Mediazione e riparazione

 

Mediazione e riparazione del danno
nella competenza penale del giudice di pace

di Adriano Morrone

 

* Articolo pubblicato sulla "Rassegna penitenziaria e criminologica" - dicembre 2001

 

Con l’emanazione del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, recante: "Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n° 468", il Governo ha dato attuazione alla "mini rivoluzione" nel processo penale, operata dalla legge-delega n° 468/99 e consistente nella devoluzione alla magistratura onoraria della competenza a giudicare su una serie di reati minori, tra i quali figurano:

le percosse, la lesione personale lieve, alcune ipotesi di lesioni personali colpose, l’omissione di soccorso, l’ingiuria, la diffamazione, la minaccia, i furti punibili a querela della persona offesa, la sottrazione di cose comuni, il danneggiamento, l’invasione di terreni o edifici, gli atti contrari alla pubblica decenza, nonché i reati puniti con una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro mesi, ovvero con una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena (1) .

Si tratta, soprattutto, di illeciti penali ascrivibili al profilo criminologico della micro-conflittualità privata, non particolarmente gravi, ma che spesso alimentano ragioni di disagio nei rapporti interindividuali, le quali, se non eliminate tempestivamente, possono sfociare in comportamenti illeciti più gravi.

La scelta operata dal legislatore si inserisce nell’ambito delle strategie tese a scongiurare la paralisi della "macchina della giustizia ", attraverso la riduzione del carico di lavoro dei magistrati ordinari aumentato sensibilmente in questi ultimi anni per effetto dell’inadeguatezza dell’attuale apparato processuale e giudiziario a soddisfare - a fronte di una domanda sociale di intervento repressivo di grande intensità, cui ha fatto riscontro un notevole incremento della legislazione penale posta a tutela di interessi riconducibili ai più svariati settori dell’ordinamento - le aspettative del cittadino comune di una risposta statale pronta ed efficace, risposta che dovrebbe risolversi in un rapido accertamento della responsabilità penale ed in una effettiva applicazione della sanzione prevista dall’ordinamento (2).

Il sovraccarico giurisdizionale ha, però, origini più lontane e, precisamente, nell’incapacità dello Stato democratico di tenere sotto controllo la conflittualità sociale attraverso la predisposizione di un meccanismo che garantisca la soddisfazione delle domande inoltrate dal cittadino, incapacità alla quale consegue la tendenza ad utilizzare l’azione legale, anche penale, "come mezzo per articolare domande politiche o per modificare politiche pubbliche".

Ispirato, quindi, dalla finalità di deflazione del carico giudiziario pendente presso i tribunali, nonché dall’esigenza di avvicinare la giustizia alle esigenze quotidiane del cittadino, il legislatore non si è limitato ad attribuire la competenza penale al giudice di pace, ma ha introdotto nel codice di procedura penale un vero e proprio procedimento speciale, corredato da un apparato sanzionatorio del tutto autonomo dal sistema delle pene contenuto nel codice Rocco.

Tralasciando le importanti modifiche riguardanti la fase delle indagini preliminari ed il ruolo della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, sembra opportuno soffermarsi sulle novità riguardanti la persona offesa dal reato e le attribuzioni del giudice di pace, nonché sul contenuto delle nuove sanzioni penali.

Relativamente a tali aspetti, occorre sottolineare che la legge-delega n. 468/99 ed il decreto di attuazione n. 274/2000 recepiscono gli ormai consolidati orientamenti di riforma del diritto penale sostanziale e processuale, tesi all’introduzione di nuovi sistemi di tutela dei diritti soggettivi e di governo dei conflitti interindividuali: la mediazione penale ed il risarcimento del danno.

Le nuove norme possono, quindi, essere analizzate alla luce della filosofia di "mediazione-riparazione" (3), che, consolidatasi da tempo in ambito civilistico, è ormai sottesa ai più recenti interventi legislativi in materia penale.

Il procedimento dinanzi al giudice di pace, nella prospettiva di pervenire ad una soluzione del conflitto che sia soddisfacente per la persona offesa dal reato, attribuisce alla medesima un ruolo dinamico nel processo.

Ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. n. 274/2000, la persona offesa, nel caso di reato procedibile a querela di parte, può citare a giudizio direttamente il soggetto al quale il reato è attribuito (4) .

Inoltre, l’art. 34 del citato d.lgs. ha introdotto la condizione di improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto - peraltro già presente nel diritto processuale penale minorile

- subordinandola alla mancata opposizione della persona offesa, mentre l’art. 35 prevede l’estinzione del reato "quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato" .

Gli istituti contemplati negli articoli citati tendono a valorizzare il ruolo della vittima in seno al processo penale, attribuendole uno specifico "potere di impulso" e dando rilievo all’aspetto della restitutio in integrum o del risarcimento del danno, in adesione ad un modello di "giustizia riparativa", che tende a sostituire i tradizionali modelli di giustizia "retributivo" e "riabilitativo" (5) Tuttavia, il momento di massima esaltazione del ruolo della vittima del reato può individuarsi nel tentativo di conciliazione che il giudice di pace deve obbligatoriamente esperire, ai sensi dell’arto 29, comma 4, del d.lgvo n. 274/2000, nell’ipotesi in cui l’imputazione riguardi un reato perseguibile a querelaLa norma attribuisce inequivocabilmente al giudice di pace un ruolo di mediazione e composizione degli interessi in conflitto, da svolgersi nell’udienza di comparizione delle parti.

Tale udienza, infatti, ha come scopo primario "quello di favorire, nei reati perseguibili a querela, la composizione conciliativa, e comunque di evitare ove possibile di procedere al dibattimento" (6), il quale rappresenta l’unica modalità di definizione "ordinaria" del processo dinanzi al giudice di pace, che non prevede l’applicazione dei riti alternativi (7).

In proposito occorre rilevare che la figura del mediatore si identifica in colui che si pone tra due parti in conflitto proponendo una soluzione alla loro controversia, il cui esito dipende esclusivamente dalle parti, che possono liberamente rifiutare le proposte del mediatore (8)

Alla luce di ciò le nuove nonne hanno configurato la fase conciliativa sistematicamente al di fuori dal processo, attribuendo nel contempo al giudice una limitatissima conoscenza degli atti e stabilendo l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni rese dalle parti nel corso dell’attività di "composizione bonaria" della controversia, attività che è affidata - contrariamente a quanto prevedeva l’abrogato art. 564 c.p.p. (9) ad un soggetto che non è parte processuale ( 10) . Proprio per accentuare il carattere di terzietà del mediatore, il citato art. 29, comma 4, ha previsto che il giudice di pace possa avvalersi dell’attività di mediazione di centri e strutture pubbliche o private presenti sul territorio. n buon esito del tentativo di conciliazione comporta l’estinzione del procedimento penale.

La funzione di "mediatore" del giudice di pace, sottolineata con incisività nella relazione governativa al d.lgs. n. 274/2000, deve, però, essere analizzata tenendo conto dell’effettivo significato della mediazione vittima-autore del reato, la quale si caratterizza come momento particolare in cui assume rilevanza "l’aspetto comunicativo ed espressivo dei vissuti" ed "il procedimento di riconoscimento dell’altro".

