violenza dietro le sbarre

 

Tanta violenza dietro le sbarre

di Patrizio Gonella (Associazione Antigone)

 

Fuoriluogo, giugno 2003

 

La tortura non è ancora reato nel nostro Paese, ma i rischi di esservi sottoposti non sono poi così remoti. Nel rapporto 2003 Amnesty International rivolge uno sguardo preoccupato alle carceri italiane. Diversi sono i casi di maltrattamenti denunciati, per alcuni di questi sono state aperte inchieste penali. Da Trento a Palermo, da Roma alla Sardegna persistono gli episodi di violenze e nascono o si chiudono inchieste per pestaggi. Nel mese di maggio del 2002 la procura di Trento ha aperto un’inchiesta a seguito della denuncia di oltre 70 detenuti della casa circondariale, i quali accusavano alcuni agenti di polizia penitenziaria di avere brutalmente pestato un detenuto di origine marocchina.

In replica alla denuncia presentata dai detenuti, il ministero della Giustizia ha sostenuto che la procura trentina avrebbe aperto, non una ma due inchieste: una sui poliziotti accusati di maltrattamenti, e l’altra sui detenuti magrebini indagati per resistenza e violenze ai danni dei componenti delle forze dell’ordine.

A settembre 2002 la procura di Palermo ha avviato un’indagine, a seguito di una denuncia presentata da ben 25 detenuti ristretti nel carcere Pagliarelli. Le accuse erano: aggressioni, intimidazioni, violenze fisiche e psichiche. A seguito di tali maltrattamenti uno dei detenuti pestati avrebbe tentato il suicidio.

Lo scorso dicembre 2002 a Nuoro, dopo quasi tre anni dall’inizio dell’inchiesta, si è aperto il processo a carico di otto agenti di polizia penitenziaria accusati di avere pestato il detenuto Luigi Acquaviva, successivamente trovato morto suicida. L’esame autoptico avrebbe evidenziato traumi compatibili con violenze diffuse. Luigi Acquaviva, pochi giorni prima della sua morte, era stato protagonista di una protesta in cui aveva preso in ostaggio per quattro ore un agente di polizia penitenziaria.

Nell’ultimo rapporto del Comitato europeo perla prevenzione della tortura, reso pubblico a marzo 2003, gli ispettori di Strasburgo hanno descritto la pesante atmosfera regnante nell’iper-affollato carcere partenopeo di Poggioreale dove persisteva "la prassi in base alla quale i detenuti abbassavano la testa e tenevano le mani dietro la schiena in presenza del personale penitenziario". Un paio di mesi fa nelle carceri romane di Rebibbia, nel giro di pochi giorni, due persone si sono suicidate. Uno di questi era da pochi giorni all’interno della sezione minorati psichici della Casa di reclusione; uno strano luogo dove si è trattati da matti, ma non è un ospedale psichiatrico giudiziario e manca personale medico e infermieristico specializzato.

Esiste un obbligo dei custodi di garantire il diritto alla vita e all’integrità personale dei loro custoditi? Fino a che punto esso si deve per questo spingere? Anche sino ad ipotesi di responsabilità oggettiva? A Sassari i giudici hanno rilevato responsabilità ben definite nel famoso pestaggio del San Sebastiano nel maggio 2000 e hanno sanzionato penalmente i capi della catena di comando, ossia direttrice e capo degli agenti, i quali dopo avere patteggiato la pena, sono stati condannati a pene fra i 6 e i 12 mesi di carcere per violenze e abusi.

La più grande inchiesta europea per maltrattamenti in carcere ha chiuso il primo filone di indagini con un certo numero di assoluzioni e una decina di condanne. Non e poca cosa. La Sardegna, frontiera insulare del paese, diviene anche la frontiera della civiltà delle carceri italiane: alto è il rischio delle violenze, alto il tasso di suicidi, bassa la qualità della vita penitenziaria. La risposta ministeriale, scontata, consiste in un grande piano di edilizia carceraria, a partire da Cagliari, Sassari, Macomer. Non a caso la BBC ha dedicato alle prigioni sarde un approfondito e allarmato servizio, riguardante lo stato dei diritti umani dei detenuti in Italia.

Nonostante tutto ciò, nonostante le violenze di Genova, nonostante i 21 agenti di polizia per i quali vi è stata la richiesta di rinvio a giudizio, a Napoli, per le violenze in occasione del global forum, la tortura non è ancora reato.

Negli anni dell’Ulivo al governo una proposta di legge trasversale, firmata da oltre 60 senatori, non superò la barriera della discussione parlamentare. Negli ultimi due anni le proposte di legge continuano a languire senza fare sostanziali passi in avanti. C’è chi, anche a sinistra, ritiene sufficienti le previsioni normative del codice sulle percosse, le lesioni e gli abusi.

La tortura è, però, un’altra cosa e la condanna per tortura è anch’essa un’altra cosa. Pochi mesi fa l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha votato il protocollo alla convenzione sulla tortura che prevede, al proprio interno, un meccanismo ispettivo universale dei luoghi di detenzione. Al momento il protocollo non è ancora in vigore, in quanto si è ben lontani dal raggiungere il numero di ratifiche minime utili (soltanto quattro Stati lo hanno firmato e ratificato).

L’Italia, nonostante i solenni impegni, non ha ancora firmato e ratificato il Protocollo. Questa volta, però, va assolutamente evitato che alla ratifica non segua un adattamento della legislazione interna. Sarebbe l’ennesima occasione persa. Per essere conformi ai dettami della legislazione internazionale va introdotto il reato di tortura nel nostro codice penale e va istituito un organismo indipendente nazionale di controllo dei luoghi detentivi.

Il Comune di Roma, lo scorso maggio, ha avuto il coraggio di dar vita al garante delle persone private della libertà personale. Dal 1997 si parla, in Italia, di prison ombudsperson. Il presidente della Camera, Casini, si è impegnato ad una rapida calendarizzazione dei disegni di legge pendenti. Gli obblighi internazionali esigono che si discuta e istituisca il difensore civico nazionale penitenziario.

 

 

 

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