La modificabilità del giudicato

 

La essenziale modificabilità del giudicato sulla pena

Università degli Studi di Firenze - Facoltà di Giurisprudenza

Relatore: Prof. Fabrizio Corbi - Tesi di laurea di: Maurizio Milani

 

Le nozioni di irrevocabilità e di giudicato penale

 

L’irrevocabilità e la forza esecutiva di sentenze e decreti penali

La nozione di giudicato penale ed il principio del ne bis in idem

Il mito del giudicato

L’irrevocabilità e la forza esecutiva di sentenze e decreti penali

 

Il complesso delle disposizioni dirette a regolamentare le attività successive alla formazione del giudicato si apre con la definizione, contenuta nell’art. 648 c.p.p., di ciò che si deve intendere per "irrevocabilità" delle sentenze e dei decreti penali.

Come premessa di carattere programmatico può essere ricordata la Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale attualmente in vigore, in cui il "fondamento dell’esecuzione" viene riconosciuto nel "titolo esecutivo costituito dal provvedimento irrevocabile, intendendosi per "provvedimento" ogni atto dell’autorità giudiziaria ordinaria (sentenza, ordinanza, decreto) che non sia più soggetto ad impugnazione ed abbia conseguito il carattere della definitività". Peraltro ai fini della trattazione dei concetti di irrevocabilità e di giudicato penale, si ritiene imprescindibile una lettura combinata della norma ex art. 648 con quella di cui all’art. 650 c.p.p. che disciplina la "esecutività" dei provvedimenti giurisdizionali. Infatti l’art. 648 c.p.p. fissa il presupposto essenziale per l’inizio della fase esecutiva del processo, quantomeno con riferimento ai due provvedimenti normalmente presi in esame: la sentenza ed il decreto penale. Si tratta di provvedimenti di cui non deve essere dimenticata la solennità e la definitività quanto meno a livello processuale, nel senso che il giudice che li emette non può successivamente ritrattarli e sottrarli all’eventuale giudizio di impugnazione che la legge ha in proposito ed inderogabilmente predisposto. Dalla lettura dell’art. 650 c.p.p., si evince poi un secondo dato pacifico che consiste nel far scaturire dalla sopravvenuta irrevocabilità del provvedimento la sua forza esecutiva.

Più analiticamente, il primo comma dell’art. 648 c.p.p. prevede le due condizioni fondamentali affinché si possa parlare di irrevocabilità del provvedimento: deve trattarsi infatti di provvedimento pronunciato in giudizio e contro il quale non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione. Quindi, appartengono a questa categoria tutte le sentenze pronunciate dalla Corte di cassazione (sentenze inoppugnabili per definizione) ed in questo senso l’irrevocabilità scatta dal giorno in cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso (artt. 606 e ss. c.p.p.) e le sentenze impugnabili emesse dai giudici di merito per le quali non è stata proposta impugnazione (ed è quindi inutilmente decorso il termine per proporla) oppure è stata proposta ma dichiarata inammissibile con ordinanza a sua volta non impugnata, oppure, infine, perché l’impugnazione, seppure proposta regolarmente in termini ed accolta, ha esaurito il suo iter (art. 648 c.2 c.p.p.). Al terzo comma dell’art. 648 il codice di procedura si occupa delle condizioni per il verificarsi dell’irrevocabilità dei decreti penali di condanna: fatte le debite differenze fra opposizione ed impugnazione, la disciplina è la stessa di quella dettata per le sentenze. Le differenze rimangono sostanzialmente due: l’opposizione può essere proposta solo nella fase immediatamente successiva all’emissione del decreto stesso e, se ammissibile, il processo proseguirà nelle forme previste dall’art. 461 c.p.p., pervenendosi così ad una sentenza e con la conseguenza che allora dovranno applicarsi i primi due commi; inoltre a decidere sull’ammissibilità dell’opposizione è lo stesso giudice che ha emesso il provvedimento.

L’equiparazione, dal punto di vista sostanziale, fra il decreto penale e la sentenza di condanna è ormai un punto fermo, soprattutto, considerando che il decreto penale, analogamente alla sentenza, definisce il rapporto processuale dichiarando la responsabilità dell’imputato ed applicando la sanzione

(l’art. 506 u.c. del codice di procedura penale abrogato, invece, prevedeva espressamente, nei confronti dei decreti penali di condanna, l’azione c.d. revocatoria, la cui previsione non era ritenuta contrastante con il regime di irrevocabilità del decreto sempreché vi si ravvisasse "un mezzo straordinario di impugnazione"). Fino al momento in cui la sentenza o il decreto penale di condanna non siano divenuti irrevocabili, il processo non può, per converso, considerarsi ancora definitivamente concluso.

