presuppone efficienza degli apparati pubblici e delle politiche sociali

La realtà sappiamo che è diversa.

L’esperienza purtroppo, ci insegna, che anche quando, per la concomitanza di circostanze favorevoli – concreta offerta trattamentale, adesione ad essa dell’interessato, con conseguente rielaborazione in termini progettuali della propria esistenza – il percorso detentivo di un soggetto, si conclude positivamente, le immutate condizioni socio ambientali gli ripropongono inevitabilmente la strada della prigione.

Tale situazione evoca, mutadis mutandis, la "prova" alla quale potevano sottoporsi le "streghe" nel periodo delle inquisizioni, al fine di evitare il rogo immediato, prova forse ereditata, attraverso i secoli, dal rito ordalico: l’inquisita veniva immersa nell’acqua dopo essere stata saldamente legata ad un’asse; se affondava era innocente ma annegava, se galleggiava era colpevole e avviata al rogo…

Ed allora, in attesa della "città incantata" che sappia affrancarsi dalla necessità del carcere, dobbiamo pensare ad un diritto penale minimo, ricostruito sull’offesa di interessi preesistenti alla norma, costituzionalmente rilevanti.

Soltanto ai mala in sé, non anche ai mala quia proibita va circoscritta l’oggettività giuridica del reato.

Per ragioni costituzionali, oltre che di politica criminale, si impone di ripercorrere a ritroso quel processo di criminalizzazione che, grazie soprattutto alle leggi speciali, ha portato ad un’inflazione di figure criminose, con buona pace della prevenzione.

Soltanto muovendosi in questa direzione si potrà restituire al diritto la sua funzione più nobile di strumento di direzione sociale, evitando che possa invece essere considerato come una sovrastruttura di una sottostante struttura economico-politica.

 

Carcere ed intervento pedagogico: analisi delle utopie possibili, di Claudio Flores

 

Alta sulle mura delle carceri di un paese scandinavo sventola talvolta una bandiera bianca.

Non è un segno di resa.

È lì per comunicare a tutta la cittadinanza che il carcere è vuoto. Sì, vuoto, senza alcun detenuto.

Quando qualcuno viene arrestato, la bandiera bianca viene sostituita con una bandiera nera.

La bandiera nera vuol dire che qualcuno è detenuto, che per tutti questo deve essere motivo di riflessione e che tutti, forse, hanno un po’fallito.

Finchè sventola la bandiera nera tutti hanno il dovere morale di riflettere e di rimediare.

Sappiamo bene di vivere in una realtà sociale diversa.

Il persistere di un male antico, la frammentazione dei riferimenti sociali, l’ombra delle vecchie e nuove dipendenze, troppi antri oscuri ove i percorsi educativi si trasformano in scuole di sopraffazione e violenza.

La realtà campana è caratterizzata dal riprodursi sequenziale delle stesse dinamiche devianti, i contrasti e le lontananze si acuiscono, intere aree sono non sono solo controllate dalle organizzazioni criminali ma soprattutto sono culturalmente infettate dalla drammatica assenza di alternative alle vie della violenza e del degrado.

I giovani, i più esposti, sono lasciati soli.

Gli stranieri sono facile preda delle organizzazioni criminali, i ragazzi si muovono incerti, spesso senza nessuno con cui parlare delle proprie paure.

Entrano a Poggioreale senza meravigliarsi, quasi sempre tranquilli.

Sanno del sovraffollamento del carcere anche perché sono forse 20 anni, almeno, che tutti ne parlano e poi, spesso, a Poggioreale sono già stati.

Nel carcere tessono relazioni, si informano sulle procedure, cercano i colloqui con gli Educatori, riescono ad adattarsi anche quando sono 12 o 16 in una stanza con un solo bagno.

Organizzano turni, scendono pochi alla volta dalle brande, perché talvolta, a terra, non c’è spazio per tutti.

Nei passeggi vanno due ore al giorno,ove è possibile organizzano partite di calcetto.In qualche modo il tempo passa, l’Avvocato, i familiari, la doccia, la Messa, la spesa, il giornale della Caritas, la televisione, a volte qualcuno va a scuola o ai corsi di formazione o alle catechesi.

Gli anni passano e abbiamo sempre più iscritti alle scuole.

E sempre meno Insegnanti.

Nel 2002 almeno un centinaio di detenuti ha conseguito a Poggioreale un titolo di studio.

Parecchi altri una qualifica professionale, abbiamo realizzato e portato a termine corsi di Serigrafia, Ceramica, Ortoflorovivaistica, Arte presepiale.

Speriamo nei corsi che permettano una formazione idonea al lavoro autonomo.

Crediamo poco alla occupabilità degli ex detenuti.

Coloro che rientrano in carcere ci raccontano di un mondo del lavoro impermeabile,una assenza di prospettive concrete che ti annulla dentro portandosi via anche la speranza.

Quando c’è un parente o un amico con qualche ditta magari ti assume.Ma spesso è solo perché questo favorisce la concessione della semilibertà o dell’affidamento in prova al Servizio Sociale. Lavoro vero, poco o niente per tutti.

Molti non vanno a lavorare per scelta.

Nell’edilizia, dicono, pagano 150 euro alla settimana, per molti è una miseria,cosa daranno ai figli, alle loro famiglie, come andare avanti?

La maggior parte ha ormai fermamente introitato le modalità adattive dell’ambiente sociale di provenienza, sembrano su binari definiti senza possibili variazioni di percorso.

La finalità rieducativa della pena è un’astrazione.

Ma le esigenze della popolazione detenuta, una montagna che pesa.

La richiesta di alfabetizzazione, di cultura, di formazione, di consulenza, di confronto è un magma che si diffonde ovunque. Educare in carcere direi è assolutamente possibile.

Abbiamo con questi ragazzi un’occasione unica.

Possiamo far sentire loro per la prima volta e con tenacia l’esistenza di una altra città, di un’altra cultura, di un altro modo di intendere le cose e la vita. Certo non possiamo farlo riproducendo in carcere gli stessi meccanismi di sopraffazione e di violenza che i detenuti hanno già conosciuto fuori. Perché un altro carcere è possibile.

Un carcere ove vi sia un adeguato numero di Educatori e Psicologi,ad esempio,quando oggi il rapporto, a volte, è di addirittura un Educatore ogni 400 detenuti. E per gli Psicologi va ancora peggio.

Un carcere con più spazi, laboratori, palestre. E anche con più personale di Polizia Penitenziaria,oggi costretti a turni molto pesanti, a volte saltano riposi e ferie. E poi educare in carcere è necessario.

Per cominciare possiamo insegnare a scrivere e leggere visto che la percentuale di analfabetismo totale e di ritorno, per esempio a Poggioreale, è del 30% degli ospiti e ci sono tanti stranieri con scarsa conoscenza della lingua.

Poi avviare una formazione professionale che privilegi le professionalità tecniche maggiormente richieste sul mercato, anche avviando i giovani ad attività commerciali con la previsione di prestiti agevolati per l’apertura di attività autonome in regime di affidamento in prova ai servizi sociali.

Porsi seriamente il problema strutturale, reparti, a volte interi Istituti sono ormai obsoleti e non rispondono agli adeguamenti previsti dal nuovo regolamento di esecuzione. Sensibilizzare gli enti locali a che creino opportunità e sinergie. Educare in carcere è una operazione di sicurezza sociale.

Certo, è il carcere l’unico luogo ove seriamente possiamo parlare, insegnare,discutere e perché no convincere chi solitamente vive nella città illegale. Un’opportunità unica ed irripetibile.

