Profili di incostituzionalità ex Cirielli

 

Profili di incostituzionalità della legge ex-Cirielli

in materia di recidiva: due soluzioni opposte

di Carlo Alberto Zaina (Avvocato)

 

Commento a Tribunale di Ravenna, ordinanze 12 gennaio 2006 - prima e seconda, e Tribunale Rimini, ordinanza 22 marzo 2006)

 

PREMESSA

 

Con l’art. 3 della L. 5.12.2005 n. 251 [1], che modifica il regime di cui all’art. 69 comma 4° c.p., in tema di giudizio di valenza fra attenuanti e l’aggravante di cui al comma 4° dell’art. 99 c.p. (nonché quelle di cui agli artt. 111, 112 co. 1° n. 4 c.p.), il giudice viene espropriato della prerogativa di esercitare la propria discrezionalità.

Viene, così, a determinarsi un ritorno al regime ante riforma del 1974.

E’ noto che l’esercizio della discrezionalità trovi, usualmente, sua piena manifestazione nel potere che il giudice ha di modulare il quantum della irroganda sanzione.

Il giudice deve, quindi, scegliere, la pena da infliggere, che deve risultare adeguata – nel disegno volitivo del giudice – al caso concreto, individuando all’interno del binario sanzionatorio la specifica fattispecie penale e muovendosi tra un massimo ed un minimo edittale,

Il trattamento punitivo che consegue alla luce della novella introdotta dalla L. 251/05, dipende pesantemente, in presenza della recidiva, inoltre, dalla contestazione di un’aggravante che, per definizione, è ritenuta di natura facoltativa.

Nonostante, infatti, la effettiva contestazione della recidiva da parte del P.M. sia obbligatoria, il giudice tuttora, in fase di emissione della sentenza di condanna, mantiene astrattamente il potere di non addivenire all’aumento di pena relativo.

Ciò in quanto il legislatore del 1974 ha usato al comma 1° il verbo potere e non già il verbo dovere e che tale previsione è rimasta inalterata, perché non mutata dalla L. 251/05.

E’ stato, così, riaffermato un limitato concetto di facoltatività.

Il potere di esclusione dell’aggravante viene a riverberare effetti solo a fini di quantificazione della pena [2].

Va, però, nuovamente richiamata all’attenzione generale la evidente singolarità del fatto che l’eventuale preclusione all’accesso a benefici che temperino effettivamente la sanzione da infliggere (ed il giudizio di prevalenza di attenuanti rispetto alla recidiva ex art. 99 c.p. va individuato fra questi) è legata esclusivamente ad una scelta discrezionale (e di diligenza) della pubblica accusa.

All’eventuale assenza della contestazione in parola da parte del P.M., non è, infatti, affatto ricollegata alcuna sanzione procedimentale (nullità od inutilizzabilità), né può esservi un intervento suppletivo del giudice in tal senso, il quale non può contestare motu proprio l’aggravante in questione, nell’inazione dell’accusa.

Sicchè, rimane sotto gli occhi di tutti il rischio evidente del verificarsi di una disparità di trattamento (sia processuale, che sostanziale), nei confronti di soggetti che pure risultino in una omogenea posizione oggettiva e soggettiva.

 

I DUBBI DI COSTITUZIONALITA’: PROFILI

 

Irragionevole e costituzionalmente illegittima appare, anche alla luce di tali premesse, la preclusione normativa, mossa e concretata nei confronti del giudice.

A costui viene impedita ogni valutazione concernente la possibilità di ritenere circostanze attenuanti inerenti alla persone del colpevole prevalenti rispetto all’aggravante di cui all’art. 99 c.p. (ed a quelle di cui agli artt. 111 e 112 c.p.).

Tale previsione normativa si pone in contrasto con l’ordinamento costituzionale, per tre principali ordini di motivi.

1. La scelta trasfusa nel testo dell’art. 69 comma 4° c.p., infatti, rende meramente formale e, comunque, tassativamente parziale (e, quindi, non rispondente all’effettività del caso concreto) la complessiva valutazione che il giudicante è chiamato a formulare in relazione al riconoscimento, in favore dell’imputato, di eventuali circostanze attenuanti.

Il giudice, all’esito del procedimento valutativo, può giungere a formulare in capo al singolo imputato, un giudizio di meritevolezza di talune attenuanti, ma, al contempo.

Egli, però, stando al dictum della novella del 5.12.05 n. 251, non potrà mai – in concreto – attribuire a tali riconosciute circostanze, sul piano squisitamente quantistico, quella valenza e quell’esecuzione piena, che, in tutte le altre occasioni è, invece, prevista ex lege.

Nel caso concreto, infatti, ad esempio, il giudice potrebbe persuadersi (in forza di elementi fattuali emersi in giudizio) della preponderanza, o dell’incidente peso positivo delle attenuanti generiche, rispetto a qualsivoglia aggravante, (sì da giudicarle prevalenti).

In presenza, però, dello sbarramento dato dalla contestazione (anche solo strumentale) della recidiva ex art. 99/4° c.p., egli si trova aprioristicamente ed irrazionalmente vincolato ope legis a non manifestare in modo pieno ed assoluto tale suo convincimento.

Deve, così, il giudicante – in forza esclusiva del dettato legislativo – contraddire il proprio orientamento, comprimendo concretamente la consequenziale portata aritmetica di un’attenuante, che egli ritiene giusta, corretta ed aderente alla fattispecie.

Egli può, quindi, solo aderire (al massimo) ad un giudizio di equivalenza fra le opposte circostanze, soluzione che non appare affatto rispettosa né delle risultanze processuali, né dell’intimo convincimento maturato.

