Reati e alcool

 

Alcolismo e delitti commessi in stato di ebbrezza

di Mario Pavone (Avvocato)

 

Premessa

La rilevanza dell’alcolismo dal punto di vista criminologico

La tesi dell’Avvocatura dello Stato

La illegittimità della norma nel giudizio della Corte

Le precedenti decisioni in tema di condizioni personali del reo

Il giudizio sul rispetto del principio di uguaglianza

Il principio di proporzione

Il principio di tassatività

Conclusioni

Note

Allegato: Corte Costituzionale, Sentenza 10 - 17 luglio 2002, n° 354

Premessa

 

La Corte Costituzionale, con una rilevante sentenza passata quasi inosservata (1), ha dichiarato la incostituzionalità dell’art. 688, secondo comma, del Codice Penale nella parte in cui la norma sanzionava con l’arresto da tre a sei mesi il fatto commesso da chi aveva già riportato condanna per un delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale (575-583 CP).

La norma dichiarata incostituzionale era stata denunciata alla Corte dal Giudice monocratico del Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Portogruaro con ordinanza del 6 febbraio 2001.

Il Giudice remittente, una volta individuata la ratio dell’articolo 688 C.P., nella sua originaria formulazione, nella esigenza di tutelare la sicurezza sociale attraverso la prevenzione dell’alcolismo quale causa di disordini e reati e pur rilevando che si tratterebbe di fattispecie inquadrabile tra i cosiddetti reati "ostativi", aveva osservato che soggetto attivo del reato poteva essere chiunque si trovasse in luogo pubblico o aperto al pubblico in stato di manifesta ubriachezza.

In conseguenza tale stato veniva considerato, da un lato, elemento disturbante e in qualche modo lesivo di un interesse pubblico e, dall’altro, sintomo di pericolosità sociale, non essendo l’ubriaco in grado di controllare le proprie azioni.

Secondo il Giudice monocratico, quindi, l’alcolismo, inteso come status personale, assumerebbe rilevanza penale sotto due aspetti: come fattore pregiudizievole per la salute individuale e collettiva e come fattore criminogeno, avendo l’assunzione di alcol valore scatenante e favorendo la genesi di determinati comportamenti criminali.

Su queste premesse, secondo il giudice a quo, non avrebbe senso ritenere che lo stato di ubriachezza, sotto l’aspetto punitivo, rilevi soltanto per una certa categoria di soggetti, individuata peraltro in base ad elementi meramente statistici, in quanto la probabilità che un soggetto non compos sui (come colui che si trova in stato di ubriachezza) commetta un reato più grave sarebbe identica tanto nel caso in cui l’imputato fosse incensurato quanto nella ipotesi in cui fosse pregiudicato e tanto più in caso di condanna risalente nel tempo o relativa ad un reato commesso di non rilevante gravità.

Il Giudice remittente ha osservato, inoltre, come considerazioni analoghe siano state fatte dalla stessa Corte Costituzionale in riferimento alla fattispecie di cui all’articolo 708 del codice penale, disposizione che puniva il possesso ingiustificato di valori solo con riferimento ai soggetti già condannati per delitti determinati da motivi di lucro, norma dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 370 del 1996 (2).

In definitiva, ad avviso del Giudice a quo, avendo il Legislatore ritenuto, con la modifica apportata nel 1999 alla norma, che lo stato di ubriachezza non assume rilevanza penale autonoma ma sia sufficiente la sua punibilità sotto l’aspetto amministrativo, la disposizione di cui al secondo comma dell’articolo 688 del codice penale non avrebbe avuto più ragion d’essere, in quanto finirebbe con l’introdurre ex novo una fattispecie penale in cui l’elemento costitutivo fondamentale non sarebbe più considerato fatto punibile e la punibilità deriverebbe invece da elementi e presupposti del tutto estranei al momento e alle condizioni concrete in cui un determinato comportamento (penalmente irrilevante) è stato posto in essere.

Sotto tale profilo risulterebbe, quindi, del tutto evidente, secondo il Giudice remittente, l’illegittimità costituzionale della norma censurata "sia per la disparità di trattamento che introduce, sia sotto il profilo strettamente logico-giuridico, in omaggio ai principî di legalità, offensività e materialità della legge penale" (3).

Infatti, ad avviso dello stesso Giudice, la disposizione censurata violerebbe l’articolo 3 della Costituzione, in quanto, a seguito della depenalizzazione del reato previsto dall’articolo 688, primo comma, del codice penale, attuata con l’articolo 54 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), l’essere colto in stato di ubriachezza in un luogo pubblico o aperto al pubblico assumerebbe rilevanza penale solo se l’autore avesse riportato precedenti condanne per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale.

La norma incriminatrice sarebbe viziata da irragionevolezza, poiché un medesimo fatto, in presenza di esigenze non dissimili di tutela della sicurezza sociale attraverso la prevenzione dell’alcolismo, rileverebbe sotto l’aspetto penale soltanto per una particolare categoria di soggetti, quelli cioè che abbiano riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita e l’incolumità individuale.

Inoltre la disposizione impugnata introdurrebbe una figura di reato in cui la punibilità non riguarderebbe il fatto in sé, ma deriverebbe da elementi a questo estranei.