"L’obiettivo primario della mediazione, oltre eventualmente a quello di raggiungere un accordo fra le parti per un risarcimento o riparazione del danno, è un’occasione per la vittima di esprimere direttamente all’autore del reato, i propri sentimenti, le sofferenze e le proprie paure. Una possibilità di scambio, di confronto; elementi questi indispensabili per il recupero della sofferenza vissuta. Successivamente, se le parti concordano, si possono stabilire forme di risarcimento, simbolico o materiale".

La mediazione può rappresentare, in sostanza, un prezioso mezzo per consentire alla vittima di superare le sofferenze e la paura generata dall’atto criminoso e per stimolare nel colpevole nuove soglie di inibizione mediante la riflessione sulla sofferenza della vittima (11).

Di conseguenza, appare legittimo domandarsi - anche alla luce della tipologia di reati attribuiti alla cognizione del giudice di pace (contravvenzioni o delitti bagatellari) e dei tempi lunghi della giustizia in genere - se la novità introdotta dall’art. 29, comma 4, del d.lgs. n. 274/2000 possa configurarsi come vera e propria mediazione tra vittima ed autore del reato, oppure si risolva in una mera "conciliazione", che privilegia la composizione di interessi materiali mediante il risarcimento del danno o la restitutio in integrum, senza alcun approfondimento delle motivazioni all’origine del conflitto, nella prospettiva di deflazione del "carico giudiziario penale".

Per quanto concerne l’apparato sanzionatorio relativo agli illeciti penali devoluti alla competenza del giudice di pace, il d.lgs. n. 274/2000, nel dare attuazione alla delega contenuta nell’art. 16, comma 1, lettera a), della legge n. 468/99, ha previsto, in luogo della pena detentiva, la sola pena pecuniaria e, nei casi di maggiore gravità o di recidiva, l’obbligo di permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità (12).

L’abbandono della pena carceraria a favore di un sistema sanzionatorio extra codicem alternativo alla detenzione trae origine - secondo le affermazioni contenute nella già citata relazione governativa - nella palese inefficacia della pena detentiva in termini di prevenzione generale e speciale ( 13),

nonché dall’esigenza di realizzare una giustizia più vicina alle aspettative dei cittadini attraverso una risposta sanzionatoria effettiva, fondata su modelli lato sensu compensativi.

In proposito, sorge il dubbio che, al di là delle affermazioni di principio, la scelta di limitare i poteri del giudice di pace in materia di libertà personale sia piuttosto la naturale conseguenza di un atteggiamento di diffidenza verso la magistratura onoraria, largamente diffuso, anche se non sempre manifestato apertamente, nell’ambiente giudiziario (14). Si è voluto, pertanto, evitare che un giudice non appartenente ai ruoli della magistratura professionale potesse privare l’autore del reato della libertà personale, diritto la cui inviolabilità è sancita a livello costituzionale (15).

Limitando l’analisi al lavoro di pubblica utilità, occorre anzitutto sottolineare che esso, a differenza delle altre forme di community service presenti nel nostro ordinamento (16), si configura come pena principale.

Ai sensi dell’art. 54 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, il lavoro di pubblica utilità può essere applicato dal giudice di pace solamente su richiesta dell’imputato, per un periodo non inferiore a dieci giorni e non superiore a sei mesi.

Il consenso del condannato si rende necessario non solo per conseguire risultati apprezzabili sul terreno dell’effettività della pena, essendo la sanzione de qua fondata su un facere, ma

anche per evitare di configurare un’ipotesi di "lavoro forzato", incompatibile con la Costituzione.

Con una definizione mutuata in buona parte dall’art. 105 della legge 24 novembre 1981, n. 689, il lavoro di pubblica utilità viene individuato "nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato" ( 17).

Relativamente all’articolazione della nuova sanzione, si è tenuto conto delle esigenze di vita del condannato sia mediante una puntuale applicazione del principio di "territorializzazione della pena" (la prestazione, infatti, deve essere eseguita nell’ambito della provincia in cui risiede il reo) che attraverso la previsione di un regime lavorativo non oneroso e flessibile: la prestazione settimanale non può essere superiore a sei ore di lavoro - salvo espressa autorizzazione del giudice di pace su richiesta del condannato - e la durata giornaliera dell’attività lavorativa non può oltrepassare le otto ore (art. 54") commi 4 e 5).

Le nuove norme prevedono, inoltre, che, ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilità consiste nella prestazione - anche non continuativa - di due ore di lavoro mentre le modalità di svolgimento della sanzione in esame sono determinate dal Ministro della giustizia con decreto, d’intesa con la Conferenza unificata Stato-regioni e autonomie locali.

Con riferimento a quest’ultimo aspetto, è stato sottolineato che l’intervento di enti diversi dallo Stato nella definizione dell’esecuzione di una pena "non sembra del tutto coerente con l’attuale assetto costituzionale delle competenze".

Oltre al lavoro gratuito come pena principale, il legislatore, delegato ha previsto, ai sensi dell’art. 16, comma 1, lettera b)., della legge n. 468/99., che "per i reati di competenza del giudice di pace") la pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato si converte, a richiesta del condannato, in lavoro sostitutivo da svolgere per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore a sei mesi con le modalità indicate nell’articolo 54" (art. 55., d.lgs. n. 274/2000).

Si tratta di un procedimento speciale rispetto a quello previsto in via generale dalla legge 24 novembre 1981, n. 689, per la conversione della multa e dell’ammenda rimaste insolute.

Nel caso in esame, competente ad operare la conversione oppure a concedere l’eventuale rateizzazione - non è il magistrato di sorveglianza, bensi il giudice di pace ed i contenuti della sanzione sostitutiva da applicare devono essere individuati - malgrado la dizione del citato art. 55 possa far pensare al lavoro ex artt. 102 e 105 della legge n. 689/81- con riferimento a quelli propri del lavoro di pubblica utilità di cui all’art. 54 del d.lgs. n. 274/2000.

L’art. 55 prevede inoltre, che "ai fini della conversione un giorno di lavoro sostitutivo equivale a lire venticinquemila di pena pecuniaria", mentre, in mancanza della richiesta del condannato di svolgere un’attività lavorativa a favore della collettività, la pena pecuniaria insoluta viene convertita nell’obbligo di permanenza domiciliare.

Procedendo alla comparazione del meccanismo di conversione della pena pecuniaria ineseguita introdotto dalle nuove norme con quello previsto dalla legge n. 689/81, si può constatare come il primo - sebbene collocato all’interno di un diritto penale più "leggero", dal "volto mite" (18), qual è quello individuato dalle norme sulla competenza penale del giudice di pace - si risolva di fatto in un regime più gravoso rispetto al procedimento ex legge 689/81.