E’, quindi, evidente che la soluzione, cui perviene a fortori il giudice, dovendo obtorto collo seguire il percorso dettato – senza alternativa alcuna - dalla norma in disamina, provoca una irreversibile discrasia fra l’interno volere del requirente e la forma della pubblica manifestazione di tale orientamento.

Il risultato cui si perviene e che è trasfuso in sentenza, non corrisponde, né può in alcun modo corrispondere, quindi, all’effettiva conclusione che il giudice ha raggiunto (e che dovrebbe, invece, costituire la vera decisione presa), né ai presupposti valutati in sede di giudizio.

Si tratta di una palese forma di strabismo giuridico.

Se ai fini della comparazione delle circostanze, nel sistema penale vigente, il criterio generale, che il giudice deve osservare, risulta dal disposto dell'art. 133 c.p., si deve concludere, nel senso che la modifica introdotta con l’art. 3 della L. 251/05, determina un’applicazione ad intermittenza della fondamentale norma di diritto sostanziale.

Si tratta di un’opzione che si pone in contrasto con il principio generale sancito dall’art. 192 co. 1 e 2 c.p.p., il quale regola i criteri di valutazione dei fatti e delle prove.

Viene frustrato e compresso, così, il libero convincimento del giudice, inteso come libertà di valutare la prova, dando conto dei criteri adottati e dei risultati conseguiti. (Cfr. Trib. Napoli, 29/03/2005, Guida al Diritto, 2005, 18, 90).

Così opinando, si crea, altresì, un palese conflitto anche in relazione alla previsione data dall’art. 526 c.p.p., che è stata ritenuta norma fondamentale al fine di focalizzare ed individuare gli apporti probatori utilizzabili in sede di deliberazione, così da «sottrarre la decisione giudiziale all'influenza di fonti di cognizione illegittime»[3].

E’, infatti, significativo che la norma, onde definire il perimetro conoscitivo del libero convincimento del giudice, faccia riferimento al concetto di «utilizzazione», quale sinonimo dell'attività deliberativa allo scopo di circoscriverne il contenuto.

A tale regola di giudizio non sfugge, né forma eccezione “la valutazione che il giudice, nel motivare la sentenza di condanna, deve formulare nel caso di concorso di circostanze aggravanti ed attenuanti” e che per la Sez. II , della corte di Cassazione (sent. 10/12/2003, n.14463, CED Cassazione, 2004) “rientra nell'ampio concetto del libero convincimento del giudice in cui si sostanzia il giudizio penale e costituisce un potere discrezionale del cui esercizio devono essere chiaramente indicati i punti essenziali e determinanti”.

L’impossibile ricorso ai parametri ivi contenuti, aprioristicamente vietato dalla legge, recide ed annulla il consolidato principio del coordinamento dell’art. 133 c.p. con l'art. 69, c.p., creando una situazione di illegittima ed isolata disapplicazione dello stesso.

A sostegno della legalità della scelta della cui costituzionalità si dubita, da taluna parte, in via meramente analogica, si richiama il dettato del comma 3 quater dell’art. 12 del dl.vo 286/98[4] in materia di cittadini extracomunitari, che pone un divieto simile, seppur ancora di maggiore ampiezza e gravità.

Tale norma, infatti, nega addirittura anche il giudizio di equivalenza tra attenuanti diverse da quelle previste dagli artt. 98 e 114 c.p. e le aggravanti di cui ai commi 3 bis e 3 ter dell’art. 12.

L’osservazione non pare pertinente, in quanto è sufficiente leggere compiutamente ed attentamente la norma invocata, per ricavarne che la deroga al giudizio di valenza, così introdotta, viene, peraltro, temperata dal fatto, che, in realtà le diminuzioni derivanti dalla concessione delle attenuanti si computano sulla pena già ottenuta con l’aumento dato dalle aggravanti di cui ai commi 3 bis e 3 ter del citato articolo.

Vale a dire, che anche se non vi è un formale bilanciamento ai sensi dell’art. 69/4° c.p., il legislatore ha pur sempre ovviato all’inasprimento sanzionatorio, permettendo, però, al giudice di intervenire in un momento successivo concretamente sulla pena quantificata a seguito dell’aumento, applicando delle diminuzioni corrispettive alle attenuanti riconosciute.

Scelta discutibile, ma costituzionalmente compatibile.

L’immagine che meglio rende l’idea della soluzione adottata è quella di un sinusoide il cui apice coincide con la pena che deriva dagli eventuali aumenti operati – in forza delle aggravanti di cui ai commi 3 bis e 3 ter – sulla pena base, mentre il correlativo pedice consiste nella pena finale, quale risultato derivato dalle diminuzioni che il giudice opera successivamente in relazione a tutte le eventuali attenuanti – diverse da quelle degli artt. 98 e 114 c.p. - .

2. Il circoscrivere al solo giudizio di equivalenza la massima espressione del favor che le attenuanti possono esprimere nell’ambito del giudizio di comparazione con le aggravanti contestate (e ritenute) è, quindi, sintomatica quanto palese della contraddizione fra l’interno volere del giudice e la manifestazione concreta ed esterna di tale volontà (che assume la forma di sentenza e si concreta nella eventuale in essa contenuta). Viene, così, limitata l’autonomia del giudice proprio nella sua funzione di maggiore importanza, ovvero l’applicazione della legge.

Il giudice in questo caso, quindi, non può – come si è anticipato - applicare in modo pieno e libero la legge, secondo il convincimento che si è formato nel corso del giudizio, in quanto preesiste un limite normativo di carattere arbitrario ed irragionevole.

Il principio di ordine generale e costituzionale per il quale il giudice è soggetto solo alla legge [5] non elide, però, il diritto che le parti processuali hanno – e tra loro in primis il magistrato ha - di dubitare della conformità della norma speciale o codicistica rispetto ai principi costituzionali formali e materiali.

