La modificabilità del giudicato

 

La essenziale modificabilità del giudicato sulla pena

Università degli Studi di Firenze - Facoltà di Giurisprudenza

Relatore: Prof. Fabrizio Corbi - Tesi di laurea di: Maurizio Milani

 

La teoria generale della pena

 

Il fondamento della pena

La teoria della retribuzione

La teoria della prevenzione generale

La teoria della prevenzione speciale

Vecchie e nuove prospettive: la pluridimensionalità della pena

L’art. 27 della Costituzione ed il finalismo rieducativo

Il fondamento della pena

 

Lasciando da parte le teorie forse di più lunga tradizione ma che a tutt’oggi non trovano felice riscontro - in particolare le teorie della emenda e della espiazione, già enunciate da Platone per cui la pena è "medicina dell’anima", risalenti ai giuristi romani che proiettavano la pena verso la redenzione morale e la purificazione del reo

- tre sono le concezioni che hanno nel tempo variamente improntato tutto il diritto penale in genere: la teoria della retribuzione (c.d. assoluta), la teoria della prevenzione generale (o della intimidazione) e la teoria della prevenzione speciale. Nonostante gli assunti, in alcuni casi diametralmente opposti, da cui le succitate concezioni muovono, si deve premettere, come dato inamovibile, la intrinseca "afflittività" della pena; afflittività che nello sviluppo delle varie civiltà, ha assunto la forma della vendetta, poi del "respingimento comunitario", fino alla privazione o diminuzione di singoli beni individuali come il patrimonio, l’onore, la libertà.

Quindi un primo dato pacifico è quello per cui la pena costituisce una "costante" riscontrabile in ogni periodo storico, le variabili essendo invece costituite dalla concezione, dalla tipologia e dalla esecuzione della pena.

 

La teoria della retribuzione

 

Nonostante le premesse fondamentalmente metagiuridiche di questa teoria - Kant su tutti ha influenzato moltissimo le elaborazioni successive della "idea-base retributiva" affermando che punire il colpevole risponde ad un imperativo categorico che trova la sua giustificazione nella coscienza umana e non in una qualsiasi utilità sociale esterna - i sostenitori dell’essenza unicamente retributiva della pena difendono l’assunto per cui al bene segue il bene e al comportamento antisociale la reazione sociale negativa. L’uomo è responsabile delle sue azioni ed è quindi giusto che, per il bene e per il male, gliene derivi conseguenza. La pena viene applicata quia peccatum est cioè per effetto del reato commesso. La teoria in oggetto ha, di fatto, permesso di ottenere autentiche conquiste di civiltà soprattutto sotto l’aspetto della retribuzione giuridica - la retribuzione "morale" rimanendo ancorata ai presupposti spiritualistici ed esistenziali poco fa accennati. La retribuzione giuridica infatti individua il fondamento della pena non nella coscienza umana bensì nell’ordinamento giuridico, con la conseguenza che la sanzione non serve solo a "retribuire" il male commesso ma anche a riaffermare l’autorità della legge che è fonte della sanzione stessa.

Le conquiste a cui si accennava poc’anzi e che da sole potrebbero giustificare il principio retributivo anche di fronte alle incisive limitazioni e deroghe derivanti dalle altre concezioni, sono, oltre alla afflittività come comune denominatore, essenzialmente quattro: a) la personalità della pena, per cui il corrispettivo del male non può che essere applicato all’autore del male stesso; b) la determinatezza e c) la proporzionalità della pena per cui la legge deve concretamente prevedere e "determinare" una pena "proporzionata" al male commesso; d) infine l’inderogabilità della pena, nel senso che la stessa deve essere sempre e necessariamente scontata (questo è forse veramente l’unico aspetto ormai completamente rovesciato dagli sviluppi legislativi più recenti).