Più precisamente mentre la legislazione del 1981 - nel cui ambito di applicazione ricadono le pene pecuniarie irrogate per i reati più gravi rimasti di competenza del giudice professionale - prevede un meccanismo di conversione fondato sul binomio lavoro sostitutivo/libertà controllata, il sistema di conversione riguardante le sanzioni pecuniarie inflitte dal giudice di pace prevede, quale unica alternativa al lavoro sostitutivo l’obbligo di permanenza domiciliare, sanzione questa sensibilmente limitativa della libertà personale.

Di conseguenza, il sistema pensato dal legislatore come "più mite" e più confacente agli illeciti penali bagatellari sottoposti alla cognizione del giudice di pace, si rivela, in concreto, più penalizzante rispetto al meccanismo di conversione applicabile alle pene inflitte dai giudici ordinari, a causa del contenuto più afflittivo dell’obbligo di permanenza domiciliare rispetto alla sanzione sostitutiva della libertà controllata.

Alla luce di ciò, sorgono inevitabilmente dubbi sulla legittimità costituzionale del nuovo procedimento di conversione delle pene pecuniarie, con riferimento ad una presunta violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza contenuti nell’art. 3 della Carta fondamentale.

Tali dubbi assumono maggiore consistenza se si prende in considerazione l’intero sistema sanzionatorio introdotto dalle nuove norme sul giudice di pace, nonché l’art. 60 del dlgs. n. 274/2000, il quale, per assicurare effettività alle pene irrogate dal giudice di pace e dare in tal modo piena soddisfazione alla vittima del reato, esclude espressamente l’applicabilità a dette pene della sospensione condizionale prevista dagli artt. 163 e seguenti del codice penale.

Si avrà, pertanto, che persone condannate dal giudice di pace per aver commesso reati bagatellari subiranno una limitazione della libertà personale, conseguente all’espiazione della sanzione (non detentiva) inflitta, mentre soggetti condannati a pena pecuniaria o detentiva per reati di maggiore allarme sociale di competenza della magistratura professionale, rimarranno di fatto impuniti a causa della scarsa efficacia, in termini di effettività, del sistema delle pene contemplato dal codice Rocco.

Nel trarre le conclusioni da quanto evidenziato, occorre prendere atto che l’introduzione nel sistema penale della "mediazione" e della "giustizia riparativa" comporta modifiche sostanziali e processuali profonde che richiedono necessariamente la riforma dell’attuale codice penale e, ancor prima, della Costituzione.

Non sembra, quindi, condivisibile la scelta operata dal legislatore con la legge-delega n. 468/99 e con il d.lgs. n. 274/2000 di intervenire prevalentemente sulle norme processuali, enucleando, in ragione del giudice competente a decidere, un micro-sistema penale sostanziale, che si affianca, senza apportarvi modifiche, all’apparato codicistico de11930.

L’introduzione della "giustizia riparativa" all’interno del sistema penale vigente non rappresenta u

Con la "giustizia ristorativa" la pena perde quella connotazione di "sanzione punitiva" e, cioè, di sanzione "che colpisce negativamente l’autore dell’illecito in un bene giuridico che non ha un rapporto diretto con inosservanza (della norma) nell’intento di assicurare finalità di prevenzione generale, per acquisire un contenuto spiccatamente patrimoniale nella prospettiva di ristabilire lo status quo ante o di compensare, sul piano economico, gli effetti dell’illecito.

Ne consegue un profondo cambiamento del significato della pena, che non sembra facilmente conciliabile con il dettato dell’art. 27, comma 3, della Costituzione. Ciò in quanto la marcata attenzione verso l’aspetto economico e risarcitorio della sanzione penale rafforza il carattere retributivo della stessa, riducendone nel contempo la funzione di prevenzione speciale, che viene ad assumere, in concreto un ruolo quantomeno secondario se non addirittura residuale ( 19) .

La stessa idea retributiva della pena muta significato, rappresentando sempre meno "il castigo per l’illecito che non doveva essere commesso", per divenire risarcimento economico del danno sociale cagionato dal reato, richiamando in tal modo - almeno concettualmente - il risarcimento del danno conseguente alla responsabilità civile per fatto illecito.

Ma il cambiamento della funzione della pena e l’introduzione della "mediazione penale", intesa nel suo significato vero e non come semplice "conciliazione", richiedono anche una rimeditazione della concezione del reato accolta dal nostro ordinamento.

Infatti, il processo di riforma del sistema penale dovrebbe sempre più svincolarsi dalla concezione "formale" del reato accolta dalla Costituzione, per aderire ad una concezione "sostanziale" dell’illecito penale, che considera il reato non come offesa nei confronti dello Stato, bensi come lesione o messa in pericolo dei diritti della persona.

Tale cambiamento non sembra, certo, di poco conto: si tratta, infatti, di abbandonare la filosofia posta alla base del diritto penale dei paesi di civil law, per aderire ad un modello di giustizia di matrice anglosassone, nell’ambito del quale il processo penale riguarda interessi di natura prettamente privatistica e diventa una contesa tra parti private dove lo Stato interviene in qualità di "arbitro imparziale" per assicurare una soluzione pacifica del conflitto, che consenta il mantenimento dell’ordine e dell’equilibrio del gruppo sociale.

Alla luce di ciò, viene naturale chiedersi se sia effettivamente giunto il momento che il legislatore, anziché ricorrere a "soluzioni-tampone" consistenti in interventi di riforma del sistema penale parziali e "settoriali", acquisisca la consapevolezza che l’attuazione di un modello di giustizia più aderente alle esigenze quotidiane del cittadino non può prescindere da una riforma, profonda ed organica, dell’ormai obsoleto codice Rocco e da un contestuale processo di revisione costituzionale.

 

 

*Problemi e prospettive della giustizia riparativa

di Grazia Mannozzi

 

* Articolo pubblicato sulla "Rassegna penitenziaria e criminologica" - dicembre 2001

 

 

1. - Introduzione

 

Parlare di "giustizia riparativa" significa occuparsi di un tema, per cosi dire, à la mode, un tema posto al crocevia di saperi diversi - da quello giuridico e criminologico, a quello sociologico, antropologico e di psicologia sociale - che è ormai diventato il leitmotiv del dibattito giuridico dell’ultimo quarto di secolo.

Eppure, in questo specifico momento storico, la necessità di occuparsi del paradigma "riparativo"

- paradigma considerato, di recente, la sfida del nuovo millennio (1) - è dettata da esigenze peculiari ed effettive, legate in primis alla recente presa di posizione delle Nazioni Unite in relazione alla opportunità di promuovere - a livello sia nazionale che internazionale politiche di riparazione e di sostegno alle vittime. Ci si riferisce alle due Risoluzioni adottate dalle Nazioni Unite con la "Dichiarazione di Vienna" (2) che specificamente incoraggia no il ricorso a modelli di intervento sul conflitto fondati sulla riparazione delle conseguenze dannose del reato e orientati alla riconciliazione tra autore e vittima.