Deriva da tale premessa, pertanto, che il primato della legge sul giudice non è assoluto, bensì relativo, siccome la validità della norma può essere posta in discussione.

D’altronde, appare, prima facie, chiaro che la previsione della legge quale ultimo ed unico bastione chiamato a fronteggiare il potere del magistrato sia indicazione che, più che altro, intende riaffermare l’indipendenza del corpo giudicante da ogni altro potere statuale.

Tale principio, poi, mira, soprattutto ad evitare che il giudice operi in maniera arbitraria e dissonante dalle regole che il Parlamento determina e che lo Stato accetta come proprie e promulga, malgovernando tali dettami .

La legge è il viatico ed il riferimento nel cammino del giudice.

Come detto, però, il giudice, chiamato a dare effettiva applicazione alla norma, deve fruire appieno della facoltà di valutare il dettato della stessa e, se del caso, deve esercitare il potere di dissentire, utilizzando, senza remore o limiti, gli strumenti che l’ordinamento giuridico gli ha posto a disposizione.

Emerge, quindi, come la limitazione del giudizio di comparazione fra attenuanti ed aggravanti, nel caso di specie, alla sola possibilità di equivalenza, espropri il giudice della facoltà di esercitare un suo potere discrezionale, impedendo, così, di ottenere una valutazione complessiva dell'episodio delittuoso che, pur senza rinnegare il principio della proporzione tra la pena ed il reato, tenga conto, nel commisurare la sanzione da infliggere in concreto, della particolare personalità del reo considerata sotto ogni aspetto sintomatico e della sostanziale entità della condotta criminosa.

Viene sostituito, in tal modo, quel principio giurisprudenzialmente accolto (cfr. ex plurimis Cass. pen., sez. II, 27/02/1997, n.2889, Zampella, Cass. Pen., 1998, 1102) in base al quale, onde pervenire alla concessione od al diniego delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p. (ed alla conseguente comparazione con eventuali aggravanti) il giudice del merito deve prendere in esame quello, tra gli elementi indicati nell'art. 133 c.p., che ritiene prevalente ed atto a consigliare o meno la concessione del beneficio, (sicchè, che anche un solo elemento che attenga alla personalità del colpevole o all'entità del reato o alle modalità di esecuzione di esso, può essere sufficiente per negare o concedere le attenuanti stesse), con quello della esclusione di tale delibazione.

Essa viene di fatto sostituita introducendo un inaccettabile automatismo giuridico che consiste nella predeterminazione di un elemento vanificante ogni valutazione che permetta di apprezzare la personalità del colpevole e l’identità del fatto, onde conseguire il perfetto adattamento della pena al caso concreto.

La giurisprudenza – in tema di giudizio di comparazione fra circostanze – ha sempre affermato che la recidiva, nonché eventuali precedenti condanne dell'imputato possono essere senz'altro prese in considerazione ai fini del giudizio di comparazione, giacché ben può un elemento polivalente, quale quello dei precedenti penali, essere utilizzato più volte per fini e conseguenze diversi, ma senza che esse potessero assumere un ruolo precostituito nell’economia del giudizio.

Vale a dire che non è ammissibile, né logico che siano statuite e predeterminate per legge limitazioni alla regola di complessivo bilanciamento, (di preponderanza e di prevalenza) – a fini di quantificazione della pena da infliggere - di una circostanza (attenuante od aggravante) rispetto ad altre da porre in confronto, siccome esse limitano irragionevolmente il potere valutativo del giudice.

Né si può sostenere che l’eventuale inserimento di una siffatta scelta nel campo della discrezionalità del legislatore, così come precisato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 27 del 1999 (c.c. 27.1.99 dec. 26.5.99 dep. 3.6.99) – pertinentemente richiamata dal Giudice Monocratico di Ravenna –, possa inficiare il ragionamento proposto.

Il giudice delle leggi, nell’occasione, infatti, ha affermato che la configurazione delle fattispecie criminose e la determinazione delle pene appartengono alla politica legislativa e, quindi, alla suddetta facoltà discrezionalità del legislatore, censurabile solo in caso di manifesta irragionevolezza (v. ordinanze nn. 456 del 1997 e 435 del 1998).

Con tale enunciazione, però, da un lato e sul piano squisitamente ermeneutico, si è limitata la sfera discrezionale del legislatore a due precisi temi che attengono alla definizione dello specifico reato ed alla determinazione del correlativo quantum sanzionatorio, mentre dall’altro, si è ritenuto che solo ove si verifichi il vizio di irragionevolezza tali scelte possano essere considerate contrario al dettato costituzionale.

Consegue, pertanto, che: nulla quaestio sul fatto che la recidiva di cui all’art. 99 c.p., siccome circostanza aggravante, rientri nel ricordato potere discretivo legislativo; ogni limitazione del generale procedimento di bilanciamento tra aggravanti ed attenuanti, di cui all’art. 69 c.p., per sua natura istituto di diritto sostanziale ad effetti processuali, invece, deve trovare propria estrinsecazione nell’assoluto rispetto dei principi costituzionali, non potendosi ritenere ammissibile la compromissione del diritto di uguaglianza, in virtù di una contingente ed ingiustificata modifica del procedimento di determinazione della pena, nei confronti solo di alcuni soggetti “qualificati”.

L’eventuale valutazione di irragionevolezza assume, pertanto, una funzione rafforzativa del precipuo vizio sin qui dedotto.

La vera lesione che si concreta con la norma di cui si prospetta l’incostituzionalità attiene, in conclusione, non tanto e non solo al risultato aritmetico finale cui si pervenga e sia concernente la pena inflitta, quanto piuttosto principalmente alla negazione della piena e corretta applicazione di una regola di giudizio stabilita a carattere generale sia costituzionalmente, che codicisticamente.