Poste queste prime ed indispensabili premesse tecniche, possiamo già individuare il filo conduttore attraverso il quale si passa dalla fase cognitiva a quella esecutiva: le vicende relative all’impugnazione. In proposito si deve ricordare un’altra norma di fondamentale importanza, contenuta nel Libro IX dedicato alle impugnazioni, che, insieme al disposto di cui agli artt. 648 c. 2 e 650 c.p.p., va a costituire quella che possiamo definire la "cerniera" fra la fase di cognizione e quella dell’esecuzione: l’art. 588 c.p.p. dispone infatti la sospensione dell’esecuzione del provvedimento, come regola generale, dal momento della pronuncia e durante i termini per impugnare fino all’esito del giudizio di impugnazione. La norma termina con l’inciso "salvo che la legge disponga altrimenti" che si riferisce alle eccezioni alla regola generale di sospensione, quali quelle di cui agli artt. 318 e ss. (in tema di misure cautelari reali, per quanto attiene al riesame delle ordinanze di sequestro conservativo e preventivo, nonché, prettamente per il sequestro preventivo, per quanto riguarda l’eventuale appello e ricorso per cassazione), all’art. 479 c. 2 (per quanto riguarda il ricorso per cassazione avverso l’ordinanza che dispone la sospensione del dibattimento), all’art. 573 c. 2 (relativa all’impugnazione per i soli interessi civili in rapporto alle disposizioni penali del provvedimento impugnato), all’art. 666 c. 7 (in tema di impugnazioni avverso le ordinanze del giudice dell’esecuzione), all’art. 680 c. 3 c.p.p. (per l’appello al tribunale di sorveglianza contro le sentenze concernenti le disposizioni che riguardano le misure di sicurezza). In questi termini si può notare come l’acquisto della caratteristica dell’irrevocabilità sia strettamente, per non dire direttamente, connesso alla più o meno residua possibilità di proporre impugnazione: l’irrevocabilità del provvedimento, quando questo è impugnabile, si perfeziona per l’inerzia dei titolari del diritto di doglianza, mentre ad impugnazione proposta l’attenzione si sposterà sugli altri provvedimenti che scandiscono le fasi iniziali dell’impugnazione.

A questo punto si può ben delineare l’iter che può percorrere una sentenza di primo grado nei confronti della quale sia esperibile appello. Se l’appello non viene proposto per inerzia dei titolari (né, ovviamente, viene proposto ricorso immediato per cassazione ex art. 569 c.p.p.), la sentenza diviene irrevocabile il giorno in cui scadono i termini per impugnare. Se l’appello è invece proposto in termini ma è inammissibile, l’irrevocabilità sopraggiunge al passaggio in giudicato dell’ordinanza con cui il giudice ad quem dichiara l’inammissibilità dell’appello. Se è stato proposto ricorso per cassazione avverso quest’ultimo provvedimento allora la sentenza diviene irrevocabile il giorno stesso in cui la Corte pronuncia ordinanza di rigetto o inammissibilità del ricorso stesso.

Per quanto riguarda la sentenza emessa in grado di appello, se avverso la stessa non è stato proposto ricorso per cassazione l’irrevocabilità giunge allo scadere dei termini per proporre ricorso. Diversamente la sentenza diventa irrevocabile il giorno in cui la Corte pronuncia il rigetto o l’inammissibilità del ricorso in questione. Quanto al meccanismo che collega l’irrevocabilità alla dinamica dell’impugnazione, quindi, non si ha, nelle varie ipotesi appena elencate, alcuna differenza se non quella del momento in cui si determina l’irrevocabilità stessa. 

Il secondo passaggio logico del meccanismo che porterà poi alla concreta esecuzione del provvedimento e della sanzione in esso contenuta è rappresentata dal legame fra irrevocabilità ed esecutività di sentenze e decreti penali. Si tratta peraltro di un legame non coincidente in quanto lo stesso art. 650 c.p.p. fa emergere l’esistenza di due tipi di eccezione alla pretesa regola della coincidenza tra irrevocabilità ed esecutività, il primo attraverso un rinvio recettizio ("salvo che sia diversamente disposto"), il secondo nominatim in riferimento alle sentenze di non luogo a procedere: in questi casi, dandosi esecuzione anche alla sentenza non irrevocabile, si ha la conferma di una sensibile, anche se non totale, sfasatura fisiologica fra le due nozioni. 

Dell’esecutività in particolare, si è già detto che se ne occupa l’art. 650 c.p.p., peraltro secondo un ordine di trattazione che riflette l’art. 648 c.p.p. (da qui la necessità di una lettura combinata delle due norme): al primo comma il legislatore si occupa delle sentenze e dei decreti penali, facendo dipendere la loro forza esecutiva appunto dalla sopraggiunta irrevocabilità; al secondo comma si occupa invece delle sentenze di non luogo a procedere le quali non rientrano nella categoria prevista dal primo comma dell’art. 648 c.p.p., in quanto emesse all’esito dell’udienza preliminare. Ciò non toglie che ad esse non possa essere attribuita forza esecutiva: le stesse infatti, ai sensi dell’art. 650 c. 2 c.p.p., diventano esecutive quando cessano di essere soggette ad impugnazione: la ragione per cui il legislatore non ha ritenuto di dar loro la caratteristica dell’irrevocabilità risiedendo nel fatto che si tratta di provvedimenti sottoponibili a revoca ai sensi degli artt. 434 e ss. c.p.p. e sarebbe stato quantomeno contraddittorio definire "irrevocabile" un provvedimento per sua natura "revocabile"

