La modificabilità del giudicato

 

La essenziale modificabilità del giudicato sulla pena

Università degli Studi di Firenze - Facoltà di Giurisprudenza

Relatore: Prof. Fabrizio Corbi - Tesi di laurea di: Maurizio Milani

 

I principi informatori dell’ordinamento penitenziario


Trattamento e rieducazione

L’osservazione scientifica della personalità

L’individualizzazione del trattamento

Trattamento e rieducazione

 

In punto di esecuzione della pena, e anche delle misure di sicurezza, la normativa fondamentale in materia è rappresentata dalla legge 26 luglio 1975 n. 354, "Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà" e successive modificazioni ed integrazioni, segnatamente quelle apportate dalla legge 10 ottobre 1986 n. 663, meglio nota come "Legge Gozzini", la c.d. "riforma della riforma".

Prima del 1975 l’intera materia era regolata dal Regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena di cui al R.D. 18 giugno 1931 n. 787. Con quel decreto si cercò di coordinare il notevole quadro normativo del vecchio regolamento generale degli stabilimenti carcerari e dei riformatori governativi del 1891 (R.D. 1 febbraio 1891 n. 260) con le mutate esigenze della nuova realtà totalitaria del paese: una sorta di compromesso fra le opposte tendenze della Scuola Classica e della Scuola Positiva. Gli aspetti qualificanti della normativa vennero così ad identificarsi in una vita carceraria idonea ad "emendare" il condannato senza per questo attenuare il carattere afflittivo ed intimidatorio della pena, escludendo quindi la segregazione ed introducendo, per esempio, il lavoro remunerato come "regola fondamentale della vita carceraria".

Il Regolamento del 1931 già prevedeva nei suoi originari contenuti, e quindi nel contesto di una concezione essenzialmente retributiva della pena, un rudimentale sistema di trattamento individualizzato anche se abbastanza articolato (le assegnazioni dei soggetti ai vari stabilimenti di pena, ordinari e speciali, facevano riferimento alla pena inflitta, alla tipologia legale del delinquente o al suo comportamento; ad ogni istituto era connesso un determinato "regime detentivo", pur senza particolari connotazioni cliniche o terapeutiche; al giudice di sorveglianza era rimesso il giudizio c.d. di "adattamento alla vita in comune", necessario per evitare l’isolamento).

Solo negli anni ‘40 cominciò ad affacciarsi una prima logica trattamentale (non troviamo, infatti, nel regolamento del 1931 una accezione di trattamento che faccia specifico riferimento a particolari tecniche di modificazione della personalità). A quegli anni, infatti, risale l’introduzione di strumenti di osservazione scientifica della personalità del condannato. La prova di questa evoluzione si avrà poco dopo con la circolare del 1 agosto 1951 n. 4014/2473 e, in particolare, con la circolare del 18 dicembre 1961 n. 1205/3666 con la quale viene fondata la pratica amministrativa della osservazione scientifica come "presupposto di una esecuzione penitenziaria che voglia assurgere al livello di un vero e proprio trattamento rieducativo". In quest’ultima circolare possiamo individuare quello che sarà l’iter consacrato dalla legge di riforma del 1975: osservazione - trattamento - rieducazione.

La riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 recepì, pur nel suo lunghissimo iter formativo, tutta la dinamica evolutiva del concetto di trattamento e venne introdotta una disciplina veramente unitaria volta ad individuare e delineare quella che possiamo definire la "condizione penitenziaria" dei soggetti inseriti negli istituti di prevenzione e di pena ovvero privati della libertà personale in esecuzione di pena o di misure di sicurezza. Nell’ordinamento del 1975 il detenuto acquista per la prima volta una propria soggettività al tempo stesso formale e sostanziale. È sostanziale, in quanto egli viene identificato e definito quale titolare di diritti ed aspettative; è formale, in quanto lo stesso viene legittimato all’agire giuridico, almeno in relazione a determinate posizioni, proprio nella qualità di detenuto (egli esercita personalmente i diritti derivanti dalla legge penitenziaria anche se si trova in stato di interdizione legale: art. 4 ord. penit.). Nella prospettiva offerta dalla riforma in questione il carcere smette di essere considerato come un’istituzione "terminale" in cui il condannato viene abbandonato a consumare giorno dopo giorno la sua pena, senza che nulla possa modificare il suo stato, ma diventa invece, almeno potenzialmente, una struttura a cui è affidata un’azione tendenzialmente provvisoria in una fase dell’esecuzione penale. Il principio rieducativo della pena nonché quello della conseguente modificabilità della stessa trovano la loro applicazione più concreta proprio nelle linee direttive enunciate in apertura del testo legislativo in questione. I principi fondamentali del trattamento non sono altro, infatti, che la trasposizione in materia penitenziaria dei noti precetti costituzionali. L’art. 1 ord. penit., in particolare, individua in modo chiaro il quadro generale circa le modalità di privazione della libertà personale: e così, al primo comma, viene statuito che "il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità" e rispettare la "dignità della persona"; al secondo comma viene affermata la "assoluta imparzialità" a cui il trattamento deve essere improntato; il quinto comma estende anche al trattamento penitenziario l’applicazione del principio di non colpevolezza per gli imputati. Dalla norma di cui all’art. 1 traspare quindi il contenuto, oltre che dell’art. 3, anche e soprattutto quello dell’art. 27 c. 2 Cost..