3. Vulnerati in maniera particolare, dalla opzione legislativa, appaiono, inoltre, sia il principio dell’uguaglianza di cui all’art. 3, che quello della sacralità della difesa di cui all’art. 24 della Costituzione.

Anche da tale prospettiva intollerabile, infatti, appare la negativa situazione che soffrono coloro nei cui confronti venga contestata la recidiva ex art. 99/4 c.p..

Costoro vengono, infatti, aprioristicamente orbati della possibilità di essere destinatari di una naturale valutazione complessiva cui tutti gli indagati/imputati devono fruire che attiene al fatto-reato nella sua interezza – quindi sia sotto il profilo oggettivo, che sotto quello soggettivo -.

Sicchè colui al quale venga contestata la recidiva prevista dal comma 4° diviene, in jure, individuo di serie B, venendo reintrodotto l’obsoleto e superato concetto di delitto o colpa d’autore[6].

Va rilevato, infatti, che talune circostanze, che, come appena detto, il giudice può ritenere effettivamente provate e applicabili in concreto, nonché valutabili ulteriormente come di marcato ed effettivo pregio positivo nella complessiva dinamica del processo, (al punto da potere assumere un peso prevalente rispetto a tutte le altre) non possono, in realtà, dispiegare alcun temperamento, proporzionato alla loro effettività.

Secondo la nuova dizione dell’art. 69 c.p., infatti, esse possono venire valutare sul piano processuale solo in maniera limitata e, indubbiamente, parziale.

Si disapplica, così, il principio di adeguatezza e proporzionalità che dovrebbe avvincere la sanzione, quale risultato conclusivo dell’iter ideativo del giudice, che reputi l’imputato responsabile del reato ascrittogli, al caso concreto.

E’ assolutamente inaccettabile, poi, che si codifichi anche una forte disuguaglianza tra persone imputate del medesimo reato, impedendo al giudice, di tenere conto nelle proprie conclusioni, in modo pieno e completo, di presupposti ed elementi naturali, gnoseologici, in realtà, esistenti, conosciuti e (parzialmente) utilizzati.

Così opinando, si dimentica, infatti, che il giudice, allo scopo di addivenire ad un giudizio finale, ha seguito un percorso ricostruttiva della vicenda, frutto di passaggi logici e caratterizzato dalla percezione ed apprezzamento di dati, i quali connotano in concreto la personalità del soggetto.

La positiva forza espansiva delle citate circostanze attenuanti viene, quindi, illogicamente compressa, poiché a quell’esame approfondito che il giudice è tenuto ad operare in ordine alla personalità del singolo, alla condotta tenuta nella fattispecie di reato, nonché a tutti gli ulteriori elementi soggettivi (che risultano requisiti essenziali del giudizio) non corrisponde, poi, una conclusione coerente e pertinente, atta a garantire la giustizia del caso concreto.

Si tratta, pertanto, di un vero attentato alla dignità dell’imputato, che in forza di una cd. circostanza impropria, di un mero status soggettivo, o come afferma costante la dottrina, di una condizione personale del reo derivante da una precedente condanna, (Cfr. Nuvolone, Il sistema del diritto penale, Padova, 1982, 337; Bettiol, Diritto penale, Padova, 1982, 521; Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte gen., Milano, 2000, 437; Mantovani, 683), non viene più giudicato come persona, bensì sic et simpliciter come recidivo, cioè come una specie del genere umano indubbiamente minore e, comunque, diversa dall’imputato.

 

IL PROBLEMA CONCERNENTE ALTRE ATTENUANTI SOGGETTIVE

 

Per avere un quadro completo della problematica in questione, ci si deve soffermare sulla circostanza che l'ultimo comma dell'art. 70 c.p. qualifica come circostanze inerenti alla persona del colpevole quelle che concerno l' imputabilità.

In questo contesto si ricomprende pacificamente il vizio parziale di mente - art. 89 -, ubriachezza non piena derivante da caso fortuito o forza maggiore - art. 91, 2° co. -, il sordomutismo - art. 96, 2° co. - e la minore età, nel caso di soggetto maggiore di anni 14 e minore di anni diciotto capace di intendere e di volere - art. 98, 1° co. -.

A tale riguardo, la giurisprudenza ha confermato che il vizio parziale di mente, attenendo alla sfera dell'imputabilità, è una circostanza inerente alla persona del colpevole ed è quindi soggetta al giudizio di bilanciamento ex art. 69 c.p. (C., Sez. III, 7.12.1992).

Or bene, con il regime sopravvenute e frutto della L. 251/2005, consegue, che la contestazione della recidiva ex art. 99 comma 4° c.p. può portare, quindi, ad una aberrante valutazione di naturale processuale, che non rispecchia minimamente il quadro fattuale.

Si intende, infatti sostenere che, su tali premesse, un soggetto recidivo reiterato, il quale ricada in una delle previsioni attenuatrici sopra indicate, le quali incidono indubitabilmente seppur parzialmente sull’imputabilità, non potrà fruire sul piano processuale degli effetti di una situazione materiale conclamata e naturalisticamente esistente.

In pratica ciò che esiste in natura, non esiste in diritto – o, comunque, non riverbera effetti concreti e se li manifesta essi sono del tutto diversi e parziali - !

Non si può, poi, sostenere che possa colmare il gravissimo gap, così formatosi, la considerazione (peraltro ovvia) di un maggior sfavore che il recidivo merita, a fronte dell’incensurato, in quanto il primo è ricaduto reiteratamente in progresso di tempo in situazioni penalmente rilevanti, ha, così, “manifestato” una superiore proclività al reato e, probabilmente, una maggiore pericolosità sociale.

E’, infatti, indubbio che pur non potendosi negare il valore delle osservazioni che precedono, si deve rammentare che esistevano già precedentemente alla L. 251/05, strumenti normativi atti a diversificare sensibilmente il trattamento sanzionatorio applicabile in situazioni di reato tra loro analoghe, che vedessero partecipi recidivi e non recidivi.

