Mediazione e Riparazione

 

Mediazione e Riparazione

di Claudia Mazzuccato (Mediatore Penale dell’Ufficio per la Mediazione di Milano)

 

www.dignitas.it, giugno 2003

 

Un’avvertenza preliminare: la mediazione penale come esempio di giustizia consensuale e la grave insidia della retribuzione mascherata. Nel precedente articolo di Dignitas, l’esperienza della mediazione penale è stata affrontata attraverso la storia dell’Ufficio per la Mediazione di Milano. Si vuole ora proporre un ulteriore approfondimento, inquadrando i possibili scenari giuridici in cui mediazione penale e pratiche riparative possono trovare accoglienza nell’ordinamento vigente.

È opportuno sottolineare subito che tali pratiche sono state avviate finora in modo sperimentale in ambito minorile in assenza di una normativa specifica atta a regolamentarle e che il primo formale riconoscimento alla mediazione e alla riparazione si è avuto solo con le disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace.

Negli ultimi anni si è assistito poi a un progressivo farsi strada delle prassi riparatorie anche in altri contesti: la magistratura minorile, ordinaria e di sorveglianza e i servizi sociali dell’Amministrazione della Giustizia sono sempre più sensibili a queste tematiche e cominciano a farle proprie, aprendo ulteriori spazi di mediazione – riparazione: si pensi, per esempio, all’uso in chiave riparatoria di talune prescrizioni nell’affidamento in prova al servizio sociale, al ricorso alle attività di utilità sociale nella messa alla prova minorile quale riparazione simbolica, alle possibili aperture in materia di sospensione condizionale della pena, oblazione, liberazione condizionale.

Manca ancora oggi una generale disciplina ad hoc, così come un compiuto confronto interno alla dottrina penalistica; la prassi, che si apre un varco soprattutto grazie alla flessibilità educativa del processo minorile e alle innovazioni del sistema della giustizia di pace, ha dunque una grande responsabilità e un compito rilevante: l’essere campo in cui si gioca la sfida di una risposta consensuale non repressiva alle domande di giustizia, l’essere prototipo e metro di misura con cui verificare le capacità politico-criminali e l’efficacia preventiva dei nuovi strumenti.

È indispensabile che gli esiti delle pratiche mediative - riparatorie non vengano falsati da pericolose approssimazioni, da modelli poco fondati sul piano scientifico, da esperienze poste in essere da operatori impreparati. Certo, come per ogni inizio saranno necessari riflessione, studio, critica, monitoraggio per un crescente miglioramento teorico e operativo, ma è indubbio che una buona partenza e una constatabile efficacia delle nuove misure potranno sostenere autorevolmente proposte più ardite di riforma.

Le istanze fondamentali emerse dal confronto internazionale e le indicazioni fissate in alcuni recenti documenti ufficiali del Consiglio d’Europa e della Nazioni Unite rappresentano lo stato dell’arte in materia e sono preziose linee - guida per i futuri imminenti programmi. Chi si accinge a istituire servizi di giustizia riparativa deve, infatti, avere la carte in regola per costruirli in modo competente ed esperto e, in assenza di diverse indicazioni del legislatore, saranno i risultati dell’esperienza straniera uniti allo scambio interno tra gli esperti e gli studiosi a costituire il punto di partenza e il modello di riferimento.

Preme un avvertimento di fondo: si ha talvolta t’impressione che l’esperienza abbia preso il via prima della sedimentazione della cultura riparativa, con il concreto e grave pericolo che si usino strumenti nuovi e con una mentalità antica. Il punto è delicatissimo e ci si augura di poter continuare ancora la riflessione insieme al lettore; basti per ora un cenno indifferibile: se il modello di giustizia è, e continua ad essere, la ritorsione retributiva è facile cadere nella trappola di un’applicazione repressiva della restorative iustice.

La trappola potrebbe consistere, per esempio, nell’aggiunta della mediazione a percorsi già definiti sul piano processuale, nella irrilevanza - giudiziaria dell’incontro positivo tra reo e vittima, nella previsione di comportamenti riparativi obbligatori per di più sanzionati dalla revoca di un certo beneficio, nell’imposizione di attività di utilità sociale magari anche poco calibrate quanto a entità, durata e contenuto e con significative differenze tra un Tribunale e l’altro.

Non si finirà mai di sottolineare che con la giustizia riparativa non si assiste solo al recepimento di istituti importati da altri sistemi penali, ma si cominciano a delineare giuridicamente forme nuove di risposta al reato caratterizzate dal drastico affievolirsi (fino a scomparire in taluni casi) della dimensione coercitiva - afflittiva sostituita da una componente consensuale - riparativa.

L’aspirazione dei programmi di giustizia riparativa che in tutto il mondo sono stati avviati è di ampia portata. un ripensa mento generale del sistema sanzionatorio per contribuire a rendere la giustizia più costruttiva e meno repressiva.