. Deve peraltro considerarsi pacifico che la sentenza emessa ex art. 425 c.p.p., ove in concreto manchino le condizioni per la sua revocabilità, impedisce ugualmente, al pari dei provvedimenti di cui agli artt. 648 e 649 c.p.p. formalmente preclusivi di un secondo giudizio, l’esercizio dell’azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona (in ossequio al principio generale processuale del ne bis in idem di cui al paragrafo seguente). Quando poi tale sentenza è stata emessa per estinzione del reato, l’effetto preclusivo è irreversibile, al pari di quello di cui all’art. 649, non potendosi configurare neppure in via ipotetica la sopravvenienza di presupposti per un nuovo esercizio dell’azione penale. 

A conclusione dell’argomento si rendono ancora necessarie alcune considerazioni circa il contenuto normativo di cui agli artt. 648 e 650 del codice di procedura penale. Anzitutto occorre analizzare l’inciso iniziale di cui al primo comma dell’art. 650 c.p.p. che si riferisce al fenomeno della c.d. "esecuzione provvisoria delle sentenze", fenomeno che non deve essere inteso come eccezione rispetto alla regola generale stabilita dallo stesso comma, ma come un fenomeno riguardante casi riconducibili a provvedimenti del giudice immediatamente esecutivi, ancorché non irrevocabili, che hanno trovato altrove la loro regolamentazione. La previsione dell’esecutività delle sentenze, indipendentemente dall’intervenuta irrevocabilità, riguarda infatti un comando che, seppur contenuto in un provvedimento di condanna, non ha affatto un contenuto sanzionatorio penale: può trattarsi di una decisione che attiene ai "capi civili" della sentenza e a tal proposito, infatti, l’art. 540 c.p.p. prevede che la condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno venga dichiarata provvisoriamente esecutiva, a richiesta della parte civile, quando ricorrono giustificati motivi, stabilendo inoltre, al secondo comma, la immediata esecutività della condanna al pagamento della provvisionale ex art. 539 del codice di procedura; ma può anche trattarsi di una decisione concernente le misure di sicurezza la cui applicazione provvisoria può essere disposta in ogni stato e grado del procedimento al verificarsi delle condizioni previste dall’art. 312 del codice di procedura. Sempre in tema di "esecuzione provvisoria", rileva un’ultima ipotesi attinente, questa, non ad un provvedimento di condanna bensì di proscioglimento: si tratta della sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere con cui venga applicata, all’imputato in stato di custodia cautelare, la misura del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario ai sensi dell’art. 300 c. 2 c.p.p.: anche in questo caso tuttavia il giudice provvede a norma dell’art. 312 c.p.p. succitato.

La seconda considerazione riguarda l’apparente esclusione dalla disciplina dettata dagli articoli in questione, dei provvedimenti diversi dalle sentenze e dai decreti penali di condanna. Posto che sono in particolare questi ultimi provvedimenti quelli che incidono più profondamente e definitivamente sulla situazione dell’imputato, è pur sempre vero che, anzitutto, anche le sentenze di proscioglimento hanno un effetto rilevante sul piano dell’esecuzione quando con esse vengono per esempio disposte misure di sicurezza personali detentive che indubbiamente incidono sullo stato del prosciolto. Inoltre il disposto dell’art. 648 c.p.p. sembra anche incompleto laddove si considera che la caratteristica dell’irrevocabilità e della forza esecutiva è appannaggio anche di altri provvedimenti aventi, ad esempio, la forma dell’ordinanza per i quali è prevista impugnazione (basti pensare ai provvedimenti limitativi della libertà personale emessi in fase di indagini preliminari). Ciò posto, il problema non può essere risolto in altro modo se non nel senso di "adeguare" la nozione di irrevocabilità e di forza esecutiva ai vari singoli provvedimenti. In questo modo è dato scoprire che, nonostante la nozione di irrevocabilità abbracci tutti i provvedimenti giurisdizionali purché a contenuto decisorio e non meramente ordinatorio, la stessa si atteggia in maniera diversa a seconda che la si consideri in relazione alle sentenze e ai decreti penali o a tutti gli altri provvedimenti comunque impugnabili. Nel primo caso, infatti, la irrevocabilità segna essenzialmente la non ripetibilità, nelle forme ordinarie, del giudizio che ha portato all’accertamento del fatto, della responsabilità e della pena. Nel secondo caso, invece, la irrevocabilità non impedisce che il giudizio venga nuovamente celebrato ma segna, semplicemente, la necessità che questo nuovo giudizio non derivi dalla mera riproposizione di una richiesta già rigettata e basata sui soliti elementi; dall’altro lato l’irrevocabilità determina la impossibilità che tale nuovo giudizio si svolga nelle forme dell’impugnazione, in quanto la richiesta suddetta può essere presentata solo di fronte allo stesso giudice che ha emesso il provvedimento.