Ciò comporterebbe la violazione dei "principi di legalità, offensività e materialità della legge penale", riconducibili all’articolo 25, secondo comma, Cost., nonché del principio, affermato dall’articolo 27, terzo comma, secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.

 

La rilevanza dell’alcolismo dal punto di vista criminologico

 

A questo punto merita un breve excursus il problema dell’alcolismo nella criminologia. Come sottolinea autorevole Dottrina (3-bis), nonostante siano state condotte innumerevoli e prestigiose ricerche sul legale tra abuso di alcool e condotte criminose, sopravvivono ancora sul problema dei luoghi comuni che vanno abbattuti. Risulta, infatti, fuorviante e privo di solido fondamento scientifico ritenere esistente una sorta di predisposizione genetica a carattere ereditario nell’abuso di sostanze alcoliche. Anche il generico richiamo ad un presunto rapporto diretto tra abuso di alcool e criminalità è affermazione imprecisa ed incompleta. Vi sono, infatti, tutta una serie di reati che per la loro stessa indole e commissione necessitano di una lucidità di intelletto che non può avere un soggetto etilista.

Alcune ricerche hanno inoltre dimostrato come la relazione tra gli effetti dell’alcool e criminalità sfumi e venga mediata da molteplici variabili cognitive ambientali e socio-culturali. L’unica distinzione rilevante ai fini criminologici può essere fatta tra etilismo acuto e cronica intossicazione da alcool. Nel primo caso, la perdita dei freni inibitori e morali e del controllo delle pulsioni ha come diretta conseguenza quella di agevolare il soggetto a tenere condotte aggressive sia verbali che fisiche. Nel secondo caso l’intossicazione acuta da alcool (o da stupefacenti) sia essa volontaria, colposa o preordinata, non è di per sé idonea ad eliminare la imputabilità, fatte salve le ipotesi del caso fortuito o della forza maggiore. Discorso a parte meriterebbe tutta la delinquenza colposa legata alla violazione delle norme sulla circolazione stradale a seguito di abuso di alcool.

Sta di fatto che taluni casi di intossicazione acuta da alcool hanno pacificamente assunto nell’ottica clinica valore di malattia in senso proprio senza che ciò abbia alcuna rilevanza dal punto di vista giuridico. Al criminologo spetta dunque il compito di superare queste differenze intrinseche operando nella complessità e tentando di spiegare il fenomeno nella globalità della sua manifestazione e nelle sue conseguenze dal punto di vista sociale.

 

La tesi dell’Avvocatura dello Stato

 

La difesa erariale ha sostenuto dinanzi alla Corte che argomentazioni a favore della legittimità costituzionale della norma censurata dal Giudice veneziano possono rinvenirsi proprio dalla sentenza n. 370 del 1996, in quanto se è vero che in tale decisione la Corte aveva dichiarato l’illegittimità dell’articolo 708 del codice penale, ritenendo, tra l’altro, irragionevole la discriminazione operata dal legislatore nei confronti di una categoria di soggetti punibili, è anche vero che nella stessa pronuncia era stata affermata la legittimità costituzionale dell’articolo 707 dello stesso codice, norma in cui la condotta (possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli) assume rilevanza penale solo se posta in essere da soggetto condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio.

Conseguentemente, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, da un’attenta lettura della sentenza citata non potrebbe ricavarsi un principio di carattere generale inteso a ritenere sempre e comunque irragionevole la discriminazione operata dal legislatore nei confronti di una categoria di soggetti ai fini della rilevanza penale dell’ipotesi di reato. La disposizione censurata, quindi, secondo la difesa erariale, pur discriminando soggetti incensurati da quelli già condannati per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, sarebbe conforme al canone della ragionevolezza,

In base a tale assunto difensivo, la contravvenzione prevista dall’articolo 688, secondo comma, del codice penale, come tutti i reati "ostativi", sarebbe diretta a prevenire il compimento di azioni lesive e la pericolosità del soggetto pregiudicato, quale si evince dalle precedenti condanne riportate, caratterizzerebbe la fattispecie al punto da indurre il legislatore a costruire su di essa il passaggio dalla tutela amministrativa a quella penale.

 

La illegittimità della norma nel giudizio della Corte

 

La Corte Costituzionale ha accolto le tesi del Giudice monocratico del Tribunale di Venezia - Portogruaro in base ad una articolata motivazione della sentenza emanata. La Corte, anzitutto, ha ricordato nel provvedimento che l’articolo 688 del codice penale, nella sua formulazione originaria, puniva con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da lire ventimila a quattrocentomila chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, fosse colto in stato di manifesta ubriachezza (comma primo). La pena diveniva, invece, quella dell’arresto da tre a sei mesi se il fatto era commesso da chi aveva già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale (comma secondo). La Corte ha pure ricordato di avere già avuto modo, in precedenti provvedimenti, di occuparsi della aggravante speciale (tale era pacificamente considerata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità) prevista dal secondo comma della norma (4).

La figura di reato constava, quindi, di una ipotesi base e di una aggravante ed in conseguenza non vi era alcuna difficoltà a riconoscere la non irragionevolezza della previsione secondo la quale colui che venisse colto in stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico e avesse già subito una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale dovesse soggiacere ad una pena più elevata.