Per non tradire simile aspirazione, per non snaturare insidiosamente simili programmi vi è, come minimo, una strada maestra immediatamente percorribile: garantire appieno il principio cardine, nitidamente affermato sia dal Consiglio d’Europa che dalle Nazioni Unite, della partecipazione libera, volontaria, consensuale alle proposte di mediazione – riparazione.

Si osserva, infatti, nella Raccomandazione (99) 19 del Consiglio d’Europa: "la partecipazione volontaria è un elemento indispensabile della mediazione in tutte le sue forme" poiché essa "non può aver luogo se le parti non vi consentono liberamente"; si raccomanda inoltre che le obbligazioni riparative vengano assunte "volontariamente".

Mai, dunque, l’incontro tra reo e offeso o un’attività riparativa possono integrare una prescrizione, un obbligo, una prestazione imposti e non spontaneamente scelti e determinati dal reo medesimo, o peggio una forma di limite alla libertà personale ad integrazione di una qualche misura di favore (magari ritenuta in se troppo blanda); mai - ci si trova costretti a ribadirlo nonostante l’evidenza - mediazione e riparazione possono diventare una pena in senso tradizionale, cioè un’esperienza di inflizione di afflizione. Ne verrebbe compromesso, fra l’altro, anche il principio costituzionale di legalità.

I percorsi di giustizia riparativa e mediazione sono liberi perché è nella facoltà degli interessati aderirvi o meno; sono volontari perché l’intero programma si regge completamente sulla sola volontà collaborativa delle parti essendo esclusa la dimensione autoritativo - decisionale del terzo (mediatore o facilitatore); sono consensuali perché ogni esito - materiale o simbolico, positivo o negativo - è frutto dell’incontro e dello scambio interpersonale.

Il perno di questi programmi sta precisamente nella forza non afflittiva del consenso di ciascun protagonista della storia criminale, cioè adire dell’intreccio fecondo del libero impegno sostenuto da ferme volontà. E qui - fuori dall’agire, subire, difendersi, risiede lo spazio, unico e prevalentemente sconosciuto al diritto penale, per una responsabilizzazione solidale dell’autore di reato, accompagnata dalla vittima e dalla collettività.

 

Lo scenario "di partenza": il sistema minorile

 

Dal 1997 sono in atto esperienze di mediazione penale in ambito minorile grazie ai principi generali sanciti dal D.P.R. 448/88 relativi alla finalità educativa e alla personalizzazione della risposta al reato del minorenne.

Accanto ai primi storici progetti-pilota di Torino, Bari e Milano, sono stati istituiti e si stanno organizzando altri uffici di mediazione penale minorile, con il patrocinio e il sostegno del Ministero della Giustizia, dei Tribunali e delle Procure per i Minorenni e degli enti locali.

Tali esperienze hanno consentito la concretizzazione delle istanze di giustizia riparativa e hanno di fatto anticipato le logiche politico - criminali che sottendono alla legge sulla competenza penale del giudice di pace (D Lgs. 274/00).

Si ricorda che il citato D.P.R. 448/88 non prevede espressamente l’istituto della mediazione, ma ne consente l’ingresso in quanto in linea con le finalità tipiche del processo penale a carico di imputati minorenni, primo fra tutte l’orientamento al recupero educativo del giovane autore di reato. In particolare, l’art. 28 del D.P.R. 448/1988, relativo all’istituto della "messa alla prova", prevede che il giudice, nel provvedimento sospensivo del processo con cui viene disposta la prova, possa impartire prescrizioni "dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del reo con la persona offesa dal reato".

Si tratta della prima norma dell’ordinamento giuridico italiano ad aver introdotto una misura riparativa in senso stretto e ad aver sovvertito il radicato assunto secondo cui solo l’entità e la natura della sanzione sono in grado di segnalare al soggetto attivo il disvalore del fatto criminoso. La possibilità di elaborare, già in fase processuale, un progetto educativo responsabilizzante che integra l’unica risposta alla commissione del reato - anche gravissimo - è un fatto senza precedenti.

Nell’esperienza degli Uffici di mediazione italiani, il ricorso alla mediazione nel contesto della prova ex art 28 è stato esiguo durante la fase iniziale di sperimentazione per evitare il sovrapporsi di modelli diversi (intervento sociale e giustizia riparativa), fra loro ancora poco coordinati, lasciando al servizio sociale il compito di proporre al Pubblico Ministero o al giudice l’attività di mediazione dopo aver valutato la personalità del minore e l’andamento della prova.