 

La nozione di giudicato penale ed il principio del ne bis in idem

 

I concetti di irrevocabilità ed esecutività dei provvedimenti giurisdizionali a carattere sanzionatorio devono essere ricondotti nel concetto più generale e avvolgente di "giudicato penale". È emblematico, in tal senso, il fatto che il legislatore abbia utilizzato quale intitolazione del Titolo I del Libro X del codice di procedura penale l’espressione "Giudicato". In merito al concetto di giudicato penale si suole citare il latinetto "res judicata pro veritate habetur", oppure, per maggiore praticità di linguaggio, si afferma che esso "copre il dedotto ed il deducibile". Il giudicato penale coincide, insomma, con tutto ciò che la sentenza o il decreto penale sono volti ad accertare in via principale, ovvero: l’esistenza o meno di un fatto; la configurazione o meno di tale fatto come reato; l’esistenza o meno della responsabilità del soggetto in ordine a quel fatto-reato; infine l’eventuale irrogazione di una sanzione penale a carico del soggetto passivo del procedimento.

Orbene, in relazione a questi tipi di accertamento si parla di giudicato penale per indicare una situazione che è non più modificabile. Il c.d. "passaggio in giudicato" del provvedimento penale conclusivo non vuole significare altro che ciò che quel provvedimento ha accertato non è più in discussione e, tantomeno, può essere oggetto di nuove valutazioni alla luce di fatti e circostanze che potevano essere dedotti in giudizio e non sono stati dedotti (fatto salvo, naturalmente, l’istituto della revisione). La sentenza (o il decreto) passata in giudicato disegna, per così dire, un’area intangibile che preclude al giudice di pervenire ad una nuova decisione nei confronti della stessa persona sulla medesima questione già giudicata irrevocabilmente.

Al giudicato penale vengono infatti attribuiti due effetti: uno di carattere impositivo in forza del quale la sentenza penale definitiva opera su di un piano propriamente sostanziale nei soli casi disciplinati dagli artt. 651-654 c.p.p., laddove è previsto che faccia stato nell’ambito di giudizi civili, amministrativi e disciplinari, vincolando il giudice che intervenga sulla medesima questione già risolta dalla sentenza penale ad uniformarsi alla regola di giudizio in questa espressa; l’altro, di carattere impeditivo (e qui la dottrina parla comunemente di "funzione positiva" del giudicato) che trova la sua collocazione nell’art. 649 c.p.p. dove è sancito il divieto di ogni nuovo processo penale de eadem re. Gli effetti suddetti si producono ogni volta che si è in presenza di un giudicato penale e la ratio di tutto questo, soprattutto alla luce della c.d. funzione impositiva del giudicato, è precisamente quella di evitare che un soggetto sia, almeno teoricamente, sottoponibile ad una serie praticamente illimitata di giudizi sul medesimo fatto. L’effetto che, non a caso, più di tutti contraddistingue il giudicato penale è ravvisato nel principio del divieto del ne bis in idem di cui al già citato art. 649 del codice di procedura. In questo modo si è individuata la funzione del giudicato nel garantire non tanto quella certezza oggettiva che si possa prevedere in anticipo la valutazione giuridica dei comportamenti possibili, bensì una certezza soggettiva in quanto il giudicato costituirebbe un espediente pratico che sottrae il singolo all’eventuale arbitrio persecutorio ed incondizionato dell’organo punitivo.

Nel sistema italiano, infatti, la garanzia del suddetto divieto si salda in modo particolare con la dinamica del giudicato, laddove, in altri ordinamenti, essa appare piuttosto come un ostacolo di carattere generale (ancorché non immune da eccezioni) al diritto di impugnare le sentenze penali assolutorie (nella Costituzione degli Stati Uniti d’America è enunciato il principio del c.d. double jeopardy il quale mira ad evitare che nel corso dello stesso iter processuale il prosecutor (rappresentante della pubblica accusa) possa compiere più di un tentativo diretto ad ottenere una sentenza di condanna: nel caso di assoluzione o acquittal in base al principio del double jeopardy il prosecutor non può proporre impugnazione).

Al fine di trattare l’argomento più nei particolari, è necessario anzitutto individuarne i limiti. In questo senso la legge ci pone in condizione di rilevare due eccezioni all’applicabilità del principio ex art. 649 del codice di procedura penale. La prima riguarda le sentenze di proscioglimento per difetto di condizione di procedibilità: l’art. 649 c.1 c.p.p. pone espressamente, infatti, come eccezione l’ipotesi prevista dall’art. 345 c.p.p. secondo il quale una nuova azione penale per il medesimo fatto e contro la medesima persona non può essere impedita allorché sopravvenga quella condizione di procedibiità in precedenza accertata come mancante dalla sentenza di proscioglimento. La seconda eccezione è sempre prevista dal primo comma dell’art. 649 c.p.p. e concerne la sentenza che dichiari l’estinzione del reato per morte dell’imputato: è chiaro come, anche qui, l’esercizio di una nuova azione penale per il medesimo fatto e nei confronti della medesima persona, non sia impedito qualora si accerti che la morte dell’imputato era stata erroneamente dichiarata.