La valutazione in termini di maggiore pericolosità della condotta della persona colta in stato di manifesta ubriachezza che avesse riportato una condanna per quei determinati delitti trovava un qualche fondamento giustificativo nel precedente dettato normativo. Nondimeno, secondo la Corte, a seguito della depenalizzazione del reato previsto dal primo comma dell’articolo 688 del codice penale, il quadro normativo al quale le precedenti pronunce si erano attenute è stato profondamente modificato dal Legislatore. In conseguenza, quella che in base al vecchio testo era ritenuta una aggravante del reato, attualmente non può essere più essere ritenuta tale ed è, anzi, divenuta essa una autonoma fattispecie di reato.

In base alla modifica legislativa, incorrerebbe nel reato di ubriachezza solo chi in passato abbia riportato condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità delle persone mentre chi non abbia subito tale condanna ovvero se sia stato condannato per reati di non minore gravità, risponderebbe attualmente per quel medesimo comportamento soltanto a titolo di illecito amministrativo (5). L’operazione compiuta dal legislatore del 1999 ha, quindi, inteso quindi alleggerire la posizione della persona colta in stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico. Nella relazione governativa al decreto legislativo n. 507 del 1999 - ricorda la Corte - la ratio della disciplina emerge con inequivoca chiarezza: trasformare in illeciti amministrativi una serie di reati eterogenei quanto ad oggettività giuridica e modalità di condotta, "il cui unico comune denominatore è rappresentato dall’esiguo spessore sanzionatorio".

Nel trasporre sul piano amministrativo la risposta sanzionatoria in modo da ridurre l’area del diritto penale e sollevare così gli uffici giudiziari da oneri impropri, il Legislatore ha inteso altresì "evitare di rivitalizzare talune fattispecie che a causa del loro evidente anacronismo trovano oggi una applicazione assai limitata".

Se tale era il fine perseguito dal Legislatore con la novella del 1999, con riferimento al reato di ubriachezza, emergerebbe una intrinseca irrazionalità della norma censurata in quanto il risultato non sarebbe unicamente la depenalizzazione del reato base, ma anche l’eventuale trattamento sanzionatorio più severo a carico di chi abbia riportato condanne per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale. Infatti, nella prospettiva dell’aggravante speciale, entro la quale si manteneva la vecchia previsione del secondo comma dell’articolo 688, il Giudice ben avrebbe potuto, in applicazione dell’articolo 69 del codice penale, bilanciare tale aggravante con eventuali circostanze attenuanti rinvenibili nel concreto atteggiarsi della fattispecie e, una volta rimossa l’aggravante e reso così applicabile il reato base di cui al primo comma, irrogare nelle ipotesi più lievi la sola ammenda, prevista come pena alternativa.

Nel sistema attuale, la possibilità di commisurare la pena all’effettivo disvalore del fatto è stata fortemente limitata. Il secondo comma dell’art. 688 del codice penale non costituisce più una circostanza aggravante, ma configura un reato autonomo, sicché non può più parlarsi di bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti, le quali, ove ravvisabili, possono determinare un abbattimento del minimo edittale, ma non possono esimere il giudice dall’applicare comunque la pena dell’arresto.

Oltre ad avere trasformato una semplice circostanza aggravante in elemento costitutivo del reato, ciò che comporta, nel caso dell’ubriachezza, la rilevata incongruenza, la disposizione censurata è - secondo la Corte - affetta dagli ulteriori vizi, anch’essi denunciati dal remittente, derivanti dalla violazione dei principî costituzionali di legalità della pena e d’orientamento della pena stessa all’emenda del condannato, ai quali, in base agli articoli 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, deve attenersi la legislazione penale.

L’avere riportato una precedente condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, pur essendo evenienza del tutto estranea al fatto-reato, rende punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assume alcun disvalore sul piano penale.

Divenuta elemento costitutivo del reato di ubriachezza, la precedente condanna, secondo la Corte, assumerebbe le fattezze di un marchio che nulla il condannato potrebbe fare per cancellare e che vale a qualificare una condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non configurerebbe illecito penale.

Il fatto poi che il precedente penale che qui viene in rilievo sia privo di una correlazione necessaria con lo stato di ubriachezza renderebbe chiaro che la norma incriminatrice, al di là dell’intento del legislatore, finirebbe col punire non tanto l’ubriachezza in sé, quanto una qualità personale del soggetto che dovesse incorrere nella contravvenzione di cui all’articolo 688 del codice penale.

Una siffatta contravvenzione ha assunto, quindi, i tratti di una sorta di reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che, nella sua accezione astratta, costituisce un vero e proprio limite alla discrezionalità legislativa in materia penale, come già sostenuto in precedenti decisioni dalla Corte (6).

Tale limite, desumibile dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel suo legame sistematico con l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, opererebbe in questo caso nel senso di impedire che la qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non costituiscono illecito penale.

In definitiva, secondo la Corte, sotto un concorrente profilo, la disposizione censurata, nel trasformare irragionevolmente in elementi costitutivi del reato di ubriachezza fatti per i quali è già intervenuta una condanna irrevocabile, finirebbe con il vanificare la finalità rieducativa che l’articolo 27, terzo comma, della Costituzione assegna alla pena e pertanto, anche per tale ragione, essa deve ritenersi incostituzionale.