Le pratiche mediatorie vengono applicate principalmente facendo ricorso all’art. 9 del D.P.R. 448/88, in base al quale l’autorità giudiziaria minorile può acquisire informazioni utili a valutare la rilevanza del fatto e la personalità del minore. La norma non deve fuorviare: l’Ufficio di mediazione viene incaricato dal Tribunale o dalla Procura per i Minorenni di verificare la fattibilità di un incontro tra indagato - imputato e persona offesa. Il lavoro svolto dai mediatori non ha nulla a che vedere con le indagini sociali e l’intervento di esperti che forniscono informazioni.

È indispensabile mantenere la confidenzialità: l’iter mediatorio non è strumento di indagine, né i mediatori sono fonti di informazioni alla stregua di assistenti sociali o educatori. I mediatori non stendono una relazione per l’autorità giudiziaria ma si limitano - con la partecipazione degli interessati - a comunicare l’andamento e il quando della mediazione, e il relativo esito positivo, negativo, incerto. Emerge qui l’importanza del raccordo e della reciproca conoscenza tra sistema giudiziario e giustizia riparativa: è solo grazie a uno sguardo esperto anche di pratiche mediatorie che il giudice potrà cogliere nell’esito sintetico la natura - più che il contenuto - del percorso di eventuale avvicinamento e responsabilizzazione tra le parti. Concluso positivamente l’iter di mediazione ex art. 9, l’autorità procedente potrà adottare gli opportuni provvedimenti, dalla sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, al perdono giudiziale, alle sanzioni sostitutive.

Quanto alla pronuncia della sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto (art. 27 D.P.R. 448/88), un’eventuale mediazione può responsabilizzare il minore rispetto al fatto commesso, che, seppur tenue e occasionale, può essere indice di un pericoloso disagio, mantenendo integra l’assenza di risposta formale al reato tipica della misura, si colma il vuoto di "significato giuridico, etico, sociale" che spesso, per il minorenne, accompagna il provvedimento ex art. 27.

Per i reati procedibili a querela di parte, l’invio del caso agli Uffici di Mediazione avviene ai sensi delle norme processuali, che consentono di esperire un tentativo di conciliazione tra querelante e querelato. L’esperienza minorile ha insegnato l’importanza dell’autonomia dei programmi riparativi dal sistema giudiziario e la necessità che, tali programmi, siano gestiti da soggetti non incaricati dell’amministrazione della giustizia. Sono frequenti i casi di tentativi di conciliazione falliti davanti alla Polizia Giudiziaria, al Pubblico Ministero o al giudice e pienamente riusciti in seguito alla mediazione. Il dato è significativo: la terzietà non autoritativa del mediatore, unita alla possibilità di dedicarsi alle persone coinvolte nel conflitto, consentono di sbloccare situazioni radicalizzate.

I casi inviati in mediazione riguardano molti, diversi, reati, lievi, gravi e gravissimi, che suscitano in ogni caso notevole allarme sociale e spesso denotano una componente violenta (furti, danneggiamenti, ingiurie, minacce, risse, lesioni personali, lesioni gravissime, violenza sessuale, estorsione, rapine e reati con l’aggravante razziale - sia ai danni di compagni di scuola, di amici, di condomini, etc.., sia a danno di sconosciuti). Sono inoltre frequenti le mediazioni di gruppo, coinvolgenti numerosi rei e vittime, e le mediazioni relative a reati consumati in piccoli centri urbani nei quali l’illecito è l’esito finale di conflitti sociali molto più ampi.

Quanto ai provvedimenti adottati dall’autorità giudiziaria è emersa, finora, la capacità della mediazione di porsi come strumento responsabilizzante, minimamente offensivo, di rapida fuoriuscita dal circuito penale Infatti la maggioranza dei casi giunti a conclusione processuale mostra l’applicazione di una delle misure minorili fortemente orientate alla destigmatizzazione e al recupero educativo del minore o la remissione della querela: la quasi totalità dei procedimenti penali in cui si è svolta la mediazione si conclude con una misura favorevole al reo e di definizione anticipata.

Non si trascuri poi un ulteriore elemento: il percorso mediatorio offre alla vittima un ristoro materiale o simbolico che il processo penale minori le di per se non può garantire (ex art. 11 D.P.R. 448/88 non è infatti ammessa, come noto, la costituzione di parte civile). Le mediazioni hanno infatti condotto frequentemente alla riparazione delle conseguenze del reato: si è trattato sia di riparazioni materiali che simboliche. Si conferma così che la giustizia riparativa può riempire di significato responsabilizzante le misure educative che comportano l’astensione dal giudizio e dalla pena. Sulla via di una più ampia applicazione delle logiche riparative si colloca il provvedimento relativo alla competenza penale del giudice di pace.