In entrambi i casi, tuttavia, si è in presenza di due sentenze di fatto inidonee a passare in giudicato in quanto non investono il merito della questione: si ricordi, in questo senso, che l’art. 89 del codice di procedura abrogato affermava espressamente che qualora fosse stato accertato che la morte dell’imputato era stata erroneamente dichiarata, la relativa sentenza di proscioglimento doveva considerarsi come "non pronunciata"; analogamente, per quanto riguarda il proscioglimento per difetto di una causa di procedibilità, si osserva come querela, istanza, richiesta ed autorizzazione a procedere, in qualunque modo vengano configurate, sono, sotto il profilo processuale, presupposti e non condizioni, per cui la conseguente pronuncia può essere definita come "meramente processuale". È sempre dalla lettura dell’art. 649 c.p.p. che è dato ricavare i requisiti necessari per l’applicazione del divieto del secondo giudizio. La norma, in particolare, condiziona l’operatività della garanzia in questione alla sussistenza, nelle diverse vicende, del requisito del c.d. "medesimo fatto". Nessuna difficoltà nel convenire, anzitutto, che il legislatore, visto il chiaro tenore della norma, abbia certamente inteso far riferimento al "fatto concreto" oggetto del primo giudizio nella sua unità sia materiale, avuto riguardo al tempo e al luogo di avvenimento, che giuridica, avuto riguardo al capo di imputazione. La questione si complica quando invece si tratta di definire il concetto di "medesimo fatto", sulla cui analisi, non a caso, giurisprudenza e dottrina si sono confrontati da sempre, fin dalla vigenza dell’art. 90 del Codice Rocco il cui tenore è stato pedissequamente riportato nell’art. 649 del codice attualmente in vigore.

La giurisprudenza assolutamente maggioritaria ritiene che il concetto di fatto, anzitutto, coincida con quello che, in teoria generale del reato, viene definito come "elemento materiale", costituito a sua volta da "condotta", "evento" e "nesso di causalità". Si ritiene che proprio la presenza di tante variabili abbia indotto la Corte di cassazione a sostenere un’interpretazione rigorosa nel senso di pretendere la staticità di componenti per loro stessa natura invece variabili e, quindi, di non considerarne uno solo ai fini della individuazione del medesimo fatto, bensì tutti e tre nella loro unità. La dottrina prevalente ritiene, invece, che il fatto comprenda solo la condotta dell’agente (attiva od omissiva) con esclusione di ogni altro elemento della fattispecie legale (come le circostanze). A questo orientamento dottrinale si è opposto, da parte di altra dottrina, che la scomposizione del fatto in condotta ed evento, nonché la identificazione del primo con la seconda portino a conseguenze aberranti dal punto di vista della giustizia sostanziale. Basti pensare al caso, per esempio, di chi sia stato condannato per getto pericoloso di cose ex art. 674 c.p.: il giudicato che interviene in relazione a quella condanna dovrebbe impedire, stando all’orientamento dottrinale testé criticato, un eventuale nuovo processo per omicidio volontario, laddove si accerti che l’autore aveva inteso colpire la testa di una persona, essendosi indubbiamente la condotta esaurita nel lancio pericoloso del suddetto vaso. A fronte di queste obiezioni, nell’alveo dello stesso filone interpretativo della dottrina prevalente, si è venuto a collocarsi un orientamento in parte divergente che identifica nel fatto la condotta in relazione al suo oggetto fisico (laddove, evidentemente, ne esista uno, come per i reati c.d. materiali), ritenendo che le condotte di carattere transitivo devono essere necessariamente individuate dall’oggetto su cui vertono. Sostanzialmente incontroversa è invece l’interpretazione della espressione "neppure se questo [il "medesimo fatto"] viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze". Il richiamo al "titolo" concerne la qualificazione giuridica o nomen iuris della fattispecie (con la conseguenza che non potrà essere nuovamente processato per omicidio doloso chi sia stato già giudicato responsabile con provvedimento irrevocabile per omicidio colposo).