Ma è al sesto comma che il principio rieducativo della pena, poco fa ricordato, trova la sua collocazione più appropriata: con esso infatti si stabilisce che "nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è realizzato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti".

L’art. 1 della legge in questione è quindi il naturale corollario del dettato costituzionale e in entrambi i casi, considerata comunque la non eliminabilità della pena detentiva, deve ritenersi contraria al senso di umanità ogni afflizione che non si identifichi nella pura limitazione della libertà. Vero è che la concezione polifunzionale della pena ed il finalismo rieducativo previsto dall’art. 27 c.3 Cost. non riguarda solo il trattamento penitenziario. L’attuazione del principio rieducativo si impone tanto alle autorità carcerarie, quanto ai giudici e al legislatore poiché la finalità rieducativa sarebbe gravemente compromessa tutte le volte che specie e durata della sanzione non siano bilanciate sia in sede applicativa che in sede normativa.

Tuttavia è pur sempre nel periodo di espiazione della pena che le istanze risocializzatrici e di reinserimento sociale sono chiamate a produrre i risultati più concreti. V’è da dire che da tempo ormai il tema dell’esecuzione della pena si è progressivamente "arricchito" di problematiche nuove che hanno posto questo argomento al centro di polemiche feroci: basti pensare al problema di coniugare il recupero dei condannati con le esigenze di sicurezza sociale; all’inattendibilità di un sistema processuale in cui esorbitante è ormai il tempo medio che trascorre dal momento di inizio del procedimento penale a quello dell’inizio dell’esecuzione; all’emergenza del sovraffollamento delle carceri che porta con sé il rischio di una "strumentalizzazione" preoccupante delle misure alternative alla detenzione.

La "nobile bugia", come la definiva Rothman parlando della rieducazione, rimane pur sempre la base di partenza da cui si è sviluppata la prospettiva "umanizzatrice" della legge penitenziaria. A metà fra gli opposti poli del mero "indulgenzialismo" e del più marcato "rigorismo", gli strumenti e gli istituti previsti oggi dalla legge destinati a favorire ed incrementare il collegamento del detenuto con la società civile evidenziano ormai, nonostante le continue polemiche del caso, una politica penitenziaria abbastanza definita: la ragionevole salvaguardia delle istanze di sicurezza della libera collettività non può tradursi in una eccessiva limitazione del trattamento risocializzativo proprio in quanto una maggiore libertà del detenuto è ritenuta indispensabile per il miglior conseguimento delle finalità specifiche degli istituti "risocializzativi".

 

L’osservazione scientifica della personalità

 

Per la trattazione di questo specifico strumento si rende necessaria, anzitutto, una distinzione peraltro finora trascurata: quella fra trattamento penitenziario e trattamento rieducativo i quali, pur rimanendo nell’ambito di una relazione di stretta interdipendenza, non devono essere confusi tra di loro. Fra trattamento penitenziario e rieducativo vi è infatti un rapporto da genus a species. Sarà quindi nell’ambito del quadro delle condizioni generali delle persone private della loro libertà personale, il trattamento penitenziario, che si inserisce la specifica attività che la amministrazione penitenziaria è chiamata a svolgere in relazione a ciascun detenuto ed internato al fine della risocializzazione della persona, il trattamento rieducativo appunto.