 

La teoria della prevenzione generale (o della intimidazione)

 

A seguito della graduale presa di coscienza che il crimine è espressione di un male non solo del singolo ma, in termini più generali, della società, si avvertiva - siamo nel periodo illuministico - la necessità di distogliere non più solo il singolo ma tutti i consociati dal compiere attività criminose. La pena ha un fondamento utilitaristico giacché essa mira a distogliere i consociati dal compiere atti criminosi. Fra i primi ad occuparsi di individuare tale fondamento "utilitaristico" ed in particolare "intimidatorio" della pena, sono senz’altro da annoverare J. Bentham, L. Feuerbach e, per l’Italia, G. D. Romagnosi. Esiste però anche una più moderna dottrina promossa da studiosi come l’Andenaes ed il Packer che è venuta accentuando, accanto all’effetto intimidatorio, altre funzioni. In particolare tre sarebbero gli effetti che la pena produrrebbe secondo questo indirizzo: un effetto di intimidazione, appunto; un effetto di moralizzazione ed educazione, avvicinandosi così a quelli che sarebbero poi stati i contenuti delle più moderne concezioni; infine, un effetto di orientamento sociale attraverso la creazione di standards morali che sarebbero rispettati anche da coloro che, in prima istanza, rifiutano il comando normativo: in questo senso, per esempio, Walker ha affermato che la "legislazione di una generazione può diventare la morale della generazione successiva".

 

La teoria della prevenzione speciale

 

Rispetto alle due concezioni appena delineate, la teoria in oggetto, affermatasi solo nel secolo scorso con la Scuola positiva e sviluppata poi dalla Nuova difesa sociale, muove da un piano opposto: l’atteggiarsi del singolo, e non della società, nei confronti della minaccia della pena. Sia sul piano teorico che eminentemente pratico, questa teoria costituisce una netta rottura con le altre concezioni, in quanto, da un lato, vengono poste in crisi le tre grandi conquiste di civiltà ottenute con la teoria retributiva; dall’altro lato, si sacrificano i fini di intimidazione perseguiti dalla prevenzione generale.

Più analiticamente, il complesso di misure terapeutiche e rieducativo-risocializzatrici volte ad impedire che il singolo cada o ricada nel reato - e che costituiscono l’oggetto della prevenzione speciale - viene attuato rivisitando il principio di proporzionalità e quindi adeguando la pena non più alla gravità del reato e alla colpevolezza bensì alla personalità dell’autore; mettendo in discussione il principio di determinatezza, in quanto non è possibile sapere "a priori" quando la pena avrà permesso la risocializzazione del reo; demolendo il principio di inderogabilità, in quanto la pena viene considerata suscettibile di modificazioni quantitative e qualitative nell’arco della sua espiazione; infine trascurando gli intenti intimidatori, poiché in questo caso la prevenzione è realizzata quasi in concomitanza del singolo atto criminoso - si punisce ne peccetur: si parla infatti di prevenzione speciale post delictum per impedire che chi ha commesso un reato ne commetta altri; di prevenzione speciale ante delictum per evitare che un soggetto, in ragione della sua concreta pericolosità, cada nel delitto.

In definitiva, al carattere un insussistente e assoluto della pena in funzione retributiva o general-preventiva viene sostituito quello della "processualità" della pena, considerando questa come il punto di partenza di un più generale trattamento di risocializzazione del condannato.

 

Vecchie e nuove prospettive: la cosiddetta pluridimensionalità della pena

 

La stessa trattazione delle teorie in oggetto di questo capitolo evidenzia l’assolutezza di cui, ciascuna a suo modo, le stesse peccano. In termini largamente rieducativi male si collocano la determinatezza, l’afflittività e il carattere intimidatorio di certe pene (pena di morte, ergastolo, ecc.). In termini di stretta retribuzione e di prevenzione generale non trovano giustificazione tutta una serie di strumenti in cui si rinuncia a "punire" e "intimidire" in vista del riadattamento sociale (sospensione condizionale della condanna, le misure alternative alla detenzione in genere, ecc.). In realtà, infatti, nessuna singola teoria sembra in grado di dare un fondamento completo alla pena ed alla sua funzione. Forse solo l’idea retributiva come limite insuperabile nella commisurazione giudiziale della pena resta l’idea centrale di un diritto penale della libertà: si deve considerare che, almeno in Italia, si è ancora lontani da quella "sentenza indeterminata" da molti sostenuta ma che in pratica si riduce ad un giudizio di mera colpevolezza, una sorta di abdicazione da parte del giudice della cognizione nei confronti degli organi preposti alla esecuzione al fine di individuare il singolo trattamento per il singolo condannato. I criteri indulgenziali a cui il legislatore si è via via ispirato nel non breve periodo inaugurato con la Costituzione, non hanno, infatti, mai intaccato il concetto di pena come espressione di giustizia sostanziale: in definitiva ciò che non deve essere messo in discussione è che la legge penale deve trovare il suo necessario completamento nella sanzione penale e che il giudice deve essere posto nella condizione di determinare ed irrogare questa sanzione a prescindere dagli sviluppi della successiva fase esecutiva: dopotutto è proprio la pena il pilastro più importante su cui poggia la credibilità della legge. In questo senso i canoni che la Costituzione fissa circa il sistema punitivo sono senz’altro espressione di un indirizzo ormai consolidato che fa della pena un mixtum compositum, ma tradiscono anche quel concetto di "necessità" della pena che è espressione di certezza e garanzia del diritto senza le quali l’ordinamento verrebbe privato di un qualunque fondamento.