 

Le precedenti decisioni in tema di condizioni personali del reo

 

Con una sentenza analoga del 1996, la Corte Costituzionale (7) aveva dichiarato l’incostituzionalità della fattispecie di possesso ingiustificato di valori (art. 708 C.p.), pur ritenendo, invece, legittima la fattispecie prevista dall’art. 707 C.p., che punisce il possesso ingiustificato di chiavi false o di grimaldelli (8). Va pure ricordato che già in precedenza la stessa Corte (9) aveva dichiarato incostituzionali, per contrasto con l’art. 3 Cost., l’art. 707 C.p. e l’art. 708 C.P., nella parte in cui tra le condizioni personali dell’agente, annoveravano la mendicità, l’essere stato ammonito ovvero l’essere stato sottoposto ad una misura di sicurezza personale o ad una cauzione di buona condotta.

Con la sentenza n. 370/1996 la Corte aveva quindi ritenuto illegittimo l’art. 708 C.P. poiché violava il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. e il principio di tassatività ex art. 25 Cost. L’evidente disparità di trattamento fondata sull’incriminazione di una condotta in sé lecita come il possesso ingiustificato di valori solo nei confronti di una categoria di soggetti, composta da pregiudicati per reati di varia natura ed entità contro il patrimonio, finiva con il dare luogo ad una discriminazione di condizioni personali e sociali non giustificata da valide ragioni e come tale risultava in contrasto con l’art. 3, comma 1, Cost..

In conseguenza, secondo la Corte, la scelta legislativa di criminalizzare il comportamento solo di alcuni soggetti qualificati e non della generalità dei consociati poteva trovare giustificazione solo se il possesso della qualifica incidesse sulla lesione o messa in pericolo del bene tutelato. Invece, il semplice possesso dei beni senza giustificazione della loro provenienza, non può comportare alcuna lesione o messa in pericolo del bene patrimonio, salvo che la punizione di siffatto comportamento solo in relazione ai soggetti già condannati per reati contro il patrimonio non si giustifichi con il sospetto della reiterazione dei reati.

In definitiva, secondo la Corte, una presunzione di pericolosità fondata sulla condizione soggettiva di condannato comporterebbe il rischio di una diversificazione di trattamento, da parte dell’ordinamento penale, tra i condannati per determinati delitti rispetto agli altri soggetti. Secondo la valutazione operata dalla Corte, entrambi gli artt. 707 e 708 C.P., facendo dipendere la punibilità dalla presunta pericolosità dell’autore, rappresenterebbero entrambi un’ipotesi di colpevolezza per la condotta di vita, in violazione non solo dell’art. 25 Cost., che stabilisce il principio di responsabilità per il fatto commesso, ma anche dell’art. 27, comma 1, Cost., che stabilisce il principio di responsabilità per fatto proprio del colpevole e come tali violerebbero il principio di ragionevolezza, quello di proporzionalità e quello di tassatività delle ipotesi di reato.

 

Il giudizio sul rispetto del principio di uguaglianza

 

Nella maggior parte delle sentenze della Corte in tema di ragionevolezza, la ragionevolezza di una fattispecie penale viene esaminata in relazione alla previsione di un’equiparazione di trattamento punitivo di ipotesi aventi un diverso disvalore o di una differenza di trattamento punitivo di condotte equivalenti in termini di disvalore.

La Suprema Corte, a partire dalla sentenza n. 10 del 1980, ha accolto la concezione dottrinaria in base alla quale il giudizio sull’eguaglianza delle leggi dovrebbe presupporre il riferimento a tre termini, cioè la norma impugnata, il principio costituzionale di eguaglianza e un tertium comparationis, sulla base del quale valutare la conformità o meno delle differenziazioni rispetto all’art. 3 Cost..

Dall’esame della dottrina emergono tre orientamenti principali in tema di ragionevolezza.
Una parte della dottrina afferma l’esistenza di un principio di ragionevolezza in base al quale valutare la ragionevolezza di una norma in assoluto, a prescindere dalla sussistenza di una disparità di trattamento da valutare. Un secondo orientamento fonda i giudizi sulla congruità, adeguatezza e pertinenza di una legge non su specifiche norme costituzionali, ma su corrispondenti principi giuridici, al di là della ricerca di un fondamento legislativo testuale. Un ultimo orientamento dottrinale (10) afferma invece la sussistenza non tanto di un principio ma di un criterio di ragionevolezza in base al quale conformare i giudizi sulla costituzionalità di una norma; sotto questo profilo il giudizio di ragionevolezza ex art. 3 Cost. non avrebbe alcuna autonomia concettuale.

 

Il principio di proporzione

 

In materia penale il principio di eguaglianza trova una specificazione nel principio di proporzione, che, indipendentemente dalla sussistenza di disparità o parificazioni di trattamento, dovrebbe rappresentare un criterio di verifica dei fattori che influiscono sull’an e sul quantum della punibilità (11).

