Il colloquio clinico

 

Il colloquio clinico nell’esame scientifico di personalità

di Saverio Fortunato, specialista in Criminologia clinica

 

Il criminologo clinico nell’esame di personalità deve agire come il ricercatore scientifico (ossia, colui che ricerca per conoscere), non interessato ai problemi del Bene e del Male, del Giusto o Sbagliato, del Meglio o del Peggio (sono compiti che spettano al Giudice o ad altre professioni), ma deve ancorare il suo compito a dei criteri di scientificità: limitarsi a valutare le affermazioni d’ordine categoriale e non normativo, vale a dire, occuparsi di quelle affermazioni concernenti ciò che è, non ciò che dovrebbe essere. La criminologia clinica nulla può decidere su come la società (o anche la vita, quindi, il futuro stesso del “paziente” osservato) dovrebbe andare e non fa raccomandazioni su questioni attinenti alla criminologia sociale o alla politica criminale. E’ questo il canone che distingue la criminologia clinica ancorata in senso epistemologico a dei criteri di scientificità, dalla criminologia sociale, dalla sociologia, psicologia, psichiatria, religione, etica sociale e dalla filosofia politica e sociale.

Il criminologo clinico che agisce come il ricercatore scientifico usa criteri di obiettività e di neutralità etica. Obiettività, significa che le conclusioni cui si perviene come risultato dell’indagine e della ricerca sono indipendenti dalla razza, credo, professione, nazionalità, religione, preferenze morali e propensioni politiche del ricercatore , anche se questo tipo di obiettività è difficile da raggiungere alla perfezione, perché il ricercatore deve sempre fare i conti con i pregiudizi sociali e anche di quelli propri della sua personalità.

Neutralità etica, significa che lo scienziato nel suo ruolo professionale non si schiera da nessuna parte in questioni di significato morale o etico. Lo scienziato in quanto tale, non ha preferenze etiche, religiose, politiche, letterarie, filosofiche, morali. In fatto che egli abbia delle preferenze come cittadino rende ancora più importante che egli se ne liberi come scienziato. In tale qualità, egli è interessato non a ciò che giusto o sbagliato, bene o male, ma soltanto a ciò che è vero o falso (Bierstedt R., 1957; Fortunato S., 2000).

Nell’osservazione scientifica di personalità si deve distinguere: il delinquente dal criminale; il delinquente (o il criminale) occasionale da quello patologico (Fortunato S., 2003); il “detenuto in luogo” (in attesa di giudizio o meno) dall’ “autore di reato” (Pisapia G.V., 1987).

Il colloquio criminologico clinico deve rispondere a problemi diagnostici (di criminogenesi e criminodinamica), prognostici (previsioni di comportamento futuro) e d’indicazioni di trattamento criminologico (Merzagora I., 1987); inoltre, per quanto sia difficile da raggiungere, deve prefiggersi uno scopo di risocializzazione: ossia, far rinascere in un detenuto il desiderio di essere parte della comunità umana ed il fargli lentamente ammettere o tollerare il punto di vista di un’altra persona (Balloni, Sabattini, 1971).

Nel porsi l’obiettivo della risocializzazione il criminologo clinico si differenzia dallo psicologo o dallo psichiatra o da altre figure professionali che studiano la psiche. Il compito sociale professionale dello psichiatra è di occuparsi della prevenzione e cura della patologia; quello dello psicologo è la prevenzione; dello psicoterapeuta della cura dei malati di spirito… ma sono compiti necessari ma insufficienti per capire il crimine: sia perché spesso la cura non cura sia perché la prevenzione è già di per sé un terreno minato sia perché, in sintesi, sono saperi (teorie) che hanno poco o nulla di scientifico in senso epistemologico delle scienze.

Pensiamo a quanto possa essere pericoloso o prevedibile, nello studio dell’osservazione scientifica di personalità, ricorrere alla psicoanalisi per “scavare” nell’inconscio (ipnosi, interpretazione dei sogni, ecc.) per fini prognostici!  Oppure, porsi in termini psicoterapici con il detenuto, che come tecnica porterebbe ad un inevitabile  transfert tra analista e analizzato, a causa delle condizioni di rigorosa disciplina ed ordine imposti dal carcere, per la rottura con il mondo esterno, per la fragilità psicologica che da tutto ciò deriva, ecc.. Oppure, porsi in termini psichiatrici cercando di dare una spiegazione biologica o farmacologia (o entrambe) al comportamento umano, che porterebbe a vedere correlazioni causali anche tra il caldo torrido dell’estate e l’aggressività, quindi a psichiatrizzare il trattamento.