Dopodiché si deve distinguere, ed è la normativa stessa a farlo, fra la posizione degli imputati, ovvero i soggetti in attesa di giudizio ma altresì coloro che, condannati in primo o secondo grado, hanno interposto appello o ricorso per cassazione, e la diversa posizione dei condannati ed internati: il trattamento degli imputati deve essere informato al principio di non colpevolezza fino alla condanna definitiva (art. 1 c.5 ord. penit.). Premesso che anche gli imputati sono assoggettati al trattamento penitenziario, essi possono essere ammessi, su loro richiesta, a partecipare ad attività rieducative, culturali e, subordinatamente ad alcune condizioni, anche ad attività lavorative (art. 15 c. 3 ord. penit.), gli stessi non possono, però, essere destinatari di un trattamento rieducativo segnatamente per due ragioni: innanzitutto perché l’esistenza della presunzione di non colpevolezza preclude proprio concettualmente l’opera di rieducazione che presuppone il riscontro di note delinquenziali della personalità; inoltre la piena ed assoluta libertà di difesa da assicurarsi all’imputato potrebbe essere limitata o compromessa dai penetranti interventi a contenuto psicologico che caratterizzano un trattamento rieducativo.

Fatta questa imprescindibile premessa, si può vedere che sono i condannati e gli internati i soggetti destinatari del trattamento rieducativo, e nell’ambito di quest’ultimo l’osservazione scientifica della personalità si pone in termini di attività diagnostica attraverso la quale si procede, niente meno, ad osservare e seguire il soggetto cercando di individuare le modalità di sviluppo di quello che sarà il trattamento vero e proprio.

L’art. 27 del Regolamento di esecuzione della legge sull’ordinamento penitenziario, approvato con D.P.R. 29 aprile 1976 n. 431 (e successivamente modificato dalla L. 18 maggio 1989 n. 248) prevede che l’osservazione scientifica della personalità sia diretta ad accertare tutti i fattori fisiopsichici, culturali, affettivi e sociali che hanno pregiudicato la instaurazione di una normale vita sociale e questo al fine di individuare i bisogni del soggetto e la sua attuale disponibilità ad usufruire degli interventi del trattamento. Inoltre è statuito che se all’inizio dell’esecuzione l’osservazione scientifica è volta prevalentemente alla redazione del programma di trattamento, nel corso di quest’ultimo l’osservazione non cessa ma, anzi, si fa dinamica e segue gli eventuali cambiamenti del soggetto per evidenziare esigenze di variazione del programma rieducativo.

Ai sensi dell’art. 28 reg. esec. già citato, l’osservazione scientifica della personalità viene svolta, di regola, presso lo stesso istituto dove deve essere eseguita la pena o la misura di sicurezza (in casi di particolare necessità e per eventuali approfondimenti, i soggetti vengono assegnati, su motivata proposta della direzione dell’istituto, ai centri di osservazione i quali, costituiti come centri autonomi o sezioni di altri istituti, sono deputati sia a svolgere direttamente le attività di cui all’art. 13 ord. penit. che a prestare consulenze). Le attività di osservazione sono condotte da un gruppo di esperti (educatori, psicologi, psichiatri, criminologi, assistenti sociali) il quale, sotto la guida del direttore dell’istituto, perviene al programma individualizzato di trattamento che costituisce il cuore del trattamento rieducativo e del trattamento penitenziario in generale. Tuttavia l’osservazione scientifica non esaurisce qui la sua funzione, ma rappresenta uno strumento verificatore degli sviluppi del trattamento e dell’eventuale progresso del soggetto. Per inciso, si deve rilevare che l’osservazione della personalità sebbene sia qualificata scientifica dall’ordinamento, non implica necessariamente un’indagine specificamente tecnica ma ben può essere attuata sulla base di "schemi liberi" purché, naturalmente, idonei a consentire uno studio approfondito del condannato.

Nonostante le premesse, ad oggi i modelli diagnostico-predittivi come l’osservazione de quo ed il trattamento c.d. "intramurale" in genere, attraversano una notevole crisi. Si pensi, ad esempio, alle modifiche apportate dalla c.d. "Legge Simeone" alla legge sull’ordinamento penitenziario e al codice di procedura penale. In particolare, si pensi alle nuove disposizioni in tema di sospensione dell’esecuzione, dettate per consentire ai condannati per reati di minore gravità, di usufruire delle misure alternative senza ingresso in carcere e quindi saltando in toto anche un minimo di osservazione, richiedendosi soltanto un giudizio sulle informazioni di polizia giudiziaria o sulle inchieste ad opera dei servizi sociali. Infatti, lo svuotamento dell’osservazione in carcere, da un lato, e la genericità degli elementi che possono essere posti alla base di un giudizio prognostico, dall’altro, evidenziano l’intento del legislatore di lasciare che l’osservazione della personalità si attui ormai sulla base di "schemi liberi", come poc’anzi accennato.