Io voglio ricordare i tanti che in carcere lavorano con tenacia,senza arrendersi, soli e in silenzio, gli assistenti volontari, gli agenti, i medici, gli infermieri,gli insegnanti,i docenti della formazione professionale. E magari sognano quella impossibile bandiera bianca,che sarebbe per tutti,per una volta,un segno di vittoria.

 

Per un carcere meno tossico: meno tossici in carcere, di Stefano Vecchio

 

Il fenomeno delle tossicodipendenze è stato da sempre collegato, quasi identificato, con la criminalità, la malattia infettiva (più di recente), l’in-sicurezza personale e sociale, l’istituzione carceraria.

Questa equivalenza tossicodipendenza-paura-insicurezza è stata ed è un problema per chi opera nei servizi ed è impegnato a ricercare strade per il reinserimento sociale dei consumatori di droghe. Infatti se il senso comune, il cittadino medio, non riconosce diritti di convivenza e di cittadinanza a soggetti che considera pericolosi e di conseguenza li emargina, questi stessi soggetti considereranno l’emarginazione come il proprio luogo di esistenza e tenderanno a non riconoscere le normali regole di comportamento della convivenza come proprie. D’altra parte il mercato delle droghe è illegale ed è il luogo dove si svolge gran parte della vita dei tossicodipendenti, illegale sarà quindi tendenzialmente il loro comportamento. Vi è cioè una reciprocità speculare nei comportamenti emarginanti dei cittadini non consumatori e dei tossicodipendenti stessi che alimenta i comportamenti di esclusione ed auto esclusione. Il pregiudizio dominante sulla tossicodipendenza è in gran parte un ostacolo ad affrontare in modo incisivo le questioni sulle quali sono fondate le paure stesse che riproducono il pregiudizio: se non vi è più tolleranza e non si riducono le distanze con i tossicodipendenti, questi saranno sempre meno disponibili a modificare i propri comportamenti e d’altra parte se non si inviano segnali di riduzione dei comportamenti sociali a rischio (meno siringhe abbandonate e meno scippi) anche attraverso appropriate politiche di riduzione del danno sociale e sanitario atteggiamenti più tolleranti e di disponibilità alla convivenza da parte della popolazione saranno quantomeno problematici.

Il gatto che si morde la coda ! In realtà questo perverso meccanismo circolare che riproduce un pregiudizio "duro come una pietra"costituisce uno degli ostacoli maggiori al nostro lavoro nei servizi socio-sanitari teso a recuperare e reinserire soggetti tossicodipendenti in cura. Il riprodursi continuo ed in forma allargata di questo pregiudizio genera l’esclusione nel posto di lavoro, nella ricerca del posto di lavoro, nella famiglia (con un addizionale di sofferenza), nella convivenza nella città,tra i pari ed anche, a mio parere, una delimitazione dello spazio di esistenza per chi consuma droghe nella illegalità e nel circuito microcriminale con tutto ciò che questo può significare nei condizionamenti politici e delle forze dell’ordine.

Purtroppo la scarsa attenzione dei mass media sugli aspetti sociali del fenomeno e la maggiore se non unica attenzione sui problemi della microcriminalità, le politiche insufficienti e le campagne colpevolizzanti e di attacco al servizio pubblico che in modo incomprensibile settori delle forze politiche governative (deputate a difendere il sistema pubblico) anche in questa fase stanno promovendo,non solo non aiutano a ricercare misure di intervento mirate a contenere i danni sanitari e sociali del consumo di droghe ma consolidano e diffondono un senso comune di intolleranza e di odio per il diverso in generale.Tali comportamenti politici-massmediologici inducono un bisogno di sicurezza che non è collegato ad un miglioramento dei rapporti interpersonali, alla tolleranza, alla cura di chi vive momenti di crisi ma all’affermazione di steccati protettivi tra inclusi ed esclusi delegando all’ordine pubblico la gestione di questo bisogno indotto. Preoccupa che insieme a questa nuova war-drug ideologica vi siano tagli a quelle pur deboli politiche di inclusione sociale inaugurate dalla L n. 328/00 come ad esempio quelle mirate alle misure di sostegno al reddito od alle politiche sociali degli enti locali.

In questa atmosfera tesa,che nella nostra città viene vissuta con toni drammatici per l’inasprirsi di alcune contraddizioni sociali legate alla diffusione di realtà sotto la soglia della povertà, l’istituzione carceraria rischia di assumere un ruolo di "discarica" dei fenomeni sociali (come la tossicodipendenza) a causa dell’indebolimento delle misure di protezione e di cura determinate dalla crisi del welfare state.

L.Wacquant, ha descritto il processo sempre più esteso negli Stati uniti di trasferimento dallo stato sociale allo stato penale delle misure di intervento sulla popolazione nera e delle etnie sudamericane identificandola come una nuova strategia di controllo sociale di popolazioni non più produttive sul mercato, per effetto dei processi tecnologici e considerandola come una estrema conseguenza della mercificazione dei rapporti sociali nella società americana

Lo studioso sostiene che tale processo si basa sul principio della "tolleranza zero" e da vita ad " un inedito continuum carcerario-assistenziale…una metropoli punitiva riorganizzata…" fondata sulla" simbiosi tra politica, mass media, segregazione etnorazziale…". Il meccanismo rende "invisibili" i soggetti inutili e minacciosi e li " riattiva sotto mentite spoglie : la criminalità…"

In Italia i processi sono più lenti, la cultura punitiva ha una forte componente ideologica mentre la cultura e le pratiche rivolte alla cura dell’altro e del diverso ed alla cittadinanza sono più solide e diffuse ed in qualche modo pesano sugli orientamenti politici nazionali e locali. Non ci troviamo di fronte ad processo così vasto come quello descritto da Wacquant, anche se vi sono segnali che ci preoccupano come quelli prima citati che andrebbero confrontati con l’aumento della popolazione detenuta nelle carceri italiane negli ultimi anni, che risultano abnormemente sovraffollate (cfr inchiesta sulle carceri italiane dell’Associazione Antigone) e tra questa dei detenuti tossicodipendenti. Dall’inchiesta citata, risulta che la popolazione tossicodipendente al 31/12/001 è al secondo posto negli istituti di pena italiani con il 27,23 % per un totale di 14.440 persone su 56.736 detenuti complessivi.

 

Alternative alle pene e custodia attenuata

 

È sempre controversa la valutazione sul significato riabilitativo che la Costituzione assegna alle istituzioni detentive. Sulla base della mia esperienza i tossicodipendenti che hanno subito una o più pene detentive peggiorano negli stili di vita ed in quelli delinquenziali, in qualche caso si collegano con le organizzazioni criminali, riducono la stima di sé, si adattano in casi frequenti all’evenienza della detenzione imparando a sopravviverci.

In Italia, vista la grande frequenza di reati connessi con il consumo di sostanze (20’91 % dei reati ascritti nel 2001) è stato introdotto da tempo il principio dell’alternativa alle pene acquisito dal codice penale nella legislazione ordinaria per le tossicodipendenze (DPR n. 309/90). Questo principio normato, interessante sul piano di un controllo sociale "morbido" non ha trovato una applicazione adeguata in quanto, a mio parere, non vi è stata una concertazione tra le diverse istituzioni coinvolte (M. Sanità, M.Giustizia, e le relative proiezioni territoriali di servizi…) né da parte delle politiche nazionali e locali. Non mi avventuro su un’analisi più generale delle possibili ragioni della mancata applicazione diffusa di questa norma e preferisco fare alcune considerazioni pragmatiche nel merito.