In definitiva si deve parlare di un diritto del reo alla risocializzazione, alla modificazione della pena, al trattamento; ma si deve parlare di un "diritto del reo alla pena" anzitutto, su cui poi interverranno, eventualmente, le varie fattispecie modificative.

Poste queste prime indispensabili riflessioni, sta di fatto che una teoria il più possibile onnicomprensiva dei vari aspetti della pena, non può non partire dal carattere "pluridimensionale" della stessa: la pena al tempo stesso "punizione" e offerta di opportunità. Di questo duplice scopo si deve tener conto già nel momento di creazione legislativa di un sistema sanzionatorio differenziato e non solo nel momento esecutivo attraverso l’individualizzazione del trattamento. Il nostro sistema sanzionatorio attuale invece mantiene elevato il massimo di pena detentiva, senza assicurare al condannato una ragionevole speranza di ritorno alla libertà, lasciando poi uno spazio enorme in fase esecutiva all’intera congerie delle misure alternative.

In un sistema come il nostro, caratterizzato dal primato della pena detentiva, l’introduzione di misure alternative alla detenzione non può che rappresentare la messa in atto di una "strategia differenziata" nella repressione dei reati, basata sulla realizzazione di un trattamento individualizzato, il quale prevede l’osservazione scientifica del condannato, tiene conto delle sue condizioni specifiche e dei particolari bisogni della sua personalità, e ha come scopo primario il recupero del reo e il suo reinserimento nella vita sociale. Alla luce di ciò non vi è dubbio che gli istituti alternativi alla detenzione siano la palese dimostrazione dell’avvenuta "positivizzazione del primato della prevenzione speciale sulle altre funzioni della pena".

La pena rimane, tuttavia, strumento irrinunciabile di controllo sociale finché non sarà dimostrata come erronea la radicale verità per cui accanto ad una minoranza di soggetti che non delinque anche senza di essa ed un’altra minoranza che delinque nonostante essa, esiste pur sempre la maggioranza di soggetti che non delinque a causa della pena. Il problema non è quello della rinuncia alla pena quanto quello dei "tipi" di pena: ad oggi tale problema si presenta soprattutto in relazione alla pena nel senso classico del termine, e cioè alla pena detentiva. Specularmente si pone la questione pratica della attuazione di questi tipi di pena il cui successo dipende, in definitiva, da una sorta di compromesso fra i tradizionali strumenti preventivi (istituti carcerari, psichiatrici, pene ordinarie), da un lato, e, dall’altro, le istanze risocializzatrici (principio della premialità progressiva e della punibilità regressiva) più fiduciose nell’educabilità e nella perfettibilità dell’uomo.

 

L’art. 27 della Costituzione ed il finalismo rieducativo della pena

 

Come già accennato nel precedente paragrafo, la Costituzione stabilisce all’art. 27 i principi fondamentali in tema di pena e responsabilità. Dopo aver enunciato, rispettivamente al primo e secondo comma, il principio di responsabilità penale personale e la presunzione di non colpevolezza dell’imputato fino alla condanna definitiva, al terzo comma viene sancito che "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato": la Costituzione ha recepito così le istanze degli indirizzi di difesa sociale che propongono la qualificazione della sanzione penale dal punto di vista della prevenzione speciale. È fuori discussione la portata nettamente elastica del dettato costituzionale in oggetto, soprattutto alla luce degli sviluppi legislativi a cui, fino ad oggi, ha dato esito.