Con questo non si vuole negare l’importanza del ruolo dello psicoanalista, dello psicoterapeuta o dello psichiatra, che possono e debbono collaborare in tandem con il criminologo clinico, ma si deve sempre tenere conto che la natura del colloquio criminologico è diversa da quella terapeutica o psichiatrica in quanto qui non abbiamo un paziente che chiede di essere curato o aiutato, ma è lo Stato che chiede al criminologo clinico di osservare in termini scientifici la personalità del detenuto. Inoltre, la terapia (psicologica) o la cura (psichiatrica) si pongono sempre l’obiettivo di “guarire” il paziente (quando ci si riesce a farlo!), ma mentre nella terapia o nella cura è il paziente che si sottopone spontaneamente ad essa e si attende dei risultati (impegnandosi in cambio ad osservare la terapia stessa o la cura),  in carcere, invece, il detenuto non richiede nessuna terapia né cura, e lo stesso colloquio criminologico, ai fini del trattamento, è imposto o suggerito, ma non scelto di sua iniziativa, (come avviene quando ci si rivolge allo psicologo o allo psichiatra). Inoltre, sia lo psicologo sia lo psichiatra vivono, purtroppo, lo stereotipo sociale che li cataloga come gli “strizza cervelli” o  “medici dei matti”, dunque è difficile (ma non insuperabile, certo!) che qualcuno accetti o riconosca di suo, l’aver bisogno di relazionarsi con uno “strizza cervelli” o “medico dei matti” se ritiene oggettivamente di aver commesso o non commesso un reato ma di sicuro di non essere un matto!

Il criminologo clinico è distante da tali figure professionali perché egli “non deve orientare la sua azione al fine di conformizzare la personalità del detenuto, né deve cercare di minimizzare i guasti che un sistema ingiusto produce ai danni di persone socialmente sfavorite” (Bandini, Gatti, 1987), In altre parole, non deve né psicologizzare né psichiatrizzare la personalità del detenuto per fini trattamentali o altro (Fortunato S., 2003).

 L’indagine (diagnosi e prognosi) del criminologo clinico è prettamente criminologica, ed il colloquio ha fini valutativi, poiché quel che in realtà sarà oggetto d’indagine peritale potrà riguardare il giudizio diagnostico e prognostico per l’idoneità o meno a fruire di misure alternative alla detenzione; il tipo della misura che è preferibile adottare; l’opportunità di avere licenze premio; la convenienza di sottoporre il soggetto ad un regime di sorveglianza particolare; e, in generale, vari quesiti che l’autorità giudiziaria  o la magistratura di sorveglianza ritengano utile e possibile porre. (Marzagora, I, 1987).

Perizia criminologica nell’osservazione di personalità

 

Raccolta di dati

 

Data e luogo di nascita, Parto e svezzamento. Normalità, precocità o ritardo nello sviluppo, prime fasi di vita fisiologica (linguaggio, cammino). Notizie sulla famiglia di origine: livello di istruzione, situazione economica e sociale, occupazioni, interessi, esistenza di fratelli e sorelle, età e caratteristiche, rapporti con loro, sentimenti o risentimenti, conflitti, senso di superiorità o inferiorità, ammirazione e identificazione. Atmosfera familiare: ricordi sui genitori nei primi anni di vita, i rapporti dei genitori fra loro e dei genitori con il soggetto, attaccamento alla famiglia, preferenza per un genitore o per un altro, giudizio sui genitori, disciplina familiare, la famiglia come fonte di conforto e di sicurezza. Atteggiamento nei giochi e con gli altri bambini (cooperativo, aggressivo, importuno, timido, passivo, ecc.). carriera scolastica: età di inizio e fine della scuola, motivi interruzione studi, classi ripetute, rapporti con i compagni e con gli altri insegnanti, atteggiamento nei confronti dello studio. Atteggiamento verso il gruppo dei pari, figure di identificazione. Ambizioni ed ideali adolescenziali e giovanili. Il servizio di leva. Disciplina, frustrazioni, ecc. Esperienze sentimentali e sessuali, legami affettivi, matrimonio, atmosfera coniugale, difficoltà, accordo o disaccordo, separazioni o divorzi. I figli e i rapporti con loro. Malattie, infortuni, precedenti psicopatologici, loro importanza nella vita di relazione e lavorativa. Carriera lavorativa, costanza o meno nel lavoro, interessi extraprofessionali. Uso di alcool o di droghe. Difficoltà di adattamento. Scopi e aspirazioni per il futuro, ideali e personali. (Marzagora. I, 1987).