Nell’ordinamento penale il principio di proporzione viene considerato costituzionalizzato sulla base dell’art. 13 Cost., in quanto i sacrifici del bene della libertà personale devono essere proporzionati al perseguimento di interessi di rango costituzionale come pure dell’art. 25, comma 2, Cost., in quanto il legislatore deve stabilire un divario non spropositato tra il minimo e il massimo nell’indicazione del disvalore del fatto ed infine dell’art. 27, comma 3, Cost., poiché la sproporzione del sacrificio della libertà personale non consente la realizzazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, comma 3, Cost. (12) Il legislatore penale, attraverso l’applicazione del principio di proporzione, deve tendere al contemperamento tra la realizzazione dei diritti fondamentali del reo, da una parte, e la tutela di determinati beni giuridici, dall’altra.

 

Il principio di tassatività

 

Con la sentenza del 1996 la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 708 C.p. anche per l’evidente violazione del principio di tassatività ex art. 25 Cost., stante la genericità e l’indeterminatezza del disposto normativo e la discriminazione del carattere lecito o illecito del possesso ingiustificato di valori sulla base della condizione soggettiva di pregiudicato per determinati reati. Secondo la Corte, infatti, le condizioni personali non sono tali da giustificare in termini di offensività la punibilità del possesso ingiustificato, poiché non si riesce a determinare un tipo criminoso al quale ricondurre condotte aventi un disvalore omogeneo.

Il giudice costituzionale ha ravvisato in ciò un ulteriore motivo di contrasto con il principio di tassatività, perché la suddetta fattispecie risulterebbe volta alla repressione non del comportamento descritto, cioè il possesso ingiustificato, ma di quei reati in cui si sospettava che il soggetto fosse coinvolto tanto da disporre dei beni provenienti da tali reati.

 

Conclusioni

 

In definitiva, la Corte, con la sentenza in commento, ha inteso ribadire il proprio precedente orientamento in tema di rilevanza delle condizioni personali del reo ai fini della sanzione, pervenendo alla declaratoria di incostituzionalità della norma dell’art. 688 proprio in base alla violazione dei principi innanzi enunciati.

La decisione ripropone, ancora una volta, le problematiche di costituzionalità dell’art. 707 C.P., ultima norma che sanziona le condizioni personali del soggetto come "reato di sospetto".

Con la citata sentenza n. 370 del 1996, la stessa Corte ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti dell’art. 707 C.p., in relazione agli artt. 3, 25 e 27 Cost., poiché la suddetta fattispecie descrive un fatto in sé pericoloso per il bene tutelato, combinandosi nella condotta di possesso l’elemento oggettivo (gli oggetti atti allo scasso) e quello soggettivo (la pericolosità dei soggetti condannati per determinati reati contro il patrimonio).

Alcuni autori, tra cui il Maugeri (14), hanno osservato criticamente come gli elementi da cui desumere la pericolosità della condotta siano insufficienti, cosicché in questa ipotesi la pericolosità del mezzo finisce per far leva sulla pericolosità del soggetto che lo detiene. Secondo tale opinione i comportamenti tipizzati ex art. 707 C.p. sono, infatti, caratterizzati da una pericolosità astratta poiché si puniscono in chiave preventiva attività anteriori a quelle preparatorie di un delitto.

L’adozione del modello del pericolo astratto quale forma di anticipazione di tutela sarebbe giustificabile solo in relazione al bene tutelato (perché ad es. di carattere sopraindividuale) o per la natura dell’azione e l’ampiezza degli effetti lesivi. Nel caso dell’art. 707 C.p. le condizioni suddette non si verificano poiché il bene tutelato, cioè il patrimonio, è concretamente ledibile, e la stessa azione, quella del furto, è lesiva del patrimonio e dagli effetti limitati.

La sentenza del 1996 tuttavia non risolve il rapporto degli artt. 707 e 708 C.P. con l’art. 24 Cost. sul diritto alla difesa e con l’art. 27, 2 comma, della Costituzione che stabilisce la presunzione di non colpevolezza dell’imputato con riferimento ai requisiti della "mancanza di giustificazione dell’origine dei beni" e della "mancata giustificazione della destinazione".

In relazione al primo requisito, secondo un orientamento di dottrina e giurisprudenza, l’art. 707 C.P. prevederebbe un’inversione dell’onere della prova, poiché l’accusa dovrebbe provare la condizione soggettiva e il possesso di arnesi non confacenti allo stato dell’imputato e a quest’ultimo spetterebbe di provare la legittima provenienza di tali arnesi. L’orientamento prevalente in giurisprudenza, invece, nega che nel caso degli artt. 707 e 708 C.p. l’imputato debba provare la provenienza o la destinazione delle cose possedute, ma richiede solo un’attendibile spiegazione da parte sua, spettando pur sempre all’accusa di dimostrare l’inattendibilità delle spiegazioni stesse.

In sostanza la norma in questione non prevederebbe un’inversione dell’onere della prova, ma un mero onere di allegazione a carico dell’imputato. La dottrina sottolinea come gli artt. 707 e 708 C.P., definiti come c.d. "reati di sospetto", violerebbero la presunzione di innocenza, poiché il legislatore ha eliminato la difficoltà di provare la destinazione o la provenienza dei beni dell’imputato, introducendo una presunzione di colpevolezza in relazione ai reati che si ritiene siano stati commessi o ai reati che si avrebbe l’intenzione di commettere. In tal modo si procederebbe all’applicazione di una pena di sospetto sia nel fondamento, non essendo provata la colpevolezza per i reati in questione, sia nella misura, poiché la pena non potrebbe commisurarsi ad una colpevolezza non provata.