L’ampio spazio che intercorre fra la previsione del minimo e del massimo edittale della pena per tutti i delitti previsti, sia codicisticamente che da norme speciali, era, infatti, già di per sé solo sufficiente a soddisfare ogni eventuale anelito di maggiore severità nei confronti dei recidivi.

Il potere del giudice di scegliere la pena è, infatti, la massima espressione ed esaltazione del potere delibativo e del libero convincimento.

Si deve, poi, osservare come penetrante sia l’osservazione svolta dal Giudice Monocratico di Ravenna, in entrambe la sue ordinanze, laddove si evidenzia la palese differenza fra recidiva e giudizio di pericolosità del recidivo, collegamento che, invece, la L. 251/2005 ricostruisce e presume come assolutamente automatico.

La persona cui venga contestata la recidiva, infatti, può assumere tale status, sul piano meramente nominale, poiché, in concreto può essere stata condannata – come ricordato nell’ordinanza del 12 Gennaio 2006 - per i reati di ingiuria e di minaccia (di palese limitata offensività), commessi in maniera del tutto autonoma e giudicati in due distinti procedimenti penali.

Alla luce dell’esempio riportato, appare, pertanto, evidente che la preclusione, precostituita ex lege, che il recidivo subisce in un eventuale successivo e diverso processo, in relazione all’accesso al giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche, o di altra attenuante inerente alla persona rispetto ad eventuali aggravanti contestate, non trova neppure giustificazione in una valutazione di provata pericolosità del soggetto, quanto piuttosto in una mera presunzione.

Come detto, infatti, la contestazione della recidiva è scelta che dipende – oltre che da una opzione apparentemente obbligatoria, ma, nella realtà, assolutamente discrezionale del P.M. – soprattutto, dalla presenza in capo all’imputato di precedenti penali.

Esso, però, al contempo, prescinde da una valutazione effettiva di pericolosità concreta dello stesso, che possa conseguire direttamente da tali precedenti condanne o che da esse possa derivare compiutamente.

Se, quindi, la ratio dell’inasprimento del regime sanzionatorio, relativo ai reati commessi da recidivi, dovrebbe trovare qualche giustificazione nel giudizio di pericolosità e di proclività al crimine, che intrinsecamente può derivare dalla ripetuta commissione di reati nel tempo da parte del medesimo soggetto[7], non può, però, tacersi che l’art. 3 della L. 5.12.2005 n. 251, in concreto finisce per porre indebitamente ed indiscriminatamente sullo stesso piano in relazione agli effetti che l’istituto della recidiva determina, persone autrici di fatti illeciti tra loro differenti. Esse, così, vengono a soffrire, pur nella loro ontologica diversità, medesime conseguenze giuridiche.

 

ULTERIORI DUBBI: LA SURRETTIZIA RIVIVISCENZA DELLA PRESUNZIONE DI COLPEVOLEZZA E LA PENA COME MERA RETRIBUZIONE

 

Da quanto precede, si ricava che due sono gli ulteriori profili di censura che si muovono alla norma sul punto:

A) da un lato si reintroduce, contra veritas e surrettiziamente, la presunzione di pericolosità del soggetto, che una volta era prevista dall’art. 204 c.p. e che è stata abolita dall’art. 31 della L. 10 Ottobre 1986 n. 663.

Come più volte detto, il gap pagato dal “recidivo”, in termini processuali (si pensi ad esempio, tra gli altri, il gravissimo divieto previsto dall’art. 656 comma 9 c.p.p. in relazione alla sospensione dell’esecuzione di cui al comma 5° della stessa norma) e sanzionatori appare notevolmente sproporzionato anche in relazione a casi minimi, poiché ispirato ad un criterio meramente formalistico di automatico inserimento del soggetto nella categoria di coloro che suscitano, con le loro condotte, allarme sociale.

Tale presunzione di pericolosità (oltre che inammissibile) opera, quindi, in modo indiscriminato nei confronti di tutti coloro rientrino nella categoria dei recidivi, qualunque sia il tipo di reato per cui si sia stati in precedenza condannati.

B) D’altro canto, non può tacersi la palese ingiustizia ed irragionevolezza del fatto che la recidiva determini, in primis un sensibile aumento di pena – nonché, poi, le preclusioni penali processuali e sostanziali sin qui esposte – in modo del tutto omogeneo ed uguale per soggetti che, invece, presentino un percorso pregresso, penalmente rilevante, del tutto differente nel merito.

Vale a dire, riprendendo quanto già prima anticipato al precedente capo A), che non può porsi sul medesimo piano colui che sia recidivo, siccome in precedenza condannato per reati di scarso allarme sociale (od addirittura bagatellari), e colui nei cui confronti venga contestata la recidiva a seguito di condanne per fatti di indubbia gravità.

La descritta situazione diviene, quindi, naturale conseguenza della indebita omologazione che la norma opera, in relazione a situazioni tra loro naturalisticamente e giuridicamente diverse.

Nella prassi si verifica in danno del giudicante, quindi, un’espropriazione di quel potere discretivo di cui egli è munito, posto che la contestazione della recidiva, (che, si ribadisce, è obbligatoria da parte del P.M.) come in precedenza segnalato, determina uno sbarramento automatico e preventivo nell’esercizio di una valutazione complessiva del fatto e dell’autore del fatto.

4. Svuotato di significato dalla novella che involge l’art. 69 comma 4° c.p. appare, inoltre, da ultimo anche l’art. 27 della Cost. nella parte in cui esalta il carattere di rieducatività della pena.