È impensabile proporre una ipotesi di alternativa alle pene se le opportunità di attuazione concreta non sono ben delineate dai Servizi territoriali alle Comunità terapeutiche, e se non si pensa di istituire percorsi di socializzazione specifici integrati… e se in definitiva non vi è una strategia orientata al recupero ed alla integrazione sociale attraverso la conservazione delle risorse personali (lavoro, abilità) alla valorizzazione di competenze ed alla facilitazione di percorsi di inclusione (lavoro, famiglia, quartiere…)

E d’altra parte come si poteva pensare che una effettiva estensione di queste misure poteva realizzarsi senza indicare chiaramente in che sedi e con quali modalità Magistrati, Servizi dell’Area penale esterna ed operatori dei SerT dovessero raccordarsi per la valutazione e le modalità di esecuzione eventuale delle misure alternative.

Inoltre, mi permetto di dire che sarebbe opportuno un maggiore raccordo degli avvocati attraverso i propri organi d’associazione e di rappresentanza con i servizi pubblici per concordare le modalità e le procedure ed evitare richieste non attuabili o allungamento dei tempi con il rischio di decorrenza dei termini per l’attuabilità della misura alternativa…

Un caso a parte sono gli ICAT, Istituti a custodia attenuata. Tali istituti, a mio parere sono fondati sul principio contraddittorio dell’obbligo alla riabilitazione, che pure l’alternativa alla pena incarna ma almeno in regime di libertà. Il binomio pena/educazione è discutibile e si rischia di introdurre pratiche ricattatorie all’interno di una istituzione già di per sé punitiva che potrebbero determinare effetti controproducenti di rivalsa o di inibizione psicologica oltre che di ulteriore discriminazione.

Su questo argomento ritornerò in quanto ritengo che l’analisi critica debba essere orientata ad identificare i limiti ed i rischi di una prospettiva di intervento per poterne esplorare i possibili vantaggi con realismo pragmatico.

 

Le politiche ed il DL 230 / 99

 

Le leggi italiane in materia sociale e sanitaria sono spesso avanzate sul piano dei principi ma poco prescrittive sul piano delle procedure o delle responsabilità delle prescrizioni organizzative demandando in modo vago alle spontanea disponibilità alla collaborazione di operatori ed istituzioni una materia complessa e delicata.

Il caso del DL n. 230/99 rientra in questa categoria di norme. Infatti il DL afferma il principio importante che garantisce un diritto fondamentale ed inalienabile come il diritto alla salute ai cittadini anche quando sono ristretti in carcere dove per definizione i diritti di cittadinanza sono sospesi per il periodo di esecuzione della pena.

Nella realtà una procedura vaga e poco chiara sulla sperimentazione ha sospeso l’applicazione della legge tranne che nella parte che riguarda l’assistenza ai tossicodipendenti e la prevenzione collettiva che, com’è noto, sono stati invece direttamente affidati alle strutture del SSN cioè ai servizi delle ASL.

Anche per quanto riguarda questa parte del DL n. 230 che stabilisce che ai tossicodipendenti detenuti devono essere garantite le stesse cure che vengono effettuate ai tossicodipendenti in regime di libertà e nonostante il Progetto Obiettivo nazionale indichi correttamente e chiaramente che tali servizi devono essere integrati nel sistema dei servizi che agiscono nel normale circuito sanitario della ASL è stupefacente la mancanza di indicazioni sulle modalità di un passaggio così delicato di competenze da un Ministero come quello della Giustizia al Ministero della Sanità permanendo l’attività assistenziale all’interno del contesto carcerario. La vicenda ha assunto toni quasi paradossali sul trasferimento del personale che la continua reiterazione di un decreto ministeriale ha rimandato fino alla situazione attuale di "smarrimento" al punto tale che anche quando il trasferimento avverrà creerà inevitabilmente una nuova categoria di operatori precari.

 

Politiche ed iniziative locali

 

A Napoli il rapporto tossicodipendenza – criminalità è sempre stato particolarmente drammatico e visibile al punto tale da connotare la tossicodipendenza come la questione cardine della sicurezza personale e collettiva nella città… Io credo che questa affermazione sia vera anche se parziale nel senso che le politiche sociali e socio-sanitarie e le politiche della sicurezza e dell’ordine pubblico si dovrebbero integrare in modo forte e dovrebbero essere coordinate sia sul piano istituzionale che operativo. Non mi pare che attualmente vi sia questa impostazione da parte delle istituzioni né che vi sia da parte degli stessi operatori della Giustizia, della Sanità e del Sociale, nel pubblico e nel terzo settore una particolare sensibilità in questa direzione.

Anzi la distanza è grande e questa iniziativa della Camera Penale di Napoli è particolarmente opportuna per affrontare il problema dalle diverse visuali e posizioni istituzionali e provare a gettare le basi per una intesa a più voci.

L’intervento negli Istituti di pena a Napoli è sempre stata problematica anche nel senso che le due istituzioni, sanitaria e giudiziaria, fini ad oggi non erano riuscite a trovare un’intesa nel merito.

Dopo due anni dalla approvazione del DL n. 230 a Napoli si è aperto un processo nuovo impegnativo ma produttivo che ha visto la ASL NA1 con il Dipartimento delle Farmacodipendenze, e le Direzioni dei due Istituti di pena (la Casa Circondariale di Poggioreale ed il Centro Penitenziario di Secondigliano) protagonisti di una intesa sottoscritta in un Protocollo operativo che stabilisce le modalità di intervento dei servizi di assistenza ai tossicodipendenti detenuti come prescrive la legge citata nell’ambito di una più ampia collaborazione tra le due istituzioni.

In particolare nella Casa Circondariale di Poggioreale dove vi è il maggiore afflusso e turn-over di tossicodipendenti (tra i sette ed i dieci alla settimana) il percorso non è stato semplice, si è sviluppato con lunghe discussioni ed intese successive sui vari problemi che la nuova organizzazione dell’assistenza ha determinato sul piano organizzativo e sul piano del funzionamento del servizio. In particolare sottolineo la positiva collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale che pur partendo da posizioni, comprensibilmente caute, ha mostrato sensibilità ed elasticità nell’approfondimento delle strategie più adeguate per identificare gli spazi ed i riadattamenti organizzativi interni all’istituto nello spirito di una reciproca collaborazione. Mi preme sottolineare questo aspetto non per piaggeria ma per specificare che ritengo la fatica della collaborazione tra " diversi" come il fulcro delle azioni locali in mancanza di chiare indicazioni normative e di risorse aggiuntive. Anzi credo che queste forme di lavoro di rete possano rappresentare una base importante per una sollecitazione di impegno ai livelli istituzionali del governo regionale e locale, oltre che un modo di operare per valorizzare le risorse a favore dei cittadini.

In attuazione del P. Obiettivo Nazionale è stato istituita una Unità Operativa Area Penale, coordinata dal dipartimento delle Farmacodipendenze della ASL NA1, che attraverso due sottoequipe (una per ogni istituto di pena) costituite da operatori pubblici e "transitoriamente convenzionati" con il Ministero di Giustizia, ha progressivamente cominciato a prendere in carico tutte le pratiche inevase di richiesta di alternative alle pene, e ad inserire gradualmente i trattamenti con i farmaci sostitutivi per la gestione della sindrome di astinenza, così come avviene nelle U OT Sert che assistono i liberi,garantendo la continuità terapeutica per i detenuti che erano in trattamento prima della detenzione (sono la maggioranza) ed il rapporto con i SerT di provenienza. È bene considerare che in tal modo si evitano inutili sofferenze per la gestione della sindrome di astinenza, si seguono le pratiche di alternativa alle pene che in alcuni casi non procedevano solo per la difficoltà dei detenuti a comunicare con l’esterno od anche semplicemente per l’ignoranza delle procedure, si evitano interruzioni di trattamenti e di presa in carico da parte dei numerosi tossicodipendenti che transitano in carcere .