 

Sulle finalità

 

Secondo Bisio B. (1975) il colloquio criminologico si deve occupare di: a) indagare come il soggetto ha ceduto all’azione dei motivi che su di lui hanno agito; b) determinare perché non lo hanno inibito altri motivi (sociali, individuali, morali, religiosi, giuridici, ecc.); c) ricercare come il soggetto è arrivato a concepire, e sotto quale aspetto, l’azione antisociale, dalla quale si è ripromesso la soddisfazione di un interesse; d) conoscere come è stata la preparazione e l’esecuzione del reato; e) passare allo studio del comportamento onde determinare come la personalità umana reagisce ai vari stimoli e nelle varie condizioni.

 

Sulle teorie

 

Le teorie criminologiche non si pongono più l’obiettivo di comprendere perché gli individui violino le norme, ma tentano di comprendere i meccanismi attraverso i quali la delinquenza viene definita, prodotta, utilizzata (Bandini, Gatti, 1987). E’ difficile, quindi, che uno psicologo o uno psichiatra possa scoprire l’appartenenza ad una sottocultura o l’esistenza di un’associazione differenziale, o il gioco di una situazione anomica, o della stigmatizzazione, o dei fattori che hanno favorito un’identità negativa, o la reazione sociale di etichettamento, ecc., se non conoscono le teorie criminologiche sulle sottoculture, sulle associazioni differenziali, sull’anomia, sull'etichettamento, sull’interazionismo ecc..

 

Sulla metodologia

 

Il modello di teorizzazione causale. Il modello causale tende ad individuare fino a che punto la variazione di una variabile causi la variazione di un’altra. In realtà questo è risultato molto difficile, tanto che nelle scienze sociali si parla sempre meno di causa e sempre più di correlazione tra variabili diverse. In ogni caso, si può affermare che:

a)      esiste una relazione tra X e Y;

b)      la relazione è asimmetrica, così che una variazione di X ha come risultato una variazione di Y, e non viceversa;

c)      una variazione di X ha come risultato una variazione di Y quali che siano le influenze d’altri fattori.

Dato che nessuna causa può precedere l’effetto, uno dei metodi più sicuri, per determinare quale fattore sia la causa e quale l’effetto, è la sequenza temporale (ciò che accade prima è considerato la causa, ciò che accade dopo l’effetto).

Bailey ritiene utile parlare di causalità in termini di condizioni necessarie e sufficienti. Si può affermare che X è causa necessaria al verificarsi dell’effetto Y se Y non accade mai, a meno che non accada (o sia già accaduto) X. Si può dire che X è causa sufficiente di Y, se Y si verifica tutte le volte che si verifica X.

Ma esistono altre tre combinazioni:

aa) causa necessaria ma non sufficiente: in questo caso X deve accadere, ma non basta, è necessario che compaia un altro fattore, prima che avvenga Y  (es.  fumo, smog e cancro). In questo caso si può parlare dei due fattori come cause parziali;

bb) causa sufficiente ma non necessaria: quando due o più fattori, ad esempio X e Z, sono causa alternativa dello stesso fenomeno Y, ma non sono causa parziale, perché anche uno solo dei due fattori è sufficiente a causare Y (ad es. nel caso risulti che il fumo e lo smog sono sufficienti, anche da soli, a provocare il cancro);

cc) causa necessaria e sufficiente: questa è la forma più forte di relazionale causale, Y non accadrà mai senza che accada X, ed accadrà sempre quando accade Y. In questo caso non ci sono cause alternative, X è la causa completa, l’unica.

Bailey ritiene che i modi migliori per conoscere le cause siano l’analisi della sequenza temporale, ed in particolare l’osservazione sperimentale.

L’ultimo aspetto importante da sapere è la causazione reciproca. Abbiamo visto come di solito si parla di causa nei rapporti asimmetrici, ma è possibile individuare una causa anche nelle relazioni simmetriche, in cui X è causa di Y e contemporaneamente causa ed effetto. Ma la causa può non essere diretta tra X e Y e passare attraverso una serie d’altri fattori, intermedi, che rendono il processo ancora più complicato. E’ una teorizzazione di questo tipo che si va diffondendo sempre più e che sta diventando uno dei punti centrali di un’analisi attuale nel campo delle scienze sociali. Queste ultime, cioè, stanno passando da un’analisi unicausale, tipica di una sociologia ottocentesca, ad una causalità reciproca, interrelata, complessa.

 

La conditio sine qua non

 

La sequenza temporale è spesso il modo certo per stabilire quale fattore sia la causa (il prima) e quale l’effetto (il dopo). A complicare però le cose sono tre combinazioni di necessità e sufficienza.