Per quanto riguarda l’espressione "grado", con essa si fa riferimento a tutte quelle situazioni che pur senza variare il titolo del reato, ne determinano una maggiore o minore gravità, come, per esempio, il passaggio da fattispecie tentata a fattispecie consumata o da fattispecie di pericolo a fattispecie di danno. È, quest’ultimo, il caso del c.d. reato progressivo e a tal proposito si richiama il passo della Relazione al progetto preliminare al c.p.p. del 1930 in cui si legge che il ne bis in idem riguarda anche il caso in cui sia sopravvenuto un evento, prima non verificatosi, che lo renda più grave, come, ad esempio, il passaggio dal tentativo di omicidio all’omicidio consumato o dal delitto di pericolo al delitto di danno, situazioni che esemplificherebbero proprio il caso di progressione criminosa in cui si realizza un’offesa di gravità crescente al medesimo bene giuridico. Si osserva, infatti, che la morte è un evento più grave ma non diverso da quello delle lesioni, così argomentando dal raffronto tra il delitto preterintenzionale (artt. 43 e 586 c.p.), in cui si ha un semplice mutamento dell’evento in termini di gravità, ed il delitto diverso (artt. 83 e 586 c.p.) in cui si ha invece un vero e proprio nuovo reato, distinto da quello originario nei suoi elementi propriamente costitutivi.

Infine, il richiamo all’espressione "circostanze" si riferisce ai c.d. accidentalia delicti o delitti circostanziati, appunto, che di per sé non mutano il concetto di medesimo fatto ai fini del divieto di un secondo giudizio.

L’art. 649 c.2 c.p.p. predispone il rimedio ai casi in cui si ravvisi una violazione del principio del ne bis in idem stabilendo che il giudice, in ogni stato e grado del processo, pronuncia sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo. Alla prima lettura appare pacifico come il giudice che rilevi d’ufficio l’avvenuta deroga al principio de quo (oppure davanti al quale viene evidenziata dallo stesso imputato con la c.d. exceptio rei iudicate) pronuncerà sentenza di non luogo a procedere, se la decisione interviene fino all’udienza preliminare compresa; di proscioglimento, se interviene successivamente. Se invece la deroga è rilevata in sede di cassazione viene seguita una diversa impostazione in omaggio al c.d. favor rei. Ai sensi del combinato disposto, infatti, dagli artt. 620 lett. h e 621 c.p.p., disciplinanti rispettivamente l’annullamento senza rinvio e gli effetti dello stesso annullamento, è dato ricavare che la Corte pronuncerà sentenza di annullamento senza rinvio se vi è contraddizione (assoluzione e condanna o viceversa) fra la sentenza o ordinanza impugnata ed un’altra anteriore concernente la stessa persona ed il medesimo oggetto pronunciata dallo stesso o da un altro giudice penale, ordinando così l’esecuzione del primo provvedimento. Ma se si tratta di due decisioni di condanna, ed è qui che viene perseguito il succitato favor rei, allora la Corte ordinerà l’esecuzione del provvedimento che ha inflitto la condanna meno grave, determinata ai sensi dell’art. 669 c.p.p..

 

Il mito del giudicato

 

Il declino della importanza del giudicato penale è stato inversamente proporzionale al consolidamento della dignità processuale della fase esecutiva. L’affermazione, negli Stati moderni, della "sacralità del giudicato" aveva l’inevitabile conseguenza di considerare la fase dell’esecuzione penale come una mera situazione di fatto immeritevole di qualsiasi disciplina giuridica. Il Codice Rocco del 1930 prevedeva solo due concessioni a quelle che erano le nuove istanze di adattamento della sanzione alla personalità del condannato: le misure di sicurezza, peraltro risultato di un compromesso in quanto la pena fu mantenuta come misura principe con i caratteri della tradizione retributiva; e l’istituto della liberazione condizionale, già risalente al Codice Zanardelli, la cui competenza fu attribuita alla Corte d’appello e cioè ad un’autorità giudiziaria operante normalmente nella sfera della cognizione. La legge processuale dell’epoca prevedeva sì un "giudice degli incidenti" competente a conoscere delle possibili controversie insorgenti nel corso della esecuzione del comando; prevedeva anche che il pubblico ministero, in funzione di organo amministrativo, vigilasse sulla esecuzione della pena detentiva; prevedeva, infine, un giudice di sorveglianza con compiti essenzialmente di vigilanza sulla condizione e le strutture penitenziarie. Tuttavia, questo assetto normativo non era ancora sufficiente a far assurgere all’esecuzione penale "formale" una natura giurisdizionale (nessun problema si poneva poi per l’esecuzione "in concreto" la cui natura amministrativa non era contestata da alcuno).