Ma, sempre in linea con quanto indica il P. Obiettivo Nazionale citato, la UOT SerT dell’Area Penale opera anche nel senso di coordinare tutte le iniziative connesse alla esecuzione delle alternative alle pene ed alla continuità della presa in carico successiva alla estinzione della pena … cioè cura il raccordo tra le attività " intramurarie ed extramurarie".

Per quanto riguarda il Centro Penitenziario di Secondigliano l’attività dl servizio si è concentrata all’assistenza dei pochi detenuti del Centro Clinico, sieropositivi e tossicodipendenti, ed è in preparazione, d’intesa con il responsabile dell’ICAT, un piano di ridefinizione delle attività dell’Area Verde a custodia attenuata incentrato sui principi educativi e della socializzazione piuttosto che premiali con la collaborazione di alcune realtà del Terzo settore che hanno dato la propria disponibilità. Anche in questo caso rilevo la collaborazione positiva con la Direzione e con il Responsabile dell’ICAT interno.

Certo siamo agli inizi dell’opera di costruzione di una assistenza capillare ed efficiente e con ritardo rispetto alla legge, ma sottolineo che tutto quanto realizzato, in una realtà di forte scarsità di risorse a fronte di una complessità tale della realtà carceraria napoletana mi porta a considerare una vera e propria impresa quanto realizzato grazie all’impegno dei pochi operatori e della capacità a dialogare da parte del Dipartimento delle Farmacodipendenze e delle Direzioni degli Istituti di pena al punto che se l’assistenza non fosse stata iniziata …nessuno se ne sarebbe accorto!

 

Qualche riflessione

 

Naturalmente è illusorio che ad un detenuto tossicodipendente possano essere garantite le stesse opportunità terapeutiche e riabilitative offerte ai tossicodipendenti non detenuti per il semplice motivo che l’obiettivo di ogni progetto terapeutico è quello di un recupero possibile di integrazione sociale, che è ciò che seppure transitoriamente è negato ad un detenuto. La normativa infatti da questo punto di vista, pur facendo fare importanti passi in avanti presenta, a mio parere, elementi poco chiari (ideologici) e quasi per nulla prescrittivi, determinando problemi seri per la sua applicabilità. Il caso eclatante citato delle risorse e del personale, in particolare, è sintomatico di questo scarto tra principi ed indicazioni attuative.

Sicuramente il nuovo sistema di collaborazione tra i due Ministeri che però affida la responsabilità diretta dell’assistenza alle ASL tutela la salute dei detenuti tossicodipendenti in modo più adeguato non fosse altro perché rientra nelle proprie competenze, così come al Ministero della Giustizia compete l’amministrazione della Giustizia … Inoltre consente di mantenere, per quanto è possibile, una relazione terapeutica che può diventare una componente di salvaguardia della integrità psico-fisica che ogni forma di esclusione dal sociale, dal proprio contesto naturale di vita determina soprattutto a chi ha commesso un reato non tanto per uno stile microcriminale proprio ma collegato alla condizione di tossicodipendenza.

Come si vede si può parlare di contenimento e riduzione dei danni e di tentativo di ridurre la discontinuità tra la detenzione e la realtà esterna. In questo senso possono essere riconsiderati, ripeto in modo pragmatico ed operativo, tutti i luoghi dell’esecuzioni delle pene e le opportunità offerte dalle leggi secondo una logica di cooperazione tra enti ed operatori diversamente collocati.

 

Il ruolo delle Istituzioni

 

All’interno di questo discorso mi preme, anche se di sfuggita, sottolineare che, a mio parere qualunque politica che cerchi di spostare la bilancia di un intervento punitivo-coercitivo come le detenzione, dalla parte di un reinserimento sociale possibile non può prescindere dalla considerazione della necessità di azioni rivolte al superamento del pregiudizio che grava come un macigno sui tossicodipendenti e che danneggia sia questi che i non consumatori di droghe per l’unico risultato che ottiene : l’aggravamento dell’ostilità e del disagio di entrambi. A tal proposito sarebbero utili campagne diffuse (ne stiamo progettando una con questa impostazione con il Comune di Napoli) mirate sia ai consumatori di droghe che ai non consumatori per sollecitare una nuova tolleranza reciproca piuttosto che diffondere inutili e falsi allarmi. Naturalmente siffatte iniziative non reggono se non sono associate a misure politiche orientate a ridurre i danni provocati dell’illegalità delle sostanze e che è alla base dei comportamenti microcriminali attraverso il miglioramento del funzionamento capillare dei servizi e dell’accessibilità delle terapie e degli interventi di strada e di bassa soglia.

Su questi aspetti ritengo che vi sia una sottovalutazione delle ASL determinata anche da una mancanza di chiare indicazioni di priorità a da una scarsa pressione dell’opinione pubblica. In tal senso l’impegno del Dipartimento delle Farmacodipendenze è teso a razionalizzare e migliorare le diverse aree di intervento ed a concordare con la Direzioni della ASL NA1 un più incisivo ed ampio intervento.

Inoltre tale ampliamento e diffusione capillare di interventi di servizi tesi a contenere i comportamenti a rischio sanitario a sociale dei consumi di droghe illegali, dovrebbe essere accompagnato da interventi di accoglienza dei senza dimora, non sempre senza fissa dimora, particolarmente carenti a Napoli, tesi a creare barriere protettive tra la perdita di risorse e la perdita di sé che spinge verso comportamenti rischiosi sociali e sanitari per se stessi e per gli altri.

Infine cito la necessità di realizzare misure di sostegno al reddito come il reddito di cittadinanza, in quanto in una realtà come quella meridionale e specificamente napoletana segnata da una crescente disoccupazione che interessa proprio le fasce di età più interessate al consumo di droghe ed alla detenzione, questa questione è strutturale per la convivenza, la sicurezza, la prevenzione della microcriminalità il successo delle azioni mirate ai tossicodipendenti, la riabilitazione negli istituti di pena.

Non mi sto riferendo ad astratti principi o desideri ma a concrete possibilità, ad esempio di competenza del Comune (RMI) e della Regione Campania che ha annunciato da tempo un progetto di sostegno al reddito, si spera con un utilizzo largo che tenga anche presente le questioni che ho affrontato.

 

Napoli: un laboratorio di sperimentazione

 

Napoli è una fucina di idee e di esperienze che non sempre si riescono ad incontrare ed a mettersi in rete. L’invito della Camera Penale di Napoli a dibattere sui temi del carcere potrebbe essere anche l’occasione per lanciare un piano cittadino che si proponga come un laboratorio di sperimentazione di pratiche integrate interistituzionali e tra diversi operatori e soggetti professionali impegnati.

In particolare si potrebbe promuovere un tavolo permanente di approfondimento delle diverse questioni ed attivare le collaborazioni tra Magistrati operatori dei servizi Socio-sanitari, Avvocati… sollecitare forme di formazione integrata tra servizi, forze dell’ordine finalizzate a coordinare attività che si incrociano senza incontrarsi e che probabilmente potrebbero trarre vantaggi a vicenda da accordi bilaterali.