Se è, infatti, assolutamente incontroverso che possa esservi legittimamente la previsione normativa di un aggravamento della eventuale sanzione da infliggere al recidivo, pare di potere affermare che la negazione della completa attuazione del giudizio di valenza fra attenuanti ed aggravanti, introdotta dalla nuova formulazione dell’art. 69 comma 4° c.p., per converso, accentua, illegittimamente, la funzione retributiva della pena, laddove, addirittura non la individui quale fine precipuo.

Vale a dire si può accettare che esista la recidiva nella sue articolate forme indicate dall’art. 99 c.p., quale elemento che aggrava una pena base; ma non si può accettare che essa sfugga alla piena applicazione del criterio di bilanciamento tra aggravante ed eventuali attenuanti.

In pratica, il risultato quantistico-aritmetico del calcolo che il giudice deve operare nei confronti del recidivo ex art. 99 comma 4° c.p., dovendosi limitare nella opzione più favorevole all’imputato, alla mera equivalenza fra attenuanti ed aggravanti, non è funzionale al rispetto del criterio di proporzionalità ed adeguatezza della pena rispetto al fatto-reato ed al suo autore.

Il quantum di pena che viene irrogato, in fattispecie che involgano recidivi reiterati ex art. 99/4° c.p., assolve solo allo scopo di pubblica e conclamata punizione del soggetto.

Essa non appare affatto punto di arrivo e di espressione di un giudizio che mira a fornire, tramite la pena, una risposta non solo retributiva, ma anche rieducativa.

La limitazione del giudizio di valenza alle sole ipotesi della minusvalenza e dell’equivalenza, è, purtroppo, coerente con il complessivo disegno spiccatamente repressivo che informa la L. 251/05.

Sia sufficiente, in proposito, soffermarsi sulla nuova struttura dell’art. 99 c.p[8]., per il quale, in alcuni casi gli aumenti sono determinati in misura fissa, non graduabile da parte del giudice, con buona pace della più volta ricordata discrezionalità tecnica e del libero convincimento del giudice.

Schematicamente, infatti, si deve rilevare che:

a. per la recidiva semplice si è passati da un aumento fino a un sesto all’aumento fisso di un terzo;
b. per la recidiva aggravata si è passati da un aumento fino a un terzo ad un aumento fino alla metà;
c. per la recidiva reiterata, nell’ipotesi di recidiva semplice, si è passati da un aumento fino alla metà ad un aumento fisso della metà
d. per la recidiva reiterata aggravata, si è passati da un aumento fino a due terzi ad un aumento fisso di due terzi.

A tacere delle conseguenze derivanti in tema di continuazione[9], che si commentano da sé e che sono ulteriore prova della volta di accentuare l’aspetto retributivo della sanzione verso i recidivi a scapito della funzione rieducativa.

 

OPINIONI DOTTRINALI

 

In uno dei primi importanti interventi sul tema, si è osservato in dottrina da parte di PALUMBO[10], che, nella pratica, in relazione al divieto di bilanciamento totale fra attenuanti ed aggravanti “le conseguenze sono più teoriche che effettive”.

Afferma l’Autore che “è, infatti, sempre possibile un giudizio di equivalenza tra le attenuanti, anche generiche, e le predette aggravanti. Inoltre, il giudice, muovendosi discrezionalmente tra il minimo e il massimo edittale, può pervenire ad un risultato sostanzialmente analogo a quello che si avrebbe con la prevalenza delle attenuanti. In tal modo, l’effetto preclusivo voluto dal legislatore è, di fatto, vanificato”.

Le osservazioni che precedono non possono essere condivise, in quanto peccano di apoditticità e sono, in realtà, smentite nella pratica quotidiana.

Un solo esempio è, infatti, sufficiente a confutare l’assunto.

Si pensi, infatti, all’ipotesi di un’accusa di detenzione a fine di spaccio di stupefacenti concernente una quantità modesta, di qualche grammo, tale da legittimare l’adozione di quella che ci ostina (erroneamente a parere di chi scrive) ad indicare l’attenuante della lieve entità di cui al comma 5 dell’art. 73 dpr 309/90.

Or bene, la contestazione della recidiva ex art. 99 c.p. vanificherebbe la natura di attenuante ad effetto speciale della norma (che con la novella della L. 49/2006), la quale, se riconosciuta, comporterebbe una pena che va da 1 a 6 anni di reclusione, oltre alla multa.

Tramite il giudizio di equivalenza permarrebbe, invece, la contestazione dell’ipotesi di cui all’art. 73 comma 1 che prevede, a propria volta, una pena che va da 6 a 20 anni.

Come si possa, pertanto, sostenere che un’eventuale scelta discrezionale del giudice tra il minimo e il massimo edittale della pena, permetta un risultato sostanzialmente analogo a quello che si avrebbe con la prevalenza delle attenuanti, francamente non è dato comprendersi.

Si deve, invece, convenire in ordine all’osservazione del citato Autore, secondo la quale la recidiva reiterata, che prevede un aumento fisso della metà, è di tipo facoltativo.

Da ciò deriva la conseguenza dell’assoluta illogicità della scelta legislativa, di porre il divieto di prevalenza in rapporto ad una ipotesi di recidiva facoltativa, che per sua natura, quindi, il giudice può discrezionalmente escludere.

Tale considerazione rafforza, quindi, la doglianza ed il sospetto di incostituzionalità dell’art. 69 comma 4° c.p. (in relazione all’art. 99 comma 4° c.p.), proprio in quanto non può apparire sufficiente, siccome assolutamente surrettizio, l’affermare che il giudice può, comunque, evitare le nefaste conseguenze introdotte con la L. 251/05, attraverso il meccanismo dell’esclusione della recidiva, siccome facoltativa[11].