In conclusione, se la Corte costituzionale è pervenuta ad eliminare dall’ordinamento gli art. 688 e 708 C.p., quale fattispecie punitive fondate sulle condizioni personali del reo, sarebbe auspicabile che abrogasse anche l’art. 707 C.P. proprio in base agli stessi principi enunciati da ultimo nella sentenza del 2002.

 

Ostini, Agosto 2003

Note

 

(1) Corte Cost. sentenza 10-17 Luglio 2002 n.354 in calce

(2) Corte Cost. sentenza n.370/1996

(3) Note sui principi di ragionevolezza, di proporzione e di tassatività dopo la pronuncia della Corte Costituzionale n. 370 del 1996 in materia di reati di sospetto.
(da A. Maugeri, in Rivista it. dir. e proc. pen. nn. 2 e 3, 1999, pagg. 434-486, 944-988).
(3-bis) Di Martino, Criminologia, Simone, pagg.75 e ss

(4) v. ordinanze n. 53 del 1972; n. 185 e n. 155 del 1971

(5) Le parole "è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da L.20.000 a L.400.000" sono state sostituite dall’art.54 Dlgs 30/12/1999 n.507

(6) sentenze n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995

(7) sentenza n. 370 del 1996

(8) dello stesso autore "L’art.707 nella dottrina e nella giurisprudenza", in Filodiritto.com

(9) sentenze n. 10 del 1968 e n. 14 del 1971

(10) Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, pag. 5 segg.)

(11) Angioni, Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano, 1983, pagg. 165-166

(12) Corte cost. 28.7.1993, n. 343, in Giur. cost. 1993, pag. 2668).

(13) Micheli, Reati di sospetto vecchi e nuovi: cronaca di una morte annunciata, in Riv. trim. dir. pen. dell’econ., 1994, pag. 53)

(14) Maugeri, op. cit., pagg 434-486

Allegato

 

Corte Costituzionale, Sentenza 10 - 17 luglio 2002, n° 354

 

La Corte Costituzionale, composta dai signori:

Cesare Ruperto Presidente

Riccardo Chieppa Giudice

Gustavo Zagrebelsky

Valerio Onida

Carlo Mezzanotte

Fernanda Contri

Guido Neppi Modona

Piero Alberto Capotosti

Annibale Marini

Franco Bile

Giovanni Maria Flick

Francesco Amirante

Ugo De Siervo

Romano Vaccarella

 

Ha pronunciato la seguente sentenza, nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 688, secondo comma, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 6 febbraio 2001 dal Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Portogruaro, in composizione monocratica, iscritta al n. 55 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell’anno 2002.

 

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, udito nella camera di consiglio del 5 giugno 2002 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte.

 

Ritenuto in fatto

 

Nel corso di un procedimento penale a carico di un imputato del reato di cui all’articolo 688, secondo comma, del codice penale, il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Portogruaro, in composizione monocratica, con ordinanza in data 6 febbraio 2001, ha sollevato, su eccezione della difesa, in riferimento agli articoli 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del citato articolo 688, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui punisce con la pena dell’arresto da tre a sei mesi chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è colto in stato di manifesta ubriachezza, se il fatto è commesso da chi ha già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale.

Il remittente, individuata la ratio dell’articolo 688 del codice penale, nella sua originaria formulazione, nella esigenza di tutelare la sicurezza sociale attraverso la prevenzione dell’alcolismo quale causa di disordini e reati, e rilevato che si tratta di fattispecie inquadrabile tra i cosiddetti reati "ostativi", osserva che soggetto attivo del reato di cui al previgente articolo 688, primo comma, cod. pen. poteva essere chiunque si trovasse in luogo pubblico o aperto al pubblico in stato di manifesta ubriachezza. Conseguentemente tale stato era considerato, da un lato, elemento disturbante e in qualche modo lesivo di un interesse pubblico e, dall’altro, sintomo di pericolosità sociale, non essendo l’ubriaco in grado di controllare le proprie azioni. L’alcolismo, quindi, inteso come status personale, aveva rilevanza penale sotto due aspetti, e cioè come fattore pregiudizievole per la salute individuale e collettiva e come fattore criminogeno, avendo l’assunzione di alcol valore scatenante e favorendo la genesi di determinati comportamenti criminali.

Su queste premesse, secondo il giudice a quo, non avrebbe senso ritenere che lo stato di ubriachezza, sotto l’aspetto punitivo, rilevi soltanto per una certa categoria di soggetti, individuata peraltro in base ad elementi meramente statistici, in quanto la probabilità che un soggetto non compos sui (come colui che si trova in stato di ubriachezza) commetta un reato più grave sarebbe identica tanto nel caso in cui egli sia incensurato quanto se sia pregiudicato, tanto più in caso di condanna molto risalente nel tempo o relativa a reato di non rilevante gravità.