Infine si potrebbe sottoscrivere un invito alla Regione Campania e al Comune di Napoli perché inseriscano in modo esplicito e preciso la problematica dei detenuti all’interno dei propri programmi di politica sociale e socio-sanitaria.

 

Valorizzare le funzioni del magistrato di sorveglianza, di Michele Del Prete e Francesca Romana Amarelli

 

Il dibattito proposto dalla Camera penale di Napoli riguarda il tema dell’attuazione del principio costituzionale fissato dall’art. 27 co. 3: "Le pene…devono tendere alla rieducazione del condannato". In attuazione di questo precetto l’ordinamento penitenziario introdotto con la legge 354 del 1975 ha statuito, significativamente proprio all’art. 1, che "il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona", precisando che "nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi".

Molteplici oggi sono le implicazioni in sede di esecuzione delle pene, sia di carattere tecnico-giuridico che sociale, con non trascurabili ripercussioni su vicende umane, personali e familiari.

Può dirsi ormai pienamente affermato il principio di flessibilità della pena, e quindi la possibilità di espiazione non solo in ambito intramurario – dove gli obiettivi costituzionalmente rilevanti sono perseguiti mediante le attività ricreative, di lavoro e di studio o con l’eventuale sperimentazione della condotta all’esterno attraverso l’esperienza dei premessi premiali o del lavoro fuori dalla struttura carceraria ex art.21 l. 354/75 – ma anche all’esterno con l’esperienza delle misure alternative, con una valorizzazione immediatamente percepibile del profilo del reinserimento sociale del condannato ex art.27 della Costituzione, senza pregiudizio per l’effettività della pena.

Con particolare riguardo all’esecuzione in regime detentivo ordinario, oggetto della presente pubblicazione, appare opportuno evidenziare preliminarmente la complessità organizzativa degli Istituti presenti nel nostro territorio: si registra infatti, di giorno in giorno, un progressivo aumento del numero di ristretti, con una presenza media giornaliera spesso, purtroppo, di entità sensibilmente superiore, a mio avviso, alla capienza ottimale delle strutture ovvero alla disponibilità di personale in servizio effettivo.

I dati numerici forniti dall’Amministrazione Penitenziaria, congiunti alla valutazione della qualità di non pochi detenuti inseriti nel circuito di alta sicurezza ed alla presenza di numerosi stranieri e tossicodipendenti, permettono già di individuare obiettive difficoltà di gestione e controllo dell’attuale complessiva situazione organizzativa e trattamentale dei carceri in termini di sicurezza interna delle strutture, di tutela della salute dei detenuti, di garanzia di adeguato trattamento degli stessi e di offerta di opportunità rieducative, culturali e ricreative (di lavoro, studio, formazione professionale, etc.).

La stessa legge penitenziaria invero prevede, ex art.80, la possibilità di avvalersi anche dell’impegno di "professionisti esperti in psicologia, servizio sociale, pedagogia, psichiatria e criminologia clinica" per lo svolgimento di attività di osservazione e trattamento in ambito penitenziario, per la valutazione della personalità del reo e per la formulazione quindi di un parere qualificato per la progressione trattamentale interna, oltre che in vista dell’eventuale accesso all’esecuzione penale esterna secondo le modalità determinate dall’Autorità Giudiziaria. Tuttavia non sempre si riesce ad assicurare – dati i grandi numeri – l’individualizzazione del trattamento (intra ed extra-murario) ex artt. 1- 13 l.p., "in rapporto alle specifiche condizioni" ed "ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto", nel rispetto naturalmente dei principi di "assoluta imparzialità" e di "parità di condizioni di vita" dei condannati (cfr. artt.1-3 l.p.).

Le opportunità trattamentali appaiono ancora insufficienti a soddisfare pienamente le istanze dei ristretti, troppo numerosi, in conformità con i principi della Carta Costituzionale e con le previsioni della legge penitenziaria: la partecipazione dei detenuti alle attività interne avviene di regola secondo rotazione, per turni inevitabilmente di breve durata, per assicurare possibilmente l’avvicendamento almeno di tutti coloro che ne abbiano fatto espressa richiesta. Ed anche l’istituzione di nuove strutture o di nuove sezioni (sezione femminile, cd. reparto verde per i tossicodipendenti….), destinata chiaramente alla soluzione del grave problema preliminare del sovraffollamento di alcune carceri, non è da sola idonea a perseguire tali ulteriori obiettivi, se non è accompagnata dalla predisposizione di risorse umane, materiali e finanziarie, e di adeguate attività; in questi casi pertanto, superata una naturale "fase di organizzazione" dei nuovi complessi penitenziari, appare necessario che l’Amministrazione provveda alla programmazione di adeguate iniziative ricreative (previa integrazione, ove necessario, del ruolo degli educatori e previa dotazione dei mezzi finanziari del caso), di corsi scolastici e professionali e di opportunità di lavoro interno o alla predisposizione dell’area verde per i colloqui, ove vi siano detenuti che ne possano beneficiare.

Le carenze sono riscontrabili poi nel ruolo degli educatori: a fronte delle indicazioni contenute in pianta organica (non sempre adeguate alle nuove e crescenti esigenze della popolazione carceraria), alcuni Istituti devono sopportare carenze "di fatto", dovute alla presenza in servizio effettivo soltanto di alcuni operatori di questa qualifica, assorbiti anche dalla partecipazione ai Consigli di disciplina. È di tutta evidenza che i penitenziari non possono assolutamente soddisfare le esigenze della popolazione ivi ristretta contando su una presenza minima di esponenti di un ruolo professionale di rilevanza centrale nelle attività di osservazione e trattamento, da svolgere in primo luogo nei confronti dei detenuti definitivi.

Non va poi trascurato che alcuni Istituti del distretto (per esempio, secondo la mia esperienza, la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere e la casa di reclusione di Carinola), forse anche per la particolare realtà del territorio nel quale sono ubicati, non beneficiano di una significativa partecipazione all’opera rieducativa da parte della comunità esterna (privati, istituzioni o associazioni), soprattutto allo scopo di "promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera" ex artt. 17 L.354/75, 68 DPR 230/2000.

La necessità di offrire ai detenuti adeguate opportunità è funzionale non solo allo scopo di garantire la continuità con l’impegno espresso dagli stessi in altre sedi penitenziarie (più "attive" sul piano dell’impegno rieducativo), ma anche per una progressione del trattamento intramurario, in considerazione del fatto che taluni di essi, in ragione della natura giuridica "ostativa" dei reati in espiazione, non possono assolutamente accedere ai benefici previsti dalla legge penitenziaria per la sperimentazione della condotta in ambiente esterno.

Inoltre anche la valutazione dell’adesione alle proposte rieducative da parte del magistrato di sorveglianza in vista dell’accesso ai benefici esterni rischia di essere frustrata o comunque di rimanere limitata al formale riscontro dell’assenza di rilievi disciplinari: la difficoltà di raccogliere i risultati dell’osservazione e della sperimentazione in ambito penitenziario talvolta inibisce la progressione trattamentale esterna, in danno soprattutto di coloro che, talvolta ancora molto giovani, vivono la prima esperienza detentiva.

Con riferimento al ruolo della magistratura in questo percorso teso alla realizzazione dei principi costituzionali, vi è l’esigenza di una valorizzazione della funzione del magistrato di sorveglianza preposto alla vigilanza sull’Istituto penitenziario e sull’attuazione del trattamento rieducativo di ciascun condannato, in conformità con le indicazioni dell’ordinamento penitenziario e con le linee tracciate anche nella circolare CSM del 21.12.2001 all’art. 53 bis.