 

Uno scenario "in costruzione": la giustizia di pace

 

II D.Lgs. 274/2000 sulla competenza penale del giudice di pace offre, per la prima volta nell’ordinamento giuridico italiano, un riconoscimento formale alla mediazione e alla giustizia riparativa, prevedendo la possibilità di ricorrere a "centri e strutture pubbliche o private" di mediazione per gli illeciti procedibili a querela di parte (art. 29 co. 4), nonché una nuova ipotesi di definizione anticipata del procedimento penale e di causa estintiva del reato in seguito a "condotte riparatorie" (art. 35).

La portata del D.Lgs. 274/2000 è ampia e assume significati politico - criminali che vanno al di là della criminalità comune e bagatellare di cui si occuperà il giudice onorario, per attingere a una razionale proposta di riforma degli strumenti sanzionatori. Il Decreto Legislativo 274/2000 sulla competenza penale del giudice di pace è, infatti, una svolta epoca le che viene fatta sottovoce: per la prima volta viene superato il carattere mono - sanzionatorio del nostro ordinamento penale per un più moderno pluralismo delle pene configurate, fin dall’inizio, come pene principali non detentive e non stigmatizzanti.

Venendo a una breve analisi della disciplina, si ricorda che l’art. 29 prevede che il giudice di pace possa fare ricorso a Uffici per la Mediazione in tutti i casi di reati perseguibili a querela: compito dei mediatori sarà lavorare sul conflitto per verificare poi l’eventuale disponibilità delle parti a rimettere la querela stessa. È opportuno però sottolineare come un simile quadro formale non è l’unico possibile ingresso della mediazione: la nuova normativa infatti è permeata dallo spirito della giustizia riparativa, dall’instaurazione anche in ambito penale di una giustizia più flessibile, vicina alle parti, attenta alla ricerca di modalità significative ma non stigmatizzanti di risposta al reato, tesa al contempo a soddisfare gli interessi della persona offesa.

L’art. 35 prevede invece espressamente un programma riparativo: anche in questo caso si produrrà l’estinzione del reato in seguito all’adoperarsi del reo per la riparazione. prima dell’udienza di comparizione (e solo eccezionalmente in un momento successivo). Proprio il riferimento temporale mostra come il sistema giudiziario debba provvedere percorsi collaudati che consentano concretamente all’autore dell’illecito di svolgere tali attività di riparazione. È difficile, infatti, immaginare che il reo, da solo, riesca a prendere contatti con la persona offesa e organizzare quanto è necessario per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato, soprattutto laddove si tratti di soggetti con scarsi mezzi economici e culturali.

Fra l’altro solo grazie al diretto incontro degli interessati, condotto con le tecniche proprie del dialogo mediatorio. è possibile raggiungere il massimo livello di soddisfazione reciproca delle parti e quindi la garanzia del sostanziale rispetto degli accordi e dell’esatto adempimento delle obbligazioni riparative - risarcitorie. Inoltre la presenza di mediatori terzi, reclutati all’interno della collettività, impedisce il possibile scadimento di questa misura in un rapporto privatistico tra reo e vittima.

Dal testo della norma emerge infatti la volontà del legislatore di evitare questo pericolo, tanto che l’effetto estintivo del reato si verifica solo se le condotte riparatorie sono in grado di mostrare la riprovazione del fatto e "garantire le esigenze di prevenzione", aspetti che - seppure formulati in modo scarsamente tassativo - afferiscono alla dimensione pubblica del diritto penale.

Analoghe considerazioni possono essere fatte a partire da una lettura riparativa dell’art. 54 (lavoro di pubblica utilità). Senza ovviamente invadere il campo dei soggetti ex lege competenti a seguire l’esecuzione di questa misura, si potrebbero configurare interventi in rete tra servizi sociali, autorità di pubblica sicurezza e uffici di mediazione. Precedere la sanzione del lavoro di pubblica utilità, applicabile solo dietro consenso dell’interessato, da una mediazione consentirebbe di introdurre una dimensione riparativa e un legame di significato tra l’illecito commesso e la relativa reazione, cosa che coinvolgerebbe maggiormente il destinatario della pena.

Il lavoro di pubblica utilità deciso dall’esito di un incontro con la vittima potrebbe più facilmente apparire agli occhi del condannato come giusto, in un’ottica di prevenzione positiva. La possibilità per i Giudici di pace di avvalersi di uffici, centri, servizi e programmi di mediazione, ispirati alle linee-guida internazionali, pare possa essere una condizione di successo delle innovative misure introdotte dal D.Lgs. 274/00.

Si teme che, altrimenti, queste ultime cadano a poco a poco in desuetudine (come è accaduto per lungo tempo alle norme dell’ordinamento che prevedevano tentativi di conciliazione), di fatto interamente sostituite dall’applicazione della sola pena. Il sistema penale perderebbe così l’occasione di incominciare davvero il proprio cammino di riforma, collaudando - a partire dalla criminalità minore - l’efficacia di nuovi strumenti "più costruttivi e meno repressivi".

 

 

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