Il primo momento di crisi del sistema sanzionatorio penale delineato dal codice di procedura del 1930 coincide con l’entrata in vigore, nel 1948, della normativa costituzionale ed in particolare con il contenuto dell’art. 27 c. 3 Cost. Infatti è con la Carta costituzionale che si assiste alla definitiva "promozione" della fase esecutiva alla sfera del procedimento penale generalmente inteso e quindi al riconoscimento della sua piena dignità processuale (questo grazie all’estensione anche alla fase esecutiva delle regole minime di giurisdizionalità costituite dall’intervento del giudice ordinario; dal diritto alla difesa tecnica e all’autodifesa; dal diritto al contraddittorio; dalla motivazione e ricorribilità per cassazione dei provvedimenti decisori emessi dal giudice nel procedimento - estensione poi sancita a chiare lettere soltanto dalla legge delega del 3 aprile 1974 n. 108, seguita dal progetto preliminare del 1978 e dall’ultima legge delega del 1987 da cui è scaturito il codice del 1988 a tutt’oggi in vigore). Ma è con l’art. 27 c.3 che la Costituzione pone in radicale discussione quello che ad oggi possiamo ormai definire il "mito del giudicato". Tuttavia, solo successivamente si coglieranno i segni evidenti di questo radicale mutamento. Il 4 luglio del 1974, infatti, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 204, ebbe a dichiarare l’illegittimità dell’art. 43 R.D. 28 maggio 1931 n. 602 (disp. att. c.p.p. del 1930) che attribuiva al Ministro di Grazia e Giustizia la facoltà di concedere, con proprio decreto, la liberazione condizionale prevista e regolata dall’art. 176 del codice penale. La Corte pose a fondamento di tale radicale decisione tutta la portata innovativa del già citato comma 3 dell’art. 27, affermando che doveva (e, oggi a maggior ragione, deve) ritenersi esistente un diritto del condannato ad un riesame in ordine al protrarsi della pretesa punitiva "al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata abbia o meno assolto al suo fine rieducativo". La Corte mosse, anzitutto, dalla constatazione di una disarmonia del sistema laddove la concessione del beneficio dipendeva da un organo, il Ministro di Grazia e Giustizia appunto, la cui natura "esecutiva" contrastava palesemente con il quadro di tutele di carattere, invece, "eminentemente giurisdizionale" a cui lo stesso istituto della liberazione condizionale doveva essere ricondotto. Ciò posto, la Corte rilevava, altresì, che la discrezionalità di cui godeva il Ministro era oltretutto talmente ampia "da poter disattendere il parere espresso, sulla istanza per l’applicazione del beneficio, dall’organo giudiziario [il giudice di sorveglianza], il solo idoneo, per le funzioni attribuitegli dalla legge nel processo esecutivo della pena, a poter valutare l’effettiva esistenza in concreto delle condizioni oggettive e soggettive [...] per la concessione di esso beneficio". In questo stesso orientamento hanno trovato la loro collocazione anche le misure di sicurezza, dato che le stesse si sono sempre presentate fin dalla loro introduzione nel sistema con una finalità di prevenzione che bene si accordava con una visione educativa della loro applicazione. Deve tuttavia sottolinearsi che in ordine a questi ultimi provvedimenti la Corte costituzionale non mosse dall’art. 27 c. 3 Cost. (come lo aveva fatto per le pene detentive e come ci si sarebbe a maggior ragione aspettato per le misure di sicurezza) bensì dall’art. 3 Cost. e dal principio di ragionevolezza individuando nel sistema delle presunzioni di pericolosità e dei minimi di durata delle misure una violazione al suddetto principio che portava ad una ingannevole parità di trattamento fra internati, ignorando le innegabili diversità fra i vari casi concreti.

Fu per merito di questo ed altri interventi della Corte che il legislatore si adeguerà al precetto costituzionale della finalità rieducativa della pena e questo in aperto contrasto con quello che era stato, fino a non molto tempo prima, un principio più che consolidato: quello della inderogabilità dell’esecuzione integrale della pena.

Il passo immediatamente successivo fu infatti compiuto dal legislatore con la L. 26 luglio 1975 n. 354 recante le norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà (nonché con il regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. 29 aprile 1976 n. 431). La riforma sostituì al giudice di sorveglianza del codice del 1930, la nuova figura del magistrato di sorveglianza e delineò agli artt. 71 e ss. ord. penit. il "procedimento di sorveglianza" secondo quel nuovo assetto normativo già visto precedentemente e che sarebbe stato poi interamente recepito nel codice del 1988.

Ma la riforma dell’ordinamento penitenziario introdusse anche una serie di istituti o "misure alternative" che, affiancandosi a quelle già previste della sospensione condizionale della pena e della liberazione condizionale, hanno portato non solo ad una totale rivisitazione della nozione e portata del giudicato, ma soprattutto ad una profonda modificazione del concetto di esecuzione penale in generale. Gli interventi legislativi successivi e segnatamente la L. 24 novembre 1981 n. 689, recante modifiche al sistema penale e introduttiva delle sanzioni sostitutive, e la L. 10 ottobre 1986 n. 663, recante modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario (c.d. "Legge Gozzini") e abrogativa del c.d. sistema delle presunzioni di pericolosità sociale (fino a giungere alla recente L. 27 maggio 1998 n. 165, la c.d. "Legge Simeone" o "Legge svuota-carceri" recante modifiche non solo alla legge istitutiva dell’ordinamento penitenziario ma anche all’art. 656 c.p.p.), sono stati compiuti tutti all’insegna di un’interpretazione assolutamente elastica del giudicato penale.