Appare di tutta evidenza l’importanza dell’espletamento delle funzioni di vigilanza (artt. 69 co. 1 L. 354/75, 5 D.P.R. 230/2000) del magistrato di sorveglianza sul penitenziario nel suo complesso e sul trattamento dei detenuti per la verifica dell’attuazione del piano rieducativo; quest’ultimo invero, pur essendo chiaramente individualizzato, si inquadra nelle linee programmatiche trattamentali di carattere generale e può sfociare talvolta in iniziative di carattere collettivo (soprattutto nel settore teatrale).

Il contatto con la realtà e la vita del carcere forma il patrimonio conoscitivo del magistrato, responsabile dell’approvazione dei programmi di trattamento, previa verifica dell’insussistenza di violazioni dei diritti del condannato o dell’internato: una valutazione questa che è senz’altro legata alla posizione giuridica del singolo condannato, ma non può prescindere dalla visione della situazione organizzativa e trattamentale dell’istituto nel suo complesso.

La conoscenza del particolare, relativa cioè al singolo condannato, va integrata del necessario supporto che proviene dalla visione d’insieme e dalla conoscenza generale anche per l’esercizio del potere del magistrato di sorveglianza di prospettare al Ministro della Giustizia, in relazione all’attività di vigilanza sull’organizzazione degli istituti, le esigenze dei vari servizi in ambito penitenziario, "con particolare riguardo alla attuazione del trattamento rieducativo (art. 69 l. 354/75).

È stato detto che "Dietro il delitto c’è un passato, ma davanti al delitto c’è un avvenire ed in questo avvenire vive ed opera un uomo che spesso, dopo qualche tempo, è completamente diverso da quello che ha commesso il delitto". E se non sempre, invero, si riescono a raggiungere questi risultati, la probabilità di successo è sufficiente a giustificare il massimo impegno in tal senso.

L’investimento di risorse nel trattamento, del resto, una volta perseguito il risultato della rieducazione del singolo, produce ulteriori favorevoli effetti: la riduzione del rischio di recidiva, di riflesso, permette il contenimento del fenomeno criminale assicurando un livello di sicurezza sociale più elevato.

 

 

Un’occasione mancata, di Francesco Piccirillo

 

Nella simbologia collettiva il carcere rappresenta la collocazione spaziale di qualcosa che è a metà tra l’espiazione e la sofferenza, spesso secondo un’accezione non troppo chiara dei termini; si tratta di concetti che non piace analizzare, non invogliano alla riflessione. È più facile, ed aiuta a vivere meglio, collocare i concetti di espiazione e sofferenza "da carcere" tra le cose che "capitano solo agli altri"; un qualcosa rispetto al quale non può capitare di confrontarsi nel cammino verso la cura dei propri interessi; perché chiuso in un muro sufficientemente spesso rispetto al resto della collettività. In questa filosofia s’inquadra quel fenomeno proprio dei nostri tempi (che in verità non saprei valutare sul piano etico), per il quale uomini un tempo detentori di prestigio e potere, accortisi del carcere per disgrazia personale, diventano, come d’incanto, attivi volontari dell’assistenza sociale ed irriducibili avversari dell’istituzione carcere, in quanto improntato a criteri disumani. Rappresentano oggi risorse preziose per la causa della umanizzazione della pena, ma implicitamente confessano che nella loro qualità di "potenti" di ieri non sapevano e, dunque, non volevano sapere delle condizioni di vita all’interno del carcere. Esattamente come i "potenti" di oggi. Quelli che oggi "possono", ma non fanno. Bisogna dirlo e ripeterlo tutte le volte che ne capita l’occasione: l’idea dell’uomo in detenzione da fastidio, e per evidenti ragioni: Affrontare il problema con onestà implica interrogarsi sul grado di responsabilità concorrente di noi tutti nel delitto "appioppato" solo al condannato; e trarne le conseguenze.

Si sa che il delitto ha radici più lontane di quelle prese in esame dal diritto penale, deputato alla punizione; ed anche se il concetto non compare mai nella letteratura di Stato (quella che si scrive con potere d’imperio), il delitto nasce si da pulsioni criminoimpellenti di natura endogena, ma anche, ed in maniera preponderante, da fattori esogeni, da stimoli esterni all’individuo; da stimoli direttamente ricollegabili alla società ed alle sue istituzioni, come la famiglia, la scuola, l’organizzazione del lavoro e del suo accesso, l’edilizia e, per finire, all’organizzazione del carcere con la sua pretesa rieducativa senza risorse, senza sacrifici per la società esterna. Dunque affrontare con serietà il problema carcere, significa riconoscere una responsabilità Politica nel delitto quantomeno in termini di percentuale; significherebbe trovare il coraggio di redistribuire la sanzione secondo criterio di colpevolezza reale, con conseguente dimensionamento della pena. Non solo, ma riconoscere le proprie responsabilità significherebbe per lo Stato sforzarsi di avere la coerenza di non cadere nella recidiva, facendosi carico di rimuovere le cause del delitto riferibili alle istituzioni sociali.

Ma un meccanismo istituzionale veramente teso alla prevenzione criminale ed al recupero deve necessariamente contare su programmi a lungo (o lunghissimo) termine. Tutto ciò implica stornare congrue risorse in un’operazione politica dai risultati troppo lontani nel tempo per essere tradotta anche in termini di consenso elettorale. Anzi, il rischio è quasi certezza che a contare i numeri di un successo, direi, dell’umanità, ovvero a beneficiare del risultato elettorale sarà una generazione politica diversa da quella che dovrebbe, disinteressatamente, impiegare oggi le proprie energie.

Il concetto di risocializzazione, che almeno a livello teorico rappresenta un passo avanti nell’istituzione carcere, è difficile da cogliere; è percepibile solo dagli addetti ai lavori (e pochi altri), secondo la loro distribuzione lungo il percorso giuridico che conduce al chiuso di una cella. Troppo radicati sono nella collettività i luoghi comuni a guardia dell’idea che solo il bambino si può (ri)educare. E non vi è impresa più ardua a spiegare a chi non ha interesse a capire.

Ancora troppo lontana è l’idea di una giustizia di tipo "distributivo" come compare nella carta costituzionale, poiché la nostra società è caratterizzata da una tipologia di giustizia troppo legata al potere di farla valere. Di guisa che più forte è la capacità di pressione di una categoria sociale sulle istituzioni e più è garantita la tutela dei diritti della categoria medesima. E il caso ha voluto che la categoria dei detenuti, senza dubbio punto di imputazione di una serie innumerevole di diritti, sia per fonte nazionale che internazionale, rappresenta l’unica categoria, in questa società pluralistica e di libertà di espressione, a subire l’imposizione del silenzio, poiché fatta di colpevoli. Non è retorica. A cominciare dalla difficile relazione del detenuto con l’agente di polizia penitenziaria; si sa che quando il rapporto degenera nel contrasto, a volte aspro e con conseguenze giuridiche, il confronto in sede di tutela si pone tra la parola del detenuto ed il processo verbale dell’agente, che fa fede fino a querela di falso. Vero è che rileva molto anche la difficile condizione di lavoro della stessa polizia penitenziaria, che ostacola fortemente l’instaurazione di una corretta relazione con il recluso; anch’essa vittima, per molti versi, di una struttura organizzativa esposta, sia pure con diverso grado, all’indifferenza collettiva di tipo molto simile a quella riservata ai detenuti. Perlopiù priva di una formazione professionale adeguata al delicato compito.