Rispettivamente nei paragrafi 27 e 28 della Dichiarazione di Vienna, le Nazioni Unite hanno stabilito due diversi piani di azione: l’uno volto alla adozione di attività e/o di servizi di supporto alle vittime, l’altro, teso ad incoraggiare la predisposizione di programmi di riparazione e/o riconciliazione a largo spettro, indirizzati, cioè, non solo alle vittime e agli autori qua li destinatari privilegiati, ma anche alla "comunità" (3) interessata dalla commissione del reato (o che comunque risente della commissione di questo generando, al suo interno, un aumentato bisogno di sicurezza).

I §§ 27 e 28 della Dichiarazione di Vienna, che pare opportuno riportare qui di seguito per intero, stabiliscono dunque quanto segue:

"27. Noi decidiamo di introdurre, laddove risulti opportuno, strategie di intervento a livello nazionale, regionale e internazionale a supporto delle vittime di reato, quali la mediazione egli istituti della giustizia riparativa, e fissiamo nel 2002 il termine entro il quale gli Stati sono chiamati a valutare le procedure idonee a promuovere ulteriori servizi di supporto alle vittime e campagne di sensibilizzazione sui diritti delle stesse e a prendere in considerazione l’adozione di fondi per le vittime, nonché a predisporre e sviluppare programmi di protezione dei testimoni".

"28. Noi incoraggiamo 10 sviluppo di politiche di giustizia riparativa, di procedure e di programmi che promuovano il rispetto dei diritti, dei bisogni e degli interessi delle vittime, degli autori di reato della comunità e di tutte le altre parti" (4).

 

A prima lettura, ciò che emerge dalle due risoluzioni delle Nazioni Unite è una significativa, concreta attenzione ai profili di vittimizzazione connessi alla commissione del reato, che si traduce nella promozione di un duplice intervento a favore delle vittime: di supporto diretto (anche attraverso l’istituzione di fondi di garanzia) e di sostegno indiretto (tramite la sollecitazione di campagne di sensibilizzazione sui diritti delle persone offese). Le Risoluzioni non si limitano tuttavia ad incoraggiare isoli servizi di assistenza e protezione delle vittime di reato già ben noti in Europa e, in generale, in tutta l’area occidentale - ma contengono indicazioni per una politica di più ampio respiro, che contempla anche i consolidamento delle garanzie nei confronti dei cittadini accusati o condannati ed il rafforza mento della tutela della comunità. Questa opzione si fonda probabilmente sulla consapevolezza che la promozione di una politica riparativa "sbilanciata" , a beneficio delle vittime presenta un fattore di rischio non trascurabile: nella specie, quello di favorire l’attività di gruppi di pressione che "mascherano", sotto la copertura di istanze per una "reale", tutela delle vittime, richieste di progressivi inasprimenti sanzionatori unicamente dettati da esigenze di "legge e ordine" (5), con ciò determinando una evoluzione in senso illiberale del sistema.

 

2. - La giustizia riparativa: contenuti operativi ed obiettivi politico-criminali.

 

Per comprendere quali siano, in concreto, i contenuti delle politiche di riparazione cui fa riferimento la Dichiarazione di Vienna si rendono necessarie alcune considerazioni preliminari, relative agli obiettivi "programmatici" del paradigma riparativo. L’economia del presente lavoro, tuttavia, consente di sviluppare solo l’affresco "di fondo", in cui trovano collocazione i metodi e le tecniche della giustizia riparativa, i quali si traducono, poi, a loro volta, nei singoli ordinamenti giuridici, in scelte operative differenziate. Il punto della situazione può dunque essere fissato attraverso una ricognizione, sia pure cursoria, degli obiettivi politico-crirninali della giustizia riparativa cosi come elaborati e selezionati nel corso di un dibattito più che ventennale.

Da un punto di vista sistemico, il primo interrogativo - la cui soluzione costituisce la "condizione di validità" dell’intero discorso - è se la giustizia riparativa possa considerarsi propriamente un modello autonomo di giustizia o, più semplicemente, un modo diverso di declinare la giustizia penale. per esempio attraverso l’ampliamento e la diversificazione dell’arsenale sanzionatorio.

Nelle diverse formulazioni ricevute - siano esse prevalentemente orientate sulla vittima, sulla comunità o sui contenuti della riparazione (6) - la giustizia riparativa si pone come un paradigma di giustizia alternativo tanto al modello "classico" di giustizia penale - fondato sulla retribuzione come criterio di legittimazione morale della sanzione e come parametro di commisurazione della pena (7) - quanto al modello c.d. "moderno" (8) - orientato invece alla prevenzione

(generale e speciale entrambe dicotomizzate nel binomio di accezioni: positiva/negativa) (9), che legittima l’intervento penale su base "esosistematica", (cioè sulla capacità del sistema di prevenire la commissione dei reati) e che richiede una verifica di effettività basata unicamente sui risultati.

L’autonomia e l’alternatività del paradigma riparativo derivano, a loro volta, dall’azione sinergica di due diversi fattori:

 

a) la giustizia riparativa è anzitutto una teoria "sociale" della giustizia, che non richiede più di essere fondata su considerazioni di ordine etico assoluto o su criteri di legittimazione trascendenti, bensi sul riconoscimento - per dirla con Rawls - della esistenza, nelle società contemporanee, di una pluralità di dottrine politiche, religiose, filosofiche e morali, che possono essere tra loro incompatibili, ma che tuttavia hanno, ciascuna, una loro "base di ragionevolezza" (10 ).

Alle radici del paradigma riparativo si pone, dunque, la ricerca di un modello di giustizia che sia in grado di far convergere su di se il consenso unanime dei vari gruppi sociali.

Solo in questo modo, la "riparazione" potrà essere accettata, dalle singole comunità che convivono su un determinato territorio, come strumento di controllo idoneo a ripristinare l’equilibrio sociale infranto dalla commissione del reato (11).

b) La giustizia riparativa - in quanto giustizia che "cura" anziché "punire" (12) - è orientata prevalentemente al soddisfacimento dei bisogni delle vittime e della comunità in cui viene vissuta l’esperienza di vittimizzazione. A differenza della giustizia penale "tradizionale", nella quale, pragmaticamente, le domande fondamentali sono: "chi merita di essere punito?" e ;"con quali sanzioni?", la giustizia riparativa riconosce la centralità di un interrogativo diverso: "cosa può essere fatto per riparare il danno?". Riparare non significa tuttavia, riduttivamente, controbilanciare in termini economici il danno cagionato attraverso il reato. La riparazione ha una valenza molto più profonda e, soprattutto, uno spessore "etico" che la rende ben più complessa del mero risarcimento (13).

Quest’ultima caratteristica deriva essenzialmente dal fatto che la riparazione - realizzabile anche con azioni "positive" - è preceduta normalmente da un "percorso" di mediazione/riconciliazione che implica il riconoscimento, da parte del reo, della propria responsabilità e della dimensione globale del danno arrecato alla vittima.

In particolare, il percorso di riparazione/riconciliazione che si innesca attraverso il ricorso alle tecniche e agli strumenti della giustizia riparativa è volto al perseguimento di una serialità di obiettivi che appalesano le differenze sostanziali tra il modello riparativo, di recente emersione, e quello "a base retributiva" ( anche se con componenti preventive) ereditato in Europa dalla età delle codificazioni.