Il remittente osserva che considerazioni analoghe sarebbero state fatte da questa Corte in riferimento alla fattispecie di cui all’articolo 708 del codice penale, disposizione che puniva il possesso ingiustificato di valori solo con riferimento ai soggetti già condannati per delitti determinati da motivi di lucro e che è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 370 del 1996.

In definitiva, ad avviso del giudice a quo, avendo il legislatore ritenuto che lo stato di ubriachezza non assuma rilevanza penale autonoma, ma sia sufficiente la sua punibilità sotto l’aspetto amministrativo, la disposizione di cui al secondo comma dell’articolo 688 del codice penale non avrebbe più ragion d’essere, in quanto introdurrebbe ex novo una fattispecie penale in cui l’elemento costitutivo fondamentale non sarebbe più considerato fatto punibile e la punibilità deriverebbe invece da elementi e presupposti del tutto estranei al momento e alle condizioni concrete in cui un determinato comportamento (penalmente irrilevante) è stato posto in essere. Sotto tale profilo sarebbe, quindi, evidente l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata "sia per la disparità di trattamento che introduce, sia sotto il profilo strettamente logico-giuridico, in omaggio ai principî di legalità, offensività e materialità della legge penale".

Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata.

La difesa erariale premette che argomentazioni a favore della legittimità costituzionale della disposizione censurata possono ricavarsi proprio dalla sentenza n. 370 del 1996, richiamata dal remittente, in quanto se è vero che in questa decisione la Corte ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 708 del codice penale, ritenendo, tra l’altro, irragionevole la discriminazione operata dal legislatore nei confronti di una categoria di soggetti, è anche vero che nella stessa pronuncia è stata affermata la legittimità costituzionale dell’articolo 707 dello stesso codice, norma in cui la condotta (possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli) assume rilevanza penale solo se posta in essere da soggetto condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio.

Conseguentemente, ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, da un’attenta lettura della sentenza citata non potrebbe ricavarsi un generale principio inteso a ritenere sempre e comunque irragionevole la discriminazione operata dal legislatore nei confronti di una categoria di soggetti ai fini della rilevanza penale dell’ipotesi di reato.

La disposizione censurata, quindi, secondo la difesa erariale, pur discriminando soggetti incensurati da quelli già condannati per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, sarebbe conforme al canone della ragionevolezza: la contravvenzione prevista dall’articolo 688, secondo comma, del codice penale, come tutti i reati "ostativi", sarebbe diretta a prevenire il compimento di azioni lesive e la pericolosità del soggetto pregiudicato, quale si evince dalle precedenti condanne riportate, caratterizzerebbe la fattispecie al punto da indurre il legislatore a costruire su di essa il passaggio dalla tutela amministrativa a quella penale.

 

Considerato in diritto

 

Il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di Portogruaro, in composizione monocratica, dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 688, secondo comma, del codice penale, nella parte in cui punisce con la pena dell’arresto da tre a sei mesi chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, è colto in stato di manifesta ubriachezza, se il fatto è commesso da chi ha già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale.

Ad avviso del remittente, la disposizione censurata violerebbe l’articolo 3 della Costituzione, in quanto, a seguito della depenalizzazione del reato previsto dall’articolo 688, primo comma, del codice penale, attuata con l’articolo 54 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), l’essere colto in stato di ubriachezza in un luogo pubblico o aperto al pubblico assumerebbe rilevanza penale solo se l’autore abbia riportato precedenti condanne per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale. La norma incriminatrice sarebbe viziata da irragionevolezza, giacché un medesimo fatto, in presenza di esigenze non dissimili di tutela della sicurezza sociale attraverso la prevenzione dell’alcolismo, rileverebbe sotto l’aspetto penale soltanto per una particolare categoria di soggetti, quelli cioè che abbiano riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita e l’incolumità individuale.

Inoltre la disposizione impugnata introdurrebbe una figura di reato in cui la punibilità non riguarderebbe il fatto in sé, ma deriverebbe da elementi a questo estranei. Ciò comporterebbe la violazione dei "principi di legalità, offensività e materialità della legge penale", riconducibili all’articolo 25, secondo comma, Cost., nonché del principio, affermato dall’articolo 27, terzo comma, secondo il quale le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.

 

La questione è fondata

 

L’articolo 688 del codice penale, nella sua formulazione originaria, puniva con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da lire ventimila a quattrocentomila chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, fosse colto in stato di manifesta ubriachezza (comma primo). La pena era, invece, dell’arresto da tre a sei mesi se il fatto era commesso da chi aveva già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale (comma secondo).

Della aggravante speciale (tale era pacificamente considerata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità) prevista dal secondo comma, questa Corte ha già avuto modo di occuparsi. La figura di reato constava di una ipotesi base e di una aggravante: non vi era pertanto alcuna difficoltà a riconoscere la non irragionevolezza della previsione secondo la quale colui che venisse colto in stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico e avesse già subito una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale dovesse soggiacere ad una pena più elevata. La valutazione in termini di maggiore pericolosità della condotta della persona colta in stato di manifesta ubriachezza che avesse riportato una condanna per quei determinati delitti non era infatti priva di fondamento giustificativo (ordinanze n. 53 del 1972; n. 185 e n. 155 del 1971).