Inutile provare a risalire il percorso lungo la farragine di responsabilità e competenze all’interno della struttura penitenziaria, alla ricerca del ganglo responsabile dell’attività rieducativa infruttuosa a livello periferico, a livello dei singoli istituti penitenziari. È una risalita attraverso una piramide di organi gerarchicamente sovraordinati con appena le risorse per sopravivere, almeno fino al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dislocato presso il Ministero della Giustizia. Qui le responsabilità si vedono, ma non si possono denunziare politicamente, perché appartengono sempre ad un Ministro precedente.

Tuttavia farei grave torto ai funzionari dell’amministrazione penitenziaria (almeno in Campania, dove ho consumato la mia esperienza con i problemi penitenziari) se non dessi atto di presenze umane di notevole responsabilità ed impegno nell’ambito delle proprie competenze, tirate avanti anche con sacrificio personale, perché evidentemente fiduciosi nella funzione rieducativa del carcere. Vale a dire che ci sono i presupposti per cambiare rotta. Ed è questa la ragione principale per cui ho aderito all’invito lusinghiero della Camera Penale di Napoli di stendere questo intervento. Perché ne ho condiviso il titolo "Carcere possibile". Perché in Campania, come dicevo, sono presenti notevoli risorse umane per rendere appunto umano, rieducativo, "Possibile" l’istituzione carceraria funzionale ai valori costituzionali.

Convinto dell’inutilità di un’analisi dei problemi e tentativi di soluzioni secondo un percorso, come detto prima, che prendesse avvio dalla "periferia", poiché destinati al nulla di fatto dai "rinvii" di responsabilità e poteri all’organo immediatamente e gerarchicamente sovraordinato, chi scrive ha tentato l’itinerario inverso: partire dalla cima della piramide per giungere alla sensibilizzazione delle istituzioni locali rispetto ai problemi del trattamento penitenziario e, più in generale, della prevenzione criminale in Campania.

Nell’anno 1999 stilavo un documento di tre cartelle, che intitolavo "Dichiarazione d’intenti del Ministro di Grazia e Giustizia e del Presidente della Regione Campania sui problemi penitenziari e della devianza in Campania". Il documento era funzionale alla stesura di un vero e proprio protocollo d’intesa allo scopo di coinvolgere gli Enti locali nell’azione volta ad affrontare tale tipo di problemi in coordinamento con gli organi periferici del Ministero della Giustizia. Il momento era politicamente buono, e trovai subito il consenso dei vertici istituzionali. Lo spunto partiva dal decentramento in atto in favore degli enti locali di una serie di competenze già proprie dei singoli ministeri, che avrebbe comportato, peraltro, il passaggio di una serie di competenze dal ministero della Giustizia agli enti locali con riferimento alla popolazione detenuta. E dunque una collaborazione Ministero Giustizia - Enti locali, in una certa misura "necessitata"(si considerino i decreti delegati in materia di sanità).

Ma era, se si vuole, un pretesto. Lo scopo, anche dichiarato, era quello di riservare una serie di risorse umane e finanziarie, con sempre più imponenza devolute alle regioni, ai problemi penitenziari in sede locale. Vi era inoltre, a parere di chi scrive, l’esigenza di distribuire e specificare gli interventi di rilievo trattamentale e di prevenzione secondo le esigenze legate al territorio, in particolare al territorio campano. La mia attività di avvocato penalista, con esperienze anche in altre regioni dell’Italia, mi aveva convinto della necessità di valorizzare il dato territoriale per un’efficace azione "trattamentale".

La "Dichiarazione" contemplava l’impegno del Ministero e della Regione ad organizzare interventi congiunti, con congiunto apporto di energie normative, umane e finanziarie nel settore in argomento, che nel documento furono indicati in sette direzioni fondamentali.

Il 12 Novembre del 1999 l’allora Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto ed il presidente della Regione campania Andrea Losco firmarono a Capri la "Dichiarazione d’intenti".

In tempi relativamente stretti il Ministro ed il Presidente della regione, con autonomi decreti, in attuazione della "Dichiarazione", designarono chi scrive presidente di una commissione paritetica con il compito di analizzare la situazione penitenziaria in Campania. I componenti della commissione da me presieduta vantavano (e vantano) massima esperienza nel settore in Campania; parlo del dott. Salvatore Acerra, direttore della casa Circondariale di Poggioreale; il dott. Alessandro Forlani, Direttore del centro di Giustizia Minorile per la Campania e Molise; il Dott. Umberto Raccioppoli, direttore dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli; il dott. Giustino Santoro, funzionario alla formazione professionale della Regione Campania; la dott.ssa Angela Ruggiero, funzionario di azienda sanitaria. Nonché i compianti dott.ssa Carmen Rosa, direttore del centro di servizio sociale di Salerno ed il criminologo di chiara fama prof. Franco Sclafani, direttore del dipartimento scienze penalistiche, criminologiche e penitenziarie dell’Università di Napoli, non più tra noi.

I lavori procedettero a ritmo serrato. Nel Novembre 2000 il documento fu interamente steso; s’intitolava "Protocollo d’intesa tra la Regione Campania e Il Ministro della Giustizia". Gli impegni delle due istituzioni furono consacrate in sedici cartelle. In esso si regolarono interventi congiunti in materia di trattamento penitenziario, volti essenzialmente all’attuazione concreta della normativa in materia. Si regolarono le problematiche legate alle comunità per i minori; fu redatto un progetto per Nisida dove si prevedeva un centro studi sui minori su scala europea; si affrontò il problema dell’assistenza sanitaria e della salute in carcere; s’individurono meccanismi di recupero per tossicodipendenti e alcooldipendenti; furono previsti criteri per ottimizzare il rapporto qualitativo e quantitativo tra tossico ed alcool dipendenti e le comunità terapeutiche; si esaminarono le esigenze di salute sui luoghi di lavoro all’interno degli istituti penitenziari; si insistette sulla territorializzazione della pena; ci si preoccupò della tutela dello straniero in area penale; s’individuarono le ragioni di disagio della polizia penitenziaria e conseguenti criteri per rimuoverli; si regolò un piano d’intervento in materia di esecuzione penale all’esterno allo scopo di dare attuazione alla Raccomandazione del consiglio d’Europa n. R(92) del 19 Ottobre 1992; fu previsto l’impegno a raccordare l’opera del volontariato con l’azione delle istituzioni pubbliche; si insistette sulla formazione e aggiornamento degli operatori penitenziari e formazione professionale dei detenuti; furono consacrati impegni a favore delle vittime del reato. Il documento chiudeva con il capitolo "Disposizioni operative".

Il Protocollo fu firmato in data 3 Ottobre 2000 dal Ministro Piero Fassino e dal Presidente della Regione Campania Antonio Bassolino.

Le disposizioni operative del Protocollo, in linea con gli indirizzi della commissione nazionale consultiva e di coordinamento per i rapporti con le regioni, prevedevano il naturale scioglimento della commissione da me presieduta e la costituzione di una nuova commissione, questa volta regionale, con il compito di dare esecuzione alle disposizioni del Protocollo stesso.

La commissione fu istituita, ma è tutto quello che si è riusciti a fare! Se non la riunione d’insediamento della stessa. Da quello che mi risulta il Presidente della commissione non l’ha mai più convocata.

Dunque, nel nulla di fatto si sono risolti gli impegni precisi assunti e sottoscritti dalle parti stipulanti, che pure avevano espresso largo apprezzamento sul lavoro della commissione da me presieduta.