I principali obiettivi appartenenti alla giustizia riparativa possono essere raggruppati in due classi distinte individuabili, rispettivamente, in base al loro rapporto di relazione con il sistema penale -processuale e in base al target di destinatari delle politiche di riparazione.

Ne deriva la seguente dicotomia tra:

A) obiettivi endo-sistematici, a destinatario specifico/individuale.

In questa prima classe trovano collocazione quegli obiettivi della giustizia riparativa destinati ad incidere prevalentemente sulla tisiologia del sistema penale, cioè sul funzionamento dei suoi meccanismi interni e/o sui soggetti che il sistema penale stesso "incardina" in ruoli predefiniti dal diritto ( es. vittima o autore di reato);

B) obiettivi eso-sistematici, a destinatario generico/collettivo.

 

A questa seconda classe appartengono invece quegli obiettivi che prendono in carico soprattutto interessi esterni al funzionamento del sistema penale nelle sue articolazioni strutturali, anche se comunque collegati alle "aspirazioni" - per citare l’ultimo von Hirsch (14) - del sistema penale nel suo complesso, riconducibili essenzialmente al contenimento della devianza e degli effetti dannosi della criminalità.

Sub (A): gli obiettivi endo-sistematici risultano essere per lo più a destinatario specifico/individuale, dato che mirano al soddisfacimento di esigenze che fanno capo a soggetti ben individuati ( in particolare, le vittime e gli autori di reato).

 

Possono essere riassunti in tre, essenziali:

1) Il riconoscimento della vittima.

La giustizia riparativa ha come obiettivo primario ( anche se non esclusivo) la presa in carico dei bisogni delle vittime di reato (15), le quali, di norma, rivestono una posizione del tutto marginale all’interno del processo penale (16). Ciò significa che, rispetto alla commissione di un reato, la condanna del colpevole e la commisurazione di una pena dosata in base alla gravità del fatto commesso oppure al "bisogno di risocializzazione" del suo destinatario - prospettive dominanti nella giustizia penale tradizionale - lasciano il posto ad una esigenza diversa: quella di riconoscere primariamente la sofferenza insita in ogni esperienza di vittimizzazione. Il presupposto logico dell’acquisizione da parte del reo della consapevolezza dei contenuti lesivi della propria condotta è costituito dal "riconoscimento" della vittima, che cessa di apparire come un "oggetto impersonale", per divènire appunto "persona", con il suo vissuto di sofferenza, di insicurezza e di umiliazione (17).

 

2) La riparazione del danno nella sua dimensione "globale".

 

Il minimo comune denominatore delle politiche riparative è rappresentato dalla riparazione del danno complessivo subito dalla vittima. Riparare il danno nella sua globalità significa anzitutto capire la sofferenza fisica e psicologica, oltre che meramente economica della vittima, e instaurare perciò una strategia "riparativa" adeguata a tutti gli aspetti del danno subito (CERETTI - cit. ; ROSSI, 1999). Quando occorre arginare gli effetti negativi di una condotta deviante, la dimensione prettamente "economica" del danno - di cui si occupano specificamente altri settori del diritto - deve essere valutata unitamente alla dimensione emozionale dell’offesa e alla produzione di "insicurezza collettiva", che talvolta induce i cittadini a modificare significativamente stile di vita o abitudini di comportamento. Ma proprio la dimensione psicologica del danno può essere utilmente gestita solo se si riesce ad arricchire la risposta "istituzionale" di strumenti diversi, basati sull’incontro, sul dialogo, sul "riconoscimento" reciproco di autore e vittima, fattori che peraltro conducono a soluzioni che contengono riparazioni simboliche prima ancora che materiali" (18). .

 

3) L’autoresponsabilizzazione del reo.

 

Sebbene la giustizia riparativa rappresenti un approccio al reato che supera la visione orientata sul solo "autore" quale destinatario dell’intervento punitivo, essa non marginalizza assolutamente il reo, sacrificandone le esigenze o comprimendo le garanzie che lo tutelano dal diritto penale, al fine di ottimizzare l’effettività della tutela delle vittime o della comunità.

Al contrario, l’autore del reato continua ad essere un co-protagonista nella gestione del conflitto, dato che la riparazione passa necessariamente attraverso una attività "positiva" del reo stesso. Ogni tentativo di avviare una mediazione o di promuovere concrete attività riparative in primo luogo si fonda sul consenso dell’autore del reato e secondariamente. si snoda lungo un percorso "mirato " che dovrebbe condurre il reo ad elaborare il conflitto e le cause che lo hanno originato, a riconoscere la propria responsabilità e ad avvertire la necessità di lenire la altrui sofferenza.

La valenza "terapeutica"che si suole associare all’intervento riparativo è perciò bidirezionale; parimenti orientata sia al soddisfacimento dei bisogni e alla promozione del sen.so di sicurezza delle vittime, sia all’autoresponsabilizzazione e alla presa in carico delle conseguenze globali del reato (danno alla vittima e alla comunità) da parte del reo (19).

 

Sub (E) : gli obiettivi eso-sistematici hanno normalmente una fascia di destinatari più ampia di quella tipica degli obiettivi endosistematici: ad esempio una determinata categoria sociale (gli extracomunitari) oppure la comunità interessata da un conflitto o, addirittura, la generalità dei consociati. Tali obiettivi possono essere cosi compendiati:

 

4) Il coinvolgimento della comunità nel processo di riparazione.

 

Una ulteriore esigenza, connessa al problema della reale tutela delle vittime, concerne il coinvolgimento della comunità nella dimensione dell’offesa (20) . In questa prospettiva, la comunità può svolgere un duplice ruolo: di destinatario delle politiche di riparazione (21) ma anche di promotore del percorso "di pace" che si fonda sulla azione riparativa posta in essere dall’autore del reato (MARCUS, 1996: 103 ss.).

L’esperienza di vittimizzazione può infatti funzionare come un catalizzatore di dinamiche sociali e comunitarie che altrimenti resterebbero bloccate dalla completa "istituzionalizzazione" del conflitto. "Nella prospettiva regolativi e comunitaria - osserva Pisapia - la vicenda della singola vittima non trova risposte unicamente in termini di servizio, ma diventa l’occasione per attivare una responsabilizzazione della collettività nei confronti degli aspetti della questione cri minale - quali l’efficacia del controllo del territorio da parte delle forze dell’ordine, l’incidenza delle politiche preventive dell’ente locale. gli effetti dell’attività trattamentale penitenziaria ecc. - che l’evento della vittimizzazione mette in luce" (PISAPIA, 1995: 119).

n discorso sin qui svolto richiede comunque una precisazione essenziale circa gli interessi di cui sono portatori, rispettivamente, vittime e comunità. Non è detto infatti che tali interessi coincidano sempre. Quando la coincidenza non si verifica, quando cioè gli interessi delle vittime e della comunità divergono ovvero i primi entrano addirittura in conflitto con i secondi, si incappa in una impasse: le vittime non possono ovviamente farsi portavoce degli interessi della comunità, cosi come la comunità non riesce a tutelare le aspettative delle vittime. In questo caso è pensabile che la gestione del conflitto torni allo Stato, sicché il giudice resta l’unico legittimato a jus dicere, confermando la funzione di orientamento connessa al diritto penale.