Si deve anzitutto premettere la non coincidenza del concetto di "rieducazione" che viene da molti associato all’utopia della perfettibilità dell’uomo, con il concetto più realistico di "risocializzazione". La "tendenza alla rieducazione" implica un tentativo di condizionamento del soggetto ai valori dominanti di una comunità; valori che, in fondo, stanno alla base delle scelte fatte dal legislatore. Tale tentativo muove, evidentemente, da tre premesse: che certi valori siano effettivamente sentiti dalla collettività; che venga attuato un esame della personalità tale da sfociare in una diagnosi ed in una prognosi, dal punto di vista della capacità a delinquere, attendibili; che si possa attuare un trattamento tecnicamente efficace e, al tempo stesso, rispettoso della libertà e della dignità della persona. Ora, posta una innegabile crisi di valori da cui la comunità è sempre più pervasa; ritenuto che l’esame della personalità risente non solo della complessità del suo stesso oggetto di studio ma anche, ed in conseguenza a questo, delle incertezze che ancora minano il campo delle scienze sociali in genere; infine, considerato che il "trattamento" dovrebbe essere attuato solo con il consenso dell’interessato e non consistere mai nell’uso di mezzi che incidono in modo violento o fraudolento sugli sviluppi psichici del soggetto, ecco come il finalismo rieducativo in questione sembra, purtroppo, destinato più al fallimento che al successo.

Ecco che, ancora, le istanze retributive tornano a farsi sentire e ad apparire come l’unico rimedio pratico e diretto contro la criminalità. In fondo gli strumenti rieducativi necessitano tempi più lunghi, sia dal punto di vista della loro applicazione ai soggetti, che dal punto di vista di un bilancio circa la loro maggiore o minore efficacia. In questo senso resta difficile, soprattutto per la collettività in genere, credere in una serie di strumenti ed istituti che modificano la pena, fino quasi, in alcuni casi, ad impedire lo stesso ingresso in carcere e tutto questo in nome di quella "rieducazione" che dovrebbe, almeno in teoria, contenere il fenomeno della criminalità.

Tuttavia, le giustificazioni poste alla base della norma in oggetto rispecchiano l’esperienza statisticamente e scientificamente dimostrata che il carcere fine a se stesso non ha grandi meriti se non quello di distinguere il criminale dalla brava persona. Considerando ancora una volta la presunzione insita nel concetto "rieducazione" e adottando invece quello di "risocializzazione", ecco che quest’ultima può essere attuata solo con strumenti di inevitabile "apertura" del carcere e venendosi così a configurare tutta una serie di istituti che si pongono in alternativa al carcere come luogo classico di espiazione della pena e si propongono come scopo ultimo quello di una più completa possibile reintegrazione del condannato in società.

È chiaro che la legislazione in materia, soprattutto quella penitenziaria, deve pur sempre considerare le irrinunciabili esigenze relative alla tutela dell’ordine e della sicurezza sociali e si tratterà, in questo senso, di apprestare tutta una serie di controlli e di cautele che si rendono indispensabili per le suddette esigenze: il pericolo maggiore deriva infatti dalla possibile recidiva da parte del fruitore di una trattamento risocializzativo la cui causa viene individuata proprio nella condizione di progressiva e maggiore libertà del condannato.

Tuttavia nel cercare di contemperare le istanze risocializzatrici con quelle di tutela della collettività, risultano in definitiva privilegiate le scelte di politica penitenziaria che evidenziano una comune ispirazione: nel senso, essenzialmente, di una impostazione della realtà carceraria in termini sempre meno "afflittivi" ed "emarginanti". Quand’anche si mantenga alla pena il carattere di polifunzionalità (coi suoi aspetti, cioè, retributivi, generalpreventivi e specialpreventivi) la finalità di cui all’art. 27 c. 3 Cost. deve improntare di sé e modellare la disciplina della pena in ogni momento della minaccia, dell’applicazione e della esecuzione.

 

 

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