Tale iter procedimentale, infatti, si caratterizzerebbe come frutto di una valutazione strettamente negativa, in quanto il giudice, così opinando, certamente esclude l’aggravante, (e può fare ciò per svariati motivi), ma, in realtà, non colma affatto quel divieto che si frappone e che permane con la previsione che vieta la prevalenza delle attenuanti sull’aggravante (o aggravanti).

Il giudice può, così manifestare una valutazione negativa (negare la pertinenza della recidiva), ma non può dare corso ad una valutazione positiva, consistente nell’affermare la prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti.

In pratica l’esclusione dell’aggravante, anche se può portare ai medesimi risultati dell’abrogato giudizio di prevalenza, non sostituisce, né può sostituire, quest’ultima scelta, la quale, a differenza della prima (meramente strategica), si caratterizza per essere risultato diretto di una delibazione positiva, fondata su un giudizio di meritevolezza del soggetto.

La supplenza data dalla scelta del giudice che sia fondata sulla facoltatività della recidiva attiene meramente al risultato, non già al percorso valutativo che alla stessa sottende e che, come detto, appare del tutto differente ed informato ad una delibazione completa delle componenti oggettive e soggettive relative al fatto, alla sua antigiuridicità, alla gravità delle conseguenze, alla personalità del suo autore.

 

LE DUE DECISIONI A CONFRONTO

 

Venendo alle due contrapposte pronunce, si deve, poi, sottolineare il diverso angolo prospettico che connota le stesse. Da un lato l’ordinanza del Giudice monocratico di Ravenna pone l’accento sull’aspetto strettamente dogmatico dell’istituto della recidiva e, consequenzialmente del giudizio di bilanciamento portato dall’art. 69/4° c.p., modificato dalla L. 251/05.

Accogliendo l’eccezione di costituzionalità, infatti, il Tribunale di Ravenna focalizza, infatti, il potere discrezionale del legislatore in ordine alla determinazione della quantità e della qualità della sanzione penale, sottolineando, in pari tempo, che l’esercizio di tale “potere può essere sindacato quando esso non rispetti il limite della ragionevolezza e dia luogo, quindi, a una disparità di trattamento palesemente irragionevole”.

In buona sostanza, il primo giudice – diversamente dal Giudice monocratico presso il Tribunale di Rimini le cui motivazioni si vedranno in seguito – ha considerato preminente e decisivo il pericolo di una grave discrasia sanzionatoria, (definita appiattimento) fra “situazioni che potrebbero essere assai diverse e potrebbe imporre - come nel caso di specie - l'applicazione di una pena manifestamente sproporzionata ed irragionevole, l'espiazione della quale non consentirebbe una rieducazione del condannato”, in ciò ravvisando una probabile violazione dell’art. 27/3° cost., da parte dell’art. 69/4° c.p. .

Egli ha , inoltre, valutato il problema di costituzionalità, così sollevato, come, da un lato di natura processuale, siccome fortemente incidente sulla facoltà di giudizio del magistrato, ed al tempo stesso, d’altro lato, di carattere sostanziale, in quanto riverberante effetti concreti in oridne alle conseguenza punitive che possno derivare.

Ci si è, così, soffermati strictu sensu, come sostiene chi scrive sulla problematica afferente all’equità di un risultato che derivi dalla compressione e dalla svalutazione (a fini decisori), aprioristicamente predeterminata dal legislatore, di elementi acquisiti e conosciuti dal giudice in corso di procedimento.

Di diverso afflato risulta la decisione resa in questi giorni dal Giudice monocratico presso il Tribunale di Rimini, il quale ha, invece, respinto analoga prospettata questione di costituzionalità.

Il giudicante, infatti, onde negare dignità costituzionale all’eccezione proposta, parte da un complessiva disamina dei plurimi e progressivi negativi effetti che si sono verificati in progresso di tempo, in relazione alla posizione del recidivo ex art. 99 comma 4° c.p., onde inferire da ciò una generale regola di preclusione di benefici per tale categoria di imputati.

Vengono, così, richiamati più istituti sia penali, che processuali, i quali prevedono limiti applicativi nei confronti di coloro che rientrino nella categoria dei recidivi ex art. 99 c.p..

Si muove, infatti, dall’orientamento espresso dalla Corte costituzionale, che con la ordinanza n. 421 del 23 dicembre 2004, ha rigettato la questione di legittimità costituzione riferita alla portata delle modifiche intervenute in relazione all’art. 444 comma 1 c.p.p. (in materia di patteggiamento allargato), che escludono dall’accesso a tale scelta definitoria il giudizio il recidivo reiterato.

Su tale abbrivio il giudice di Rimini, conferisce assoluta decisiità al richiamo che la Consulta opera nella citata ordinanza ad istituti quali l’amnistia, l’indulto, l’oblazione di cui all’art. 162 bis c.p., la sospensione condizionale della pena ed altri.

In pratica egli aderisce all’opinione secondo la quale non si ravviserebbero profili di irragionevolezza nella scelta di riservare un trattamento sanzionatorio differenziato – e più grave – per i recidivi, i quali “dimostrano un rilevante grado di capacità a delinquere” (con esenzione della lesione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.).

Il ragionamento presto il fianco, però, ad alcune osservazioni di dissenso.

1. E’, infatti, naturale che taluni istituti non possano trovare applicazione in presenza di condizioni soggettive dell’imputato.

Vale a dire che negare ad un soggetto recidivo ex art. 99/4° c.p la fruizione di quei benefici, che, invece, possono essere goduti dall’imputato incensurato o recidivo semplice, può essere scelta legislativa discutibile sul piano dell’opportunità, ma non lo è, certamente, su quello costituzionale.

In questo caso, infatti - a prescindere dal permanere del dubbio in ordine al modus con cui il giudice deve accertare l’effettiva pericolosità del soggetto, superando, pertanto, inammissibili presunzioni – la predeterminata opzione normativa non incide nè sul percorso valutativo del giudice, né sull’esito che deriva, in termini quantistici di pena, dalla mutilazione dei criteri delibativi cui ci si debba attenere ai sensi dell’art. 132 c.p. .