 

5) L’orientamento delle condotte attraverso il rafforzamento degli standard morali.

 

Nella gestione del conflitto. anche la giustizia può agire come fattore di stabilizzazione sociale, almeno se si accede ad un modello di giustizia di tipo evolutivo - secondo il quale l’opzione criminale nasce come "conflitto" e si trasforma in "consenso" (22) - in cui gli strumenti del consenso sono costituiti però non dalle sanzioni bensì dalla gestione "comunicativa" e "comunitaria"del conflitto e dalla promozione di concrete attività riparative.

La condizione, perché il modello riparativo riesca nella sua funzione ("accessoria" ma non per questo secondaria) di rafforzamento degli standards morali collettivi, è che vengano portati a conoscenza della comunità sia il processo che porta alla riparazione, sia gli esiti concreti di questa. Rispetto a tale obiettivo - che coincide per certi aspetti con "la funzione generale del diritto di produrre sicurezza delle aspettative in caso di delusione" (DE GIORGI, 1985: 120) - si rivelano particolarmente utili quei modelli di riparazione - come i "consigli commisurativi" o il "dialogo esteso ai gruppi parentali" - che, come verrà spiegato più avanti, sono strutturalmente indirizzati a tutte le parti interessate dal reato: il reo, la vittima, la comunità.

In definitiva, la giustizia riparativa non sembra intaccare la funzione simbolica della legislazione penale ( che si fonda anche sulla valenza tabuistica della pena), potendo anzi concorrere a quella funzione di orientamento delle condotte e di ingegneria sociale che alla "legge" si riconosce da tempo.

 

6) Il contenimento del senso di allarme sociale.

 

La commissione di un reato ha spesso come conseguenza immediata il verificarsi di un diffuso allarme sociale e l’aumento del senso di insicurezza dei cittadini. La percezione collettiva di insicurezza dovrebbe essere controbilanciata da un segnale dello Stato che induca i cittadini a ritenere che il comportamento violento è disvoluto dall’ordinamento e che contro di esso si attiverà la risposta istituzionale. Ma la risposta istituzionale, con i suoi meccanismi complessi di attivazione, la sua lentezza procedurale, il suo esito incerto, spesso non riesce a soddisfare il "bisogno collettivo di sicurezza " sollecitato soprattutto dalla reiterazione di comportamenti delittuosi, sia pure caratterizzati da una non particolare gravità oggettiva.

Assicurare alla comunità il potere di gestire, almeno in parte, i conflitti che si verificano al suo interno significa dunque restituire alla comunità la capacità di recuperare il controllo su determinati accadimenti che hanno un impatto significativo sulla percezione di sicurezza dei consociati o sulle loro abitudini di vita: in sostanza, significa poter contenere l’insicurezza che deriva dalla percezione - talvolta sovrastimata ma non per questo meno condizionante dei vari livelli di rischio di "vittimizzazione".

In definitiva, per trarre una prima, provvisoria conclusione circa il cambio di paradigma associato alla giustizia riparativa, si possono ricordare le parole di Luhmann: "Prima la misura del male valeva come misura della sanzione (e questo costituiva un principio di delimitazione).Attualmente, invece, ciò che rileva, prima di tutto, è una valutazione delle conseguenze - in parte delle conseguenze dell’agire penalmente perseguibile, essenzialmente però, delle conseguenze della sanzione. Questo permette di trattare la valutazione sociale dell’illecito stesso in modo variabile" (23). Proprio questa "variabilità" - da intendersi come flessibilità delle risposte, dosate sul tipo e sulla intensità del conflitto ed orientate a gesti positivi di riparazione e di riconciliazione - sembra rappresentare il principale punto di forza della giustizia riparativa.

 

3. - Tecniche e strumenti della giustizia riparativa: una visione d’insieme.

 

Capire quali tecniche di intervento sul conflitto siano ascrivibili all’alveo della giustizia riparativa è operazione, di per se, piuttosto complessa, giacche l’esperienza comparata testimonia l’esistenza di una pluralità di forme di gestione del conflitto, che talvolta possono avere solo modeste componenti riparative. Sono proprio la flessibilità e la diversificazione delle risposte, caratteristiche peculiari della giustizia riparativa, a far si che il tentativo di offrire una visione d’insieme rischi di risolversi in una operazione, per certi aspetti, "arbitraria" e, per altri, insuscettibile di offrire una informazione completa in materia.

Nell’organizzare il "materiale" esistente in tema di giustizia riparativa diventa allora essenziale affidarsi ad una chiave di lettura, per cosi dire, "ufficiale", offerta proprio dai documenti preparatori del Decimo Congresso delle Nazioni Unite che ha portato alla Dichiarazione di Vienna.

Qui di seguito verranno pertanto indicati gli strumenti che l’Intemational Scientific and Professional Advisorv Council (ISPAC) ha inteso considerare come appartenenti ai paradigma riparativo, in accordo con quanto suggerito dal § 7 della risoluzione dell’ Assemblea Generale delle Nazioni Unite 53/10 del 9 Dicembre 1998 e dei §§ 5 e 11 della risoluzione 54/12.5 del 17 Dicembre 1999 (24). Nella ricognizione dei singoli tipi di Restorative Justice Programs risultano comprese le seguenti modalità riparative, qui evocate nella formulazione linguistica originaria:

1) Apology (scuse formali): si tratta di una comunicazione verbale o scritta indirizzata alla vittima, in cui l’autore del reato descrive il proprio comportamento e dichiara di esserne pienamente responsabile.

2) Communitylfamily Group Conferencing (ossia "dialogo esteso ai gruppi parentali"): è una forma di mediazione "allargata" in cui tutti i soggetti che sono stati coinvolti dalla commissione di un reato - il reo e la vittima, in primis, ma anche i familiari delle parti in conflitto e alcuni componenti fonda mentali (key-supporters) delle rispettive comunità di appartenenza - decidono collettivamente come gestire la soluzione del conflitto. L’ordine dei colloqui e la discussione sul fatto di reato e sulle modalità per la riparazione del danno sono rispettivamente decisi e guidati da un mediatore

("facilitator"). La partecipazione al Community o al Family Group Conferencing presuppone l’ammissione di colpevolezza del reo.

