Rapporto diritti umani

 

L’Italia esce male dal rapporto del parlamento

europeo sullo stato dei diritti umani

di Patrizio Gonnella

 

Fuoriluogo, settembre 2003

 

L’allargamento dell’UE rende necessaria una direttiva quadro sugli standard comuni di vita carceraria per evitare l’omologazione verso il basso e innalzare la qualità della vita.

I due milioni di detenuti europei avranno sicuramente apprezzato le sagge parole di Fodé Sylla, eurodeputato comunista francese, che nella sua relazione a Strasburgo sullo stato dei diritti umani nella UE ha escluso ogni scorciatoia edilizia e palazzinara quale rimedio al sovraffollamento che cresce in modo esponenziale in tutti i paesi del vecchio continente. L’Italia esce malconcia dal Rapporto: carceri affollate (quasi tutte), pene inutili (prima fra tutte quella di Adriano Sofri), strumenti inadeguati di tutela dei diritti (la magistratura di sorveglianza si occupa oramai d’altro e ha rinunciato a esercitare il proprio ruolo a garanzia della legalità intramuraria), lacune normative (la tortura non è ancora reato e anche a sinistra c’è chi dice che questa omissione non sia poi così grave).

Il rapporto, votato e approvato agli inizi di settembre dall’emiciclo di Strasburgo, è un lungo elenco di raccomandazioni e suggerimenti agli stati in materia di diritti umani. Ci si chiede però se l’Europa sia oggi una via di fuga rispetto all’inciviltà delle nostre galere oppure sia una ulteriore fortezza che più si allarga a est più riduce gli standard di tutela in una rincorsa pericolosa al ribasso.

Fode Sylla e l’intero europarlamento hanno votato a Strasburgo affinché la UE si doti presto di regole carcerarie comuni vincolanti per tutti i Paesi membri. Quelle non vincolanti già ci sono, sin dal 1973, rinnovate nel 1987. Su di esse, però, non è stato costruito un nuovo riformismo penitenziario europeo.

Le "European Prison Rules" non sono altro che minimi comuni denominatori, ben poco ambiziosi. Nei Paesi dell’est non hanno prodotto quel cambiamento culturale e giuridico decisivo per favorire il passaggio dall’arbitrio nella gestione delle prigioni a una detenzione legale fondata sul diritto e sui diritti. In Italia sono state, invece, spesso strumentalmente evocate per dimostrare come la nostra legislazione fosse fin troppo avanzata, tanto da giustificare ulteriori restrizioni alle norme o alle prassi, in conformità ai più ridotti standard europei.

E allora, nell’Europa dei 25 che verrà nel 2004, è opportuno che ci sia spazio giuridico per un ordinamento penitenziario sovra-nazionale vincolante per gli stati nazione? O invece è meglio che i diritti e le garanzie siano tutelati a livello nazionale, perche è la nazione l’unico contenitore di politiche alte e coraggiose? E proprio vero che, come si teme, l’arrivo dell’Estonia - giovane democrazia neo-candidata, ancora priva di una tradizione consolidata nel campo dei diritti - nella Unione Europea possa determinare nella vicina Finlandia, come effetto di una globalizzazione al ribasso, la messa a rischio di diritti già acquisiti? O che i mafiosi italiani siano troppo più pericolosi di un qualsiasi criminale olandese, tanto da giustificare l’autoctono 41 bis quale eccezione a ogni regola europea comune?

La sovra-nazionalizzazione dei temi della giustizia e della esecuzione penale, da sempre prerogativa degli stati-nazione, ha in se la grande aspirazione di sottrarre agli stati l’uso discrezionale della forza, ancorandola indissolubilmente ai diritti umani, concepiti nella loro universalità, interdipendenza e indivisibilità. Negli ultimi 10 anni si è consolidato, nel più esteso Consiglio d’Europa, un meccanismo integrato di norme, sentenze e controlli ispettivi che hanno condizionato in meglio i legislatori e gli amministratori nazionali. Si consideri che l’Italia ha più volte modificato pezzi del proprio ordinamento penitenziario - l’ultima volta nella parte relativa al diritto a una corrispondenza epistolare non sottoposta a censure o controlli - a seguito delle condanne della Corte europea sui diritti umani o dei rilievi critici del Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Speriamo ora che, in sintonia a quanto suggerito dall’Europarlamento, al pari di quanto fatto di recente da Austria e Inghilterra, istituisca una autorità indipendente di controllo dei propri luoghi di detenzione. Tutto ciò sicuramente contribuisce a rendere più vivibili le nostre galere.

Un piccolo, utile riformismo penitenziario, che però non ha avuto la forza di invertire la rotta delle politiche pubbliche, tutte tendenti, viceversa, ad ampliare l’area della carcerazione e a ridurre quella dei diritti effettivi. Supponiamo però che in una ipotetica Carta europea dei diritti dei detenuti si raccolga il meglio delle norme e delle pratiche penitenziarie dei singoli paesi europei, sganciandole dalle loro storie patrie, e si preveda che per ogni diritto violato ci sia un organo giurisdizionale che possa essere garante del suo rispetto da parte delle autorità nazionali e che qualcuno sempre e a sorpresa possa accertare la conformità delle prassi alle leggi, non solo con poteri raccomandatori ma con forza sanzionatoria reale. E che per ogni diritto codificato vi sia una copertura finanziaria, affinché esso non sia un diritto di carta e non resti sulla carta. E che tali regole e tali diritti valgano allo stesso modo dalla Sicilia ai Baltici, perché con le galere nulla c’entra il relativismo culturale. Solo se questa è la premessa e se questi sono i contenuti ha un senso prendere sul serio le parole di Fodè Sylla e auspicare con lui una direttiva quadro europea sugli standard comuni di vita penitenziaria. Ogni altra interpretazione non sarebbe un passo in avanti: si muoverebbe nel solco della real-politik penal-securitaria e omologherebbe verso il basso la qualità della vita nelle galere di Europa.

 

 

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