E’, quindi, ammissibile che sussistano, in presenza di situazioni soggettive, divieti normativi all’applicaizone di veri e propri benefici che la legge può prevedere, mentre, a parere di chi scrive non è condivisibile il fatto che venga alterata la regola di giudizio.

2. Lo stesso Giudice monocratico presso il Tribunale di Rimini, però, implicitamente non eclude la possibilità che il giudizio di limitata valenza che involge anche circostanze diverse dalla attenuanti generiche, quali ad esempio il vizio parziale di mente - art. 89 -, ubriachezza non piena derivante da caso fortuito o forza maggiore - art. 91, 2° co. -, il sordomutismo - art. 96, 2° co. - e la minore età, nel caso di soggetto maggiore di anni 14 e minore di anni diciotto capace di intendere e di volere - art. 98, 1° co. -, possa assumere in futuro quel pregio che la questione non assume nel presente, posto che nella fattispecie non si faceva ragione applicativa di tali circostanze.

Deriva, pertanto, la considerazione di una potenziale incostituzionalità non ravvisata e sollevata solo per meri motivi formali.

3. La funzione costituzionale di rieducatività della sanzione di cui all’art. 27 Cost., a parere del giudice riminese, non è solamente regolata dal potere del giudice di individuare la pena adeguata al caso concreto, potendo essere conivolti a pieno titolo in tale problematica anche istituti di diritto penitenziario.

La considerazione è condivisibile in linea teorica, ma non risolve il tema proposto.

Non va, infatti, dimenticato che l’elemento prodromico ad ogni analisi sulla missione di rieducare il condannato è (e resta) la pena.

Appare, pertanto, in primo luogo, improprio, quindi, invocare istituti che si applicano in sede esecutiva e attengono ad altri profili prospettici.

In secondo luogo, poi, è proprio la circostanza che la pena, che si va ad infliggere nei confronti di un soggetto, sia nella sua effettiva quantificazione del tutto e sensibilmente diversa da quella che il giudice sarebbe portato ad infliggere – per effetto di una previsione normativa che annulla parzialmente taluni esiti probatori soggettivi del processo - a determinare i forti dubbi di costituzionalità, che l’ordinanza reiettiva non riesce a vanificare.

Sul punto, quindi, vanno condivise le critiche che alla struttura dogmatica dell’istituto così stravolto dalla L. 251/05 rivolge Natalini [12], il quale stigmatizza l’irragionevolezza anche della divisione classista tra recidivi primari e recidivi secondari, in forza di “iniqui e casuali automatismi di pena”, introducendo, così, un ulteriore profilo argomentativo a sostegno di quanto si va affermando.

Note

 

[1] Art. 3. 1. Il quarto comma dell’articolo 69 del codice penale è sostituito dal seguente: «Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, esclusi i casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, nonchè dagli articoli 111 e 112, primo comma, numero 4), per cui vi è divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle ritenute circostanze aggravanti, ed a qualsiasi altra circostanza per la quale la legge stabilisca una pena di specie diversa o determini la misura della pena in modo indipendente da quella ordinaria del reato».

[2] V. in dottrina ex plurimis PEDRAZZI, La nuova facoltatività della recidiva, in RIDPP 1976, 303

[3] Bargi Alfredo, Giur. It., 1999, 354, Ribadita dalle Sezioni unite la prevalenza delle regole della «giusta decisione». Nota a Cass. pen., sez. unite, 13/07/1998, n.10086, Citaristi

[4] Art. 12 quater. Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con le aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-ter, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti.

[5] Art. 101. La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.

[6] Nella dottrina tedesca, attorno agli anni 40, si delineò accanto alla comune concezione di colpa la cosiddetta colpa d’autore o colpa per il modo d’essere (Taterschuld).

Tale concezione si basa sull’idea che è soggetto a punizione non tanto il fatto commesso, sebbene contrario a norme penali, quanto piuttosto il modo d’essere dell’agente. (Cfr. TUZZATO in www.jus.unitn.it ).

[7] Cfr. sul punto, in epoche diverse CARRARA in Opuscoli di diritto criminale, 1909, II, 142; VANNINI Il codice penale illustrato articolo per articolo, S.E.I. 1934, 410

[8] Art. 4.

1. L’articolo 99 del codice penale è sostituito dal seguente:

«Art. 99 - (Recidiva). – Chi, dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro, può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo.

La pena può essere aumentata fino alla metà:

1) se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole;

2) se il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla condanna precedente;

3) se il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena.

Qualora concorrano più circostanze fra quelle indicate al secondo comma, l’aumento di pena è della metà.

Se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena, nel caso di cui al primo comma, è della metà e, nei casi previsti dal secondo comma, è di due terzi.

Se si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2, lettera

a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto.

In nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo».

[9] Art. 5.

1. All’articolo 81 del codice penale, dopo il terzo comma, è aggiunto il seguente:

«Fermi restando i limiti indicati al terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma, l’aumento della quantità di pena non può essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave».

[10] La Ex-Cirielli in pillole - Parte Seconda (Contributo del 07/02/2006) in www.camerepenali.it.

[11] Pare, infatti, di poter identificare una unica ipotesi di recidiva obbligatoria in quella introdotta dalla stessa legge 251/2005 con l’inserimento, nell’art. 99, del quinto comma, che ricorre quando il nuovo delitto doloso rientra nel novero delle fattispecie previste nell’art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale.

[12] La nuova recidiva nella ex-Cirielli, in Diritto e Giustizia, Giuffrè, 2006, n. 11, pg. 109.

 

 

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