3) Community/neighborhoodlvictim Impact Statements (VIS) : si tratta della mera descrizione, da parte di una vittima individuale o anche della comunità, di come un determinato reato abbia condizionato la vita o gli affetti di coloro che lo hanno subito. In generale, il VIS - che può essere redatto in forma scritta o orale - costituisce una fonte di informazione per valutare le conseguenze a breve e a lungo termine ( sul piano fisico, psicologico o economico) della commissione di un reato e, come tale, è indirizzata alla Corte competente a conoscere del fatto di reato oppure all’Ufficio del Parole (25). Il Vis può, cioè, essere utilizzato come parte del fascicolo che viene portato a conoscenza del giudice della commisurazione (pre-sentence report) (26) perché dosi una pena il più individualizzata possibile, ovvero come fonte di dati e informazioni sul reo (preparole investigation), sempre ai fini della determinazione concreta della durata della sanzione in corso di esecuzione o in vista del rilascio anticipato. Il Community Impact Statements, in particolare, viene utilizzato per i reati senza vittima (es. detenzione o cessione di sostanze stupefacenti).

4) Community Restorative Board: un "community restorative board" è tipicamente composto da un piccolo gruppo di cittadini, previamente preparati a questa funzione attraverso un training specifico. Il compito di questo organismo informa le è quello di svolgere una serie di colloqui con il reo circa la natura del reato e le conseguenze dannose o pericolose di esso allo scopo di proporre un ventaglio di azioni riparative che il reo si impegna, accettando un accordo scritto, a compiere entro un dato periodo di tempo. Una volta trascorso tale periodo di tempo, il Community Restorative Board sottopone alla Corte una relazione in cui riferisce della adesione del reo alla proposta di riparazione e delle modalità concrete attraverso cui questa è stata posta in essere.

5) Community SentencinglPeacemaking Circles (ovvero: i "consigli commisurativi") : è, questo, il principale istituto appartenente al paradigma riparativo a base realmente "comunitaria". Esso si so stanzia in una sorta di partnership della comunità nella gestione del "processo", nella specie, quello della commisurazione della pena in senso Iato, attraverso la quale si cerca di raggiungere un accordo su un programma sanzionatorio a contenuto riparativo che tenga conto dei bisogni di tutte le parti interessate da una conflitto. I Sentencing Circles - detti anche Pacemaking Circles - costituiscono una forma di processo aperto al pubblico, destinato ai casi più gravi, in cui al cospetto della Corte compaiono anche i familiari del reo e della vittima e i componenti della comunità "interessati" dalla commissione del reato. In tale contesto, ciascuno può esprimere le proprie opinioni, esigenze o necessità, in vista della formalizzazione di un programma di riparazione che abbia come beneficiari tutte le parti i cui interessi sono stati lesi dalla commissione del reato.

6) Community Service: si tratta, come è noto, della prestazione, da parte dell’autore del reato, di una attività lavorativa a favore della comunità (27).

7) Compensation Programs: con questa etichetta si intendono per 10 più programmi di compensazione dei danni da reato (spese per assistenza medica o psicologica, vitalizi per vittime divenute disabili) predisposti esclusivamente dallo Stato. Si differenziano dai "restitution programs" per il fatto che in questi ultimi il pagamento di una somma di denaro è sempre a carico del reo.

8) Diversion: è un termine generalissimo che indica ogni tecnica volta ad evitare che l’ autore di un reato entri nel circuito penale-processuale.

9) Financial Restitution to Victims: è un processo attraverso il quale la Corte competente a conoscere di un reato, avvalendosi anche del Vitcim Impact Statements (v. supra n. 3), quantifica il danno provocato derivante dalla commissione dell’illecito e perciò impone al reo il pagamento di una corrispondente somma di denaro.

10) Personal Service to Victims: si tratta di attività lavorative che il reo svolge a favore delle persone danneggiate dal reato commesso: in generale, si ricorre a questo tipo di attività per reati lievi commessi da minori, dato che tali lavori comprendono per lo più attività strutturalmente semplici (ad esempio, lavori domestici o di giardinaggio) .

11) Victiml/Community Impact Panel: è una specie di forum in cui un gruppo ristretto di vittime

(quattro o cinque al massimo) esprime ad un piccolo gruppo di autori di reati analoghi - ma non a coloro dai quali hanno subito direttamente l’offesa - gli effetti dannosi o comunque negativi sulla loro esistenza e su quella dei loro familiari (o della comunità di appartenenza) derivanti dal reato subito. Il racconto della propria esperienza di vittimizzazione, per il quale ogni vittima ha a disposizione circa quindici minuti, deve avvenire in modo informale ( cioè non "giuridico") ed essere privo di connotazioni colpevolizzanti. Sebbene sia possibile che gli autori di reato facciano domande alle vittime, si tende ad evitare che questo avvenga. La funzione precipua del Victim Impact Panel, infatti, non è tanto quella di provocare un intervento dialogico tra individui appartenenti a ruoli "diversi" - i. e. autore e vittima - bensi quella di consentire alle vittime di esprimere le sensazioni, le difficoltà e il disagio derivanti dalla esperienza di vittimizzazione. Non è escluso, ovviamente, che ciò abbia anche una valenza educativa e/o terapeutica rispetto agli autori di reato, valenza che può derivare dalla presa di coscienza di tutti i profili di dannosità delle azioni delittuose.

12) Victim Empathy Groups or Classes: si tratta di programmi educativi - rectius ri-educativi - che tendono a rendere consapevole chi si è reso autore di un reato delle conseguenze dannose della propria attività criminosa.

13) Victim-Offender Mediation (mediazione autore-vittima): in prima approssimazione, per "victim-offender mediation" si intende un processo informale in cui l’autore e la vittima di un reato, sotto la guida di un mediatore, discutono del fatto criminoso e dei suoi effetti sulla vita e sulle relazioni sociali della vittima (28). La mediazione, che mira al riconoscimento reciproco - e perciò alla comprensione degli effetti della vittimizzazione e delle motivazioni che hanno condotto il reo a delinquere - normalmente, in caso di esito favorevole, si conclude con la messa punto di un programma di riparazione (29).

Dalla ricognizione dei singoli modelli di intervento strutturati in forma di mediazione, riparazione e/ o riconciliazione potrebbe scaturire, almeno a prima lettura, una falsa convinzione, e cioè che la giustizia riparativa miri a diventare una giustizia senza "giudizio" (30), in cui le scelte almeno in parte orientate dalle valutazioni etiche o dalla "morale" delle parti in conflitto- sia pure guidate dal mediatore - sostituiscono completamente lo ius dicere.

Viceversa, la giustizia riparativa non intende farsi carico in via esclusiva del conflitto originato da un reato, assumendo una sorta di monopolio "gestionale" rispetto a determinati tipi delittuosi. Essa lavora su un conflitto che è pur sempre "definito" dal diritto penale e del quale il diritto penale può comunque riappropriarsi nel momento in cui la mediazione o la ripa razione non vadano a buon fine.

La giustizia riparativa, dunque. pur ponendosi come paradigma "alternativo", non implica la rinuncia alla giustizia penale, ma richiede un raccordo con quest’ultima, da effettuarsi attraverso la regolamentazione dei circuiti di attivazione della mediazione (o degli altri strumenti riparativi adottati) e degli effetti di questa sui meccanismi assolutori dall’osservanza del giudizio.