Ad oggi le argomentazioni sul giudicato non possono non essere ricondotte nel più generale tema della c.d. "crisi della sanzione", laddove per sanzione si intende essenzialmente quella a carattere detentivo ed in particolare la detenzione in carcere. A fronte degli orientamenti giurisprudenziali in argomento e considerando le enormi modifiche apportate al sistema sanzionatorio originario da parte del codice del 1988 e della legislazione speciale in materia, non ha più molto senso parlare di pena in termini di prevenzione generale, di certezza e di effettività, di retribuzione. È invece senz’altro molto più realistico parlare di pena in termini di prevenzione speciale, di flessibilità e di finalità rieducativa della pena.

Non solo il sistema sanzionatorio, ma anche il sistema commisurativo della pena ex art. 133 c.p. è andato incontro ad una vera e propria "polverizzazione". I paradigmi commisurativi della sanzione a disposizione del giudice della cognizione, infatti, sono andati nel tempo moltiplicandosi (all’ "Impero centrale" governato dall’art. 133 c.p. si è sostituita una "balcanizzazione" dei modelli commisurativi da cui è derivata una apparentemente perenne incertezza commisurativa frutto di quell’incessante processo di trasformazione della pena in sede segnatamente esecutiva). Peraltro la Corte stessa aveva sempre sottolineato il "finalismo rieducativo" a proposito della fase esecutiva e non anche di quella cognitiva, limitandosi essenzialmente al trattamento sanzionatorio (questo per costante giurisprudenza fin da prima della già citata sentenza del 1974 n. 204). Per converso, la Corte aveva sempre valutato separatamente il momento umanitario rispetto a quello educativo ed era infatti giunta alla conclusione che "l’imposizione del principio di umanizzazione" deponesse "a conferma del carattere [essenzialmente] afflittivo e retributivo della pena" così come irrogata dal giudice della cognizione. La stessa "concezione polifunzionale" della pena sarebbe poi da considerare, in definitiva, come una combinazione delle diverse teorie accolta dalla Corte, se non altro al fine di esimersi dalla scelta di una delle suddette tesi. Ma con un’altra significativa sentenza, la n. 313 del 2 luglio 1990, la Corte afferma che la rieducazione "lungi dal rappresentare una generica tendenza riferita solo al trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo significato ontologico, accompagnandola da quando nasce, fino a quando in concreto si estingue". Si tratta, anche in questo caso, di una decisione storica con cui sembra che la Corte abbia voluto tracciare oltre che una teoria "generale" della pena, ed in questo senso non discostandosi dall’orientamento da sempre avuto, anche una teoria della "commisurazione" della pena, ed in questo rivoluzionando non poco lo stesso consolidato orientamento in ordine alla funzione (costituzionale) della pena. È in relazione proprio a questa sentenza che alcuni autori hanno parlato di una "polverizzazione" del sistema di commisurazione della pena ex art. 133 c.p..

Tutto ciò premesso, appare senz’altro legittimo interrogarsi sull’attualità, se non addirittura sulla utilità, del giudicato penale. Fino a non molto tempo fa in dottrina si affermava che "le norme che regolano l’esecuzione materiale della condanna appartengono al diritto amministrativo (carcerario, di polizia, di finanza)". L’esecuzione penale veniva qualificata come attività giudiziaria (una sorta di via di mezzo fra attività amministrativa e attività giurisdizionale) e si affermava che nella fase esecutiva si aveva un rapporto processuale la cui sostanziale irrilevanza era dovuta all’assenza di una funzione giurisdizionale come accertamento imparziale delle norme giuridiche per l’applicazione di queste al caso concreto. Tuttavia la concezione classica del giudicato penale non ha più, a tutt’oggi, una propria giustificazione. In piena aderenza, invece, a quella che può veramente definirsi la essenziale modificabilità del giudicato penale, si pongono gli interventi interpretativi sul detto giudicato in sede esecutiva.

Le possibilità di incidenza, soprattutto alla luce degli ultimi interventi legislativi in materia, da parte degli organi competenti, in particolare la magistratura di sorveglianza, riguardano ormai tutti i punti salienti della sentenza di cognizione: la durata della pena, le varie modalità di detenzione, l’espiazione in forma alternativa, il rinvio dell’esecuzione, le misure di sicurezza. Ecco come a seguito di questi interventi profondamente modificativi l’efficacia del giudicato viene sistematicamente vanificata.

Ciò che ormai sembra veramente indiscutibile è che l’ordinamento italiano considera l’esecuzione della sentenza, ed in particolare della pena inflitta, un momento della vicenda processuale nel quale il soggetto destinatario deve essere sottoposto ad una verifica e ad un controllo costanti al fine preminente del suo recupero. La finalità rieducativa, come sancita nel dettato costituzionale, svolge un ruolo oggi più che mai prepotente nei confronti del dogma del giudicato, la cui unica utilità sembra ormai rappresentata dal costituire un punto di partenza, un presupposto non vincolante di quello che sarà invece il periodo di concreta espiazione della pena.

 

 

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