Prima combinazione: diremo che X è una condizione necessaria ma non sufficiente per l’esistenza di Y. In questo caso, X deve accadere prima che accada Y, ma X da solo non è sufficiente a causare la comparsa di Y. Al contrario, deve esistere qualche altro fattore che compare sommato a X prima che compara in Y. Supponiamo, per esempio, che la ricerca dimostri che soltanto i fumatori si ammalano di cancro al polmone e che i non fumatori non si ammaleranno mai. Ciò dimostrerebbe che il fumo X è condizione necessaria del cancro al polmone Y. Ma supponiamo che ulteriori ricerche svelino che tale malattia non coinvolge tutti i fumatori. Di fatto, solo i fumatori che vivono anche in un’area a forte inquinamento atmosferico Z si ammaleranno di cancro. Da solo il fumo X non può provocare il cancro Y ma in combinazione con lo smog Z (che è anch’esso una causa necessaria ma insufficiente) può portare al cancro. Insieme i fattori del fumo X e dello smog Z sono sufficienti a causare la malattia, ma singolarmente sono insufficienti, per quanto sia necessario.

Un fattore può essere una condizione sufficiente ma non necessaria. Modifichiamo il nostro esempio affermando due cose: a) che il fumo X è sufficiente a causare da solo (senza la compresenza di altri fattori) il cancro al polmone; b) che anche lo smog Z è sufficiente a causare da solo (senza la compresenza di altri fattori) il cancro al polmone. In questi casi nessuno dei due fattori (fumo o smog) è di per sé necessario perché si manifesti il cancro. Più specificatamente il fumo non è più necessario perché il cancro si manifesterà anche in sua assenza (se è presente lo smog); lo smog non sarà più necessario perché il cancro si manifesterà anche in sua assenza (se è presente il fumo). In ogni caso, uno dei due deve essere presente. Nel caso di condizioni non sufficienti ma necessarie, possiamo dire che X e Z sono cause alternative di Y ma non cause parziali, poiché ciascun fattore è sufficiente a causare Y da solo.

TERZA COMBINAZIONE: la causa X è ad un tempo necessaria e sufficiente per il verificarsi dell’effetto Y. Questa è la forma più ideale di relazione causale. In questo caso Y non accadrà mai senza che accada X ed accadrà sempre quando accade X. Non ci sono altre possibilità: X è la causa completa ed unica. Poniamo un esempio: se il fumo costituisse una condizione necessaria e sufficiente del cancro, allora tutti i fumatori si ammalerebbero di cancro e nessun non fumatore si ammalerebbe mai. Dato che X è necessario, non sussistono cause alternative e dato che X è anche sufficiente, è la causa completa e non una causa parziale. Una relazione necessaria e sufficiente rappresenta il più puro caso di causalità. E’ un esempio di unicausalità, perché X è la sola causa di Y e Y non si manifesterà mai senza che sia presente X.

Sul metodo della metodologia: le proposizioni

Le fasi per svolgere un’indagine peritale a base scientifica sono le seguenti:

1. Scelta del problema di ricerca e definizione delle ipotesi;

2. Formulazione del disegno della ricerca;

3. raccolta dei dati

4. Codifica e analisi dei dati;

5. Interpretazione dei risultati e verifica delle ipotesi.

Ciascuna di queste fasi dipende dall’altra; è ovvio che non si può, per esempio, svolgere la fase (d) per analizzare i dati, senza averli prima raccolti (fase c).

Un ricercatore può causare danni enormi nella ricerca se non è in grado, per esempio,  di formulare delle ipotesi iniziali non controllabili o prevedendo un campione inadeguato. La ricerca è dunque un sistema di fasi collegate e interdipendenti.

Nella perizia ancorata a dei criteri di scientificità, sul piano metodologico, possiamo suddividere le seguenti fasi:

1) quesito;

2) formulazione dei metodi della ricerca;

3) individuazione della metodologia del metodo da seguire;

4) raccolta dei dati dell’indagine peritale;

5) codifica e analisi dei dati con verifica;

6) interpretazione dei risultati e risposta al quesito.

 

Conclusioni

 

Nel campo scientifico non è sufficiente conoscere le cause per affermare di conoscere qualcosa che da quelle cause ha avuto origine, perché occorre la competenza del ragionamento, posto che qualunque idea perde il senso o ne acquista un altro rispetto quello originale se non segue dei principi e non descrive le strutture ed i caratteri fondamentali della realtà. In questo senso il ragionamento criminologico clinico, oltre che da esperto, deve essere logico in senso logico, privo di logigismi e, dunque, metodologico nella misura in cui vuol dire “qualcosa di qualcosa” per dare un “senso al senso” di ciò che dice.

 

 

Precedente Home Su Successiva