Diversamente accade invece in altre regioni d’Italia, dove simili protocolli, pur nelle difficoltà di ordine pratico, vantano una commissione impegnata e decisa a darne attuazione. Cito come esempio la regione Lombardia.

Ho intitolato questo intervento "Occasione mancata", ma solo per dargli una veste provocatoria, perché in realtà l’occasione è ancora attuale, anche se si è perso e si perde tempo prezioso. Il Protocollo è ancora lì, valido ed efficace; le firme sono autentiche; ed è grave la responsabilità dell’istituzione che risponde con l’indifferenza, solo perché il documento considera i diritti di chi non ha la forza di farli valere e la voce per reclamarli. Altri protocolli hanno considerato altre categorie, hanno incontrato altri sostenitori, altri interessi, altre fortune.

 

Carte Blanche. La compagnia della fortezza, di Armando Punzo

 

La ricerca del senso del teatro e di un nuovo linguaggio non può che iniziare quando ci si avventura concretamente in territori umani, culturali ed emotivi a noi ancora sconosciuti, lasciandosi alle spalle ciò che già ci è noto.

È attraverso una sorta di isolamento di se stessi che è forse possibile far emergere un nuovo senso del teatro. Il teatro in carcere è ancora un’utopia un desiderio una necessità per ricercare se stessi e una propria identità culturale e personale.

La ricerca consiste nell’eliminare il superfluo, per riscoprire ogni volta, ogni giorno, la funzione originaria del teatro, scoprendo un linguaggio nuovo, che si nutre di fatti concreti della vita.

Anche le difficoltà, le resistenze, i pregiudizi possono portare ad ampliare l’obbiettivo dalla ricerca puramente formale, per arrivare all’individuo, all’uomo e alle sue motivazioni, all’incontro con l’altro.

Il carcere è un’isola dentro le nostre, un’isola dimenticata che non si vuole conoscere,retta da regole che non contemplano l’esistenza di un teatro e tanto meno lo scambio culturale ed umano. A Volterra il "nostro teatro" è una cella, di tre metri per nove. Ma il nostro problema, il nostro obbiettivo non è rendere più umane le carceri, ma mettere alla prova il teatro in queste condizioni.

Per noi, paradossalmente, il carcere può diventare il luogo dove reinventare il teatro e restituirgli la sua necessità. Quando siamo entrati in carcere per la prima volta dieci anni fa, pareva impossibile far nascere un teatro dentro quelle mura. L’impossibilità in un carcere si manifesta concretamente nella sua struttura, nella sua funzione, nelle leggi scritte che lo regolano e in quelle non dette che lo abitano. E quell’impossibilità non era solo un’idea, era anche una sensazione fisica che si manifestava in noi stessi e in chi guardava dall’esterno: si stava forzando un limite culturale che era negli altri, ma anche in noi stessi.

Impossibile come scelta, come utopia, come necessità, ma anche come stato o condizione. L’impossibile come attitudine della mente e del corpo attraverso cui spingersi alla ricerca di una propria espressione.

Da sensazioni fisiche ed emotive hanno via via preso corpo le prime suggestioni che ci hanno portato a far nascere il progetto I teatri dell’Impossibile che viene proposto da anni al festival Volterrateatro.

Il progetto di Laboratorio Teatrale nel Carcere di Volterra nasce nell’agosto del 1988, a cura di Carte Blanche sotto la direzione di Armando Punzo, con il contributo della Regione Toscana, della Provincia di Pisa, del Comune di Volterra, dell’USL 5 Volterra.

In 15 anni di lavoro la Compagnia della Fortezza composta dai detenuti-attori del carcere di Volterra ha prodotto circa ogni anno uno spettacolo nuovo. A partire dal 1993 gli spettacoli della Compagnia della Fortezza sono stati rappresentati fuori dal carcere e sono stati invitati nei principali teatri e festival italiani, numerosi inviti sono giunti anche dai maggiori festival internazionali.

Nel 1994 è stato costituito il primo Centro Teatro e Carcere basato su un accordo di programma tra Regione Toscana, Provincia di Pisa e Comune di Volterra. Nel 1998 il dipartimento dello Spettacolo presso la presidenza del Consiglio dei Ministri e l’Ente Teatrale Italiano sono intervenuti con un contributo a sostegno del progetto di laboratorio teatrale all’interno del carcere.

Dal dicembre 1996 Carte Blanche gestisce il Teatro San Pietro di Volterra. Dal 1997 Carte Blanche ha ottenuto la direzione artistica, organizzativa del Festival Volterrateatro nel quale ha proposto per 5 anni consecutivi il progetto I Teatri dell’Impossibile.

Nel 2000 è stato firmato un protocollo d’intesa per l’istituzione del " Centro Nazionale Teatro e Carcere" dal Ministero della Giustizia dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la Regione Toscana, la Provincia di Pisa, il Comune di Volterra e l’Ente Teatrale Italiano.Al fine di perseguire, sviluppare e potenziare l’esperienza sinora maturata, gli organismi firmatari del protocollo d’intesa intendono attuare i seguenti obiettivi:

Nel 2001 il Ministero dello Spettacolo ha riconosciuto a Carte Blanche il Progetto Speciale per il lavoro della Compagnia della Fortezza.

 

Centro nazionale teatro e carcere

 

Il 21 Luglio 2000 è stato firmato un protocollo d’intesa per l’istituzione del "Centro Nazionale Teatro e Carcere" dal Ministero della Giustizia dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la Regione Toscana, la Provincia di Pisa, il Comune di Volterra e l’Ente Teatrale Italiano.Al fine di perseguire, sviluppare e potenziare l’esperienza sinora maturata, gli organismi firmatari del protocollo d’intesa intendono attuare i seguenti obiettivi:

Riconoscimento alla Compagnia della Fortezza del ruolo di esperienza pilota nell’ambito del sistema penitenziario per i risultati raggiunti sia sul piano della funzione trattamentale che sul piano dell’espressione artistica.

Produzione di spettacoli della Compagnia della Fortezza.

Riconoscimento dell’attività teatrale della dignità di lavoro.

Rappresentazioni degli spettacoli della Compagnia della Fortezza all’interno dell’Istituto di Volterra, aperti alla comunità esterna per favorire l’integrazione e la conoscenza delle Previsione di tournèe degli spettacoli della Compagnia secondo modalità previste dall’Ordinamento Penitenziario.

Produzione di attività culturali: incontri, convegni, rassegne, mostre, pubblicazioni.

Collaborazioni con le Università e le scuole.

Confronto con altre significative esperienze artistiche.

Gemellaggi con analoghe realtà straniere attraverso lo scambio di esperienze e di informazioni su "Teatro e Carcere" e ricerca di finanziamenti europei per la realizzazione di progetti comuni.

Promozione e sostegno di spettacoli teatrali negli Istituti della Regione Toscana e del territorio nazionale.

Istituzione dell’Osservatorio Nazionale ed Europeo in collaborazione tra il Ministero dello Spettacolo Ente Teatrale Italiano.

Costituzione di un Comitato Scientifico per l’analisi e la valutazione delle produzioni artistiche e culturali al fine della loro valorizzazione e diffusione. Attività di formazione congiunta tra gli operatori penitenziari ed i collaboratori esterni a livello nazionale e regionale al fine della migliore attuazione del progetto. Attività di formazione teatrale e tecnica dei detenuti-attori. Attività di sensibilità e promozione di opportunità lavorativa per i detenuti-attori nell’ambito della Compagnia della Fortezza e nel programma teatrale italiano.

 

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