A seguito della depenalizzazione del reato previsto dal primo comma dell’articolo 688 del codice penale, il quadro normativo al quale quelle pronunce si erano attenute è profondamente mutato. Quella che per l’innanzi era una aggravante, attualmente non è più riferita ad un reato base ed è divenuta essa medesima una autonoma fattispecie di reato: incorre, infatti, nel reato di ubriachezza solo chi in passato abbia riportato condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità delle persone; chi invece tale condanna non abbia subito, anche se è stato condannato per reati di non minore gravità, risponde per quel medesimo comportamento soltanto a titolo di illecito amministrativo.

L’operazione compiuta dal legislatore del 1999, in breve, era intesa a rendere più lieve la posizione della persona colta in stato di manifesta ubriachezza in luogo pubblico o aperto al pubblico. Nella relazione governativa al decreto legislativo n. 507 del 1999 la ratio della disciplina emerge con inequivoca chiarezza: trasformare in illeciti amministrativi una serie di reati eterogenei quanto ad oggettività giuridica e modalità di condotta, "il cui unico comune denominatore è rappresentato dall’esiguo spessore sanzionatorio". Nel trasporre sul piano amministrativo la risposta sanzionatoria in modo da ridurre l’area del diritto penale e sollevare così gli uffici giudiziari da oneri impropri, si intendeva altresì "evitare di rivitalizzare talune fattispecie che a causa del loro evidente anacronismo trovano oggi una applicazione assai limitata".

Se questo era il fine perseguito dal legislatore del 1999, con riferimento al reato di ubriachezza, emerge una intrinseca irrazionalità della disciplina censurata in quanto il risultato non è stato unicamente la depenalizzazione del reato base, ma anche l’eventuale trattamento sanzionatorio più severo a carico di chi abbia riportato condanne per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale.

Infatti, nella prospettiva dell’aggravante speciale, entro la quale si manteneva la vecchia previsione del secondo comma dell’articolo 688, il giudice ben avrebbe potuto, in applicazione dell’articolo 69 del codice penale, bilanciare tale aggravante con eventuali circostanze attenuanti rinvenibili nel concreto atteggiarsi della fattispecie e, una volta rimossa l’aggravante e reso così applicabile il reato base di cui al primo comma, irrogare nelle ipotesi più lievi la sola ammenda, prevista come pena alternativa. Nel sistema attuale la possibilità di commisurare la pena all’effettivo disvalore del fatto è fortemente limitata: in effetti, il secondo comma dell’art. 688 del codice penale non costituisce più una circostanza aggravante, ma configura un reato autonomo, sicché non può più parlarsi di bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti, le quali, ove ravvisabili, possono determinare un abbattimento del minimo edittale, ma non esimere il giudice dall’applicare comunque la pena dell’arresto.

Oltre ad avere trasformato una semplice circostanza aggravante in elemento costitutivo del reato, ciò che comporta, nel caso dell’ubriachezza, la rilevata incongruenza, la disposizione censurata è affetta dagli ulteriori vizi, anch’essi denunciati dal remittente, derivanti dalla violazione dei principî costituzionali di legalità della pena e di orientamento della pena stessa all’emenda del condannato, ai quali, in base agli articoli 25, secondo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, deve attenersi la legislazione penale.

L’avere riportato una precedente condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, pur essendo evenienza del tutto estranea al fatto-reato, rende punibile una condotta che, se posta in essere da qualsiasi altro soggetto, non assume alcun disvalore sul piano penale. Divenuta elemento costitutivo del reato di ubriachezza, la precedente condanna assume le fattezze di un marchio, che nulla il condannato potrebbe fare per cancellare e che vale a qualificare una condotta che, ove posta in essere da ogni altra persona, non configurerebbe illecito penale. Il fatto poi che il precedente penale che qui viene in rilievo sia privo di una correlazione necessaria con lo stato di ubriachezza rende chiaro che la norma incriminatrice, al di là dell’intento del legislatore, finisce col punire non tanto l’ubriachezza in sé, quanto una qualità personale del soggetto che dovesse incorrere nella contravvenzione di cui all’articolo 688 del codice penale. Una contravvenzione che assumerebbe, quindi, i tratti di una sorta di reato d’autore, in aperta violazione del principio di offensività del reato, che nella sua accezione astratta costituisce un limite alla discrezionalità legislativa in materia penale posto sotto il presidio di questa Corte (sentenze n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995). Tale limite, desumibile dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione, nel suo legame sistematico con l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, opera in questo caso nel senso di impedire che la qualità di condannato per determinati delitti possa trasformare in reato fatti che per la generalità dei soggetti non costituiscono illecito penale.

Sotto un concorrente profilo, infine, la disposizione censurata, nel trasformare irragionevolmente in elementi costitutivi del reato di ubriachezza fatti per i quali è già intervenuta una condanna irrevocabile, vanifica la finalità rieducativa che l’articolo 27, terzo comma, della Costituzione assegna alla pena.

 

per questi motivi, la Corte Costituzionale

 

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 688, secondo comma, del codice penale.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002.

 

Cesare Ruperto, Presidente

Carlo Mezzanotte, Redattore

 

Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2002

 

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