Vero è che alla base della moltiplicazione dei casi di sanzioni in libertà vi è anche la presa di coscienza circa la dannosità del carcere, del suo effetto desocializzante e del rischio di deterioramento della personalità. Dall’altro lato non è difficile prendere atto che un "abuso", una strumentalizzazione delle misure alternative o , per meglio dire, una scissione totale delle stesse dalla conoscenza della personalità del soggetto, determinerebbe il fallimento dello intero sistema esecutivo e penitenziario.

 

L’individualizzazione del trattamento

 

Il trattamento si effettua tenendo conto dei risultati della osservazione scientifica della personalità regolata dall’art. 13 c. 2 ord. penit. e dagli artt. 27 e 28 reg. esec., sulla base della quale viene formulato il programma individualizzato di trattamento (art. 13 c. 3 ord. penit. e art. 29 reg. esec.), che è approvato dal magistrato di sorveglianza (art. 69 c. 5 ord. penit.). Si può affermare che il fine ultimo dell’intera normativa in materia è proprio la compilazione di questo programma individualizzato di trattamento per il singolo soggetto, programma che viene redatto dal gruppo di osservazione scientifica sotto la guida del direttore dell’istituto ed in coordinamento con tutto il personale addetto alle attività di rieducazione (art. 29 reg. esec.).

È in questo trattamento rieducativo individualizzato che tutta la normativa in questione vede il punto di partenza di un sistema progressivo di risocializzazione. Se la filosofia della riforma penitenziaria potesse essere ridotta all’essenziale, sarebbe proprio il principio di individualizzazione (che è la proiezione, in termini soggettivi, del principio di flessibilità della pena) il nucleo forte di pensiero su cui si innestano le altre dimensioni concettuali. L’individualizzazione del trattamento, infatti, come strumento di rieducazione, ma in definitiva tutta la produzione legislativa in materia, sono la conseguenza delle basilari critiche che già dalla entrata in vigore della Costituzione venivano mosse alla pena detentiva. La detenzione, posta già a base dei sistemi convenzionali come elemento fondamentale, tende a trasformarsi dalla pura segregazione e dall’isolamento ai permessi, alle forme di semilibertà, alle misure alternative al carcere. In virtù del principio di individualizzazione del trattamento a cui sono informati gli strumenti di rieducazione, questi ultimi possono essere considerati delle misure di opportunità offerte dallo Stato all’individuo che si è reso responsabile della commissione di un reato. Ciò permette di sostenere che, al fine di poter formulare una prognosi favorevole di probabilità di reinserimento sociale, la pena, nel momento della sua realizzazione concreta, venga sottoposta ad un continuo riesame dei contenuti e delle modalità di attuazione di quella stessa specie individuata in sentenza dal giudice della cognizione. Questo processo conduce infine ad una modifica della concreta realizzazione della sanzione originaria, o in corso di esecuzione oppure, nei casi consentiti dalla legge, ab initio e cioè senza neanche fare ingresso in carcere e quindi senza quel periodo minimo di osservazione, pari ad un mese, che la legge in alcuni casi richiede. 

Del resto se è pur vero che per la giustificazione del carcere moderno è essenziale o almeno molto utile il trattamento, non lo è invece il reciproco: in altre parole non vi è necessità di privazione di libertà per aversi una teoria, e conseguentemente una pratica, di trattamento rieducativo. Le strutture dell’amministrazione penitenziaria lavorano oggi, infatti, per un trattamento al contempo "intramurale" ed in ambiente libero. La stessa Corte di cassazione ha ormai da tempo ben recepito "il trattamento fuori dall’ambiente carcerario [...] massima espressione di un sistema sanzionatorio differenziato; e ciò sul presupposto che, talvolta, il regime carcerario - per carenze funzionali e strutturali - svolge una funzione diseducativa, accentuando il fenomeno della desocializzazione". Anche in dottrina, da autorevoli posizioni, si recupera decisamente la necessità del trattamento come contributo potentissimo alla diminuzione della afflittività della pena carceraria attraverso la sua umanizzazione, affinché il carcere sia il meno possibile desocializzante o, peggio ancora, criminogeno.

 

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