E neppure si deve pensare che il ricorso alla giustizia riparativa comporti quell’inevitabile "allargamento della rete" repressiva (net-widening effect) che si verifica quando la giustizia viene dotata di nuovi strumenti per fornire una risposta ad illeciti dotati di limitatissima capacità offensiva. La giustizia riparativa, infatti, pur esplicandosi nel contesto delle scelte di criminalizzazione primaria effettuate dal legislatore penale, prevede modalità risolutive dei conflitti che consentono di superare la logica pena/castigo: ciò è reso possibile dal fatto che gli strumenti della giustizia riparativa operano al di fuori del circuito processuale e penitenziario. Ne deriva che il rapporto giustizia penale/giustizia riparativa tende a polarizzarsi sulla relazione tra esiti della riparazione e definizione anticipata del processo.

 

4. - Per una paradigmatica degli strumenti della giustizia riparativa.

 

La giustizia riparativa rappresenta un paradigma che può tradursi, operativamente, in una pluralità di programmi o di istituti, sebbene i principali strumenti siano da considerare la "mediazione tra autore e vittima" e il "family group conferencing" (in Nuova Zelanda, circa il 30% di reati commessi da minori viene appunto affrontato e risolto attraverso quest’ultimo istituto) .

I programmi "riparativi" sopra elencati conoscono, nei singoli ordinamenti nei quali si ricorre alla giustizia riparativa, numerose varianti applicative. Di esse è possibile offrire un quadro riassuntivo organizzato su tre livelli: (a) soggettivo, concernente i destinatari della riparazione; (b) oggettivo, riguardante gli illeciti suscettibili di mediazione; e, infine, (c) operativo, relativo cioè al coordinamento tra sistema penale e istituti riparativi.

(a) Quanto ai destinatari delle politiche riparative va detto che alcuni programmi hanno come destinatari specifici imputati minorenni – spesso, in questi casi, la componente "rieducativi" ha il sopravvento sulla "reale tutela delle vittime" a base riparativa - mentre altri sono parimenti indirizzati sia ai minori che agli adulti autori di reato ( è quanto avviene, ad esempio, in Germania) (31). In quest’ultimo caso, la componente riparativa della misura adottata tende a prevalere su quella propriamente riconciliativa.

(b) Il tipo di reati mediabili. Alcuni programmi sono destinati alla gestione della sola criminalità di gravità mediobassa, e funzionano, nella sostanza, come tecniche di diversion;

altri programmi, viceversa, hanno un target allargato anche a reati di elevata gravità (come nell’ esperienza pilota condotta a Lovanio, in Belgio) ( 32) .

( c) Le modalità di attivazione o di ingresso dei programmi riparativi nel sistema.

Da questo punto di vista è possibile procedere ad una ulteriore suddivisione tra:

 

(aa) istituti che hanno una applicazione prevalentemente pre-processuale (si pensi alla mediazione o al Community/family Group Conferencing);

(bb) istituti che intervengono utilmente nella fase processuale o si affiancano ad essa

(Compensation Programs; Community/neighborhood/victim Impact Statements) ;

(cc) istituti che appartengono funzionalmente alla fase post-processuale o anche post-rilascio (si pensi, in questo caso, al Victim/Community Impact Pariel o alla , "diversion after conviction" cui si ricorre in Australia, o ancora al recentissimo esperimento condotto in sei istituti pènitenziari in Belgio) ( 33).

Al di là della complessità e della varietà strutturale dei singoli strumenti riparativi, va sottolineato come la mediazione autore/vittima costituisca l’istituto "cardine" della giustizia riparativa: una sorta di "pietra angolare" delle politiche di riparazione. Ciò avviene perché la mediazione è una componente essenziale ed indefettibile di molti dei programmi sopra ricordati, ma anche perché essa costituisce l’istituto che. nei vari sistemi giuridici, ha ricevuto l’applicazione più generalizzata. Sebbene in alcuni ordinamenti - è il caso dell’Italia - la mediazione costituisce ancora oggetto di progetti sperimentali su area locale, relativi, per lo più, alla legislazione minorile, in altri ordinamenti essa ha invece da tempo superato la fase della stretta sperimentazione e risulta funzionalmente inserita in una cornice di regole che ne hanno permesso la corretta integrazione nel tessuto normativo penale-processuale preesistente.

 

5. - La mediazione autore-vittima: profili contenutistici e dinamiche applicative.

 

Per certi aspetti. il rapporto che corre tra giustizia penale "tradizionale". e giustizia riparativa rinvia ad una ideale contrapposizione tra "statica" e "dinamica".- del diritto penale:

contrapposizione da intendersi qui nei termini seguenti.

Alla "statica" afferiscono la teoria del reato, la teoria della pena e il complesso delle garanzie costituzionali introdotte per arginare la pretesa punitiva dello Stato; alla "dinamica" appartengono invece tutti gli istituti a base "negoziale" (e perciò, nel nostro ordinamento, anche il "patteggiamento" ex art. 444 c.p.p., che incide, prima ancora che sull’esito del processo, sulle regole commisurative di fonte sostanziale) .

La mediazione e la riparazione possono essere considerati a pieno titolo modelli di "problem solving" di tipo "negoziale", giacche consentono, come auspicato dal Christie, una restituzione del conflitto alle parti (CHRISTIE. 1978) . Nella mediazione. in particolare, la soluzione del conflitto, lungi dall’essere imposta "dall’alto", scaturisce dalla dialettica del rapporto autore/vittima, attraverso un percorso - le cui fasi intermedie sono costituite dall’incontro, dal dialogo, dall’offerta di scuse formali o di riparazione da parte del reo, dall’accettazione delle scuse e/o della riparazione da parte della vittima - che, se ben guidato dal mediatore, può portare al superamento (o ad una evoluzione in direzione positiva) del conflitto stesso.

La mediazione, in sostanza, funziona come un sistema autopoietico di produzione del diritto: le parti. cioè, attraverso un processo guidato nel suo iter da un terzo neutrale – il mediatore. appunto - si danno delle regole rispetto al conflitto che le oppone e concordano un percorso di riparazione attraverso il quale si ripristina il canale di comunicazione sociale "interrotto" dalla commissione del reato.

Ontologicamente - se è consentito attingere dal lessico filosofico per descrivere una realtà normativa caratterizzata da componenti di psicologia comportamentale e sociale - la mediazione può essere considerata come un processo di attivazione della "conoscenza" tra autore e vittima basato sulla ricerca di un "linguaggio comune" attraverso il quale le parti possono addivenire ad una nuova "interpretazione" del fatto criminoso (34). "Interpretazione" che. quando la mediazione ha successo, sarà finalmente "condivisa" dalle parti - che altrimenti continueranno ad avere dello stesso fatto, il reato, interpretazioni diametralmente opposte (35) - e renderà il reo capace di riconoscere la propria responsabilità e, la vittima, disponibile ad accettare l’offerta di riparazione. Per avviare un programma di mediazione/riparazione il mediatore deve infatti cercare in primo luogo di promuovere il "riconoscimento" della vittima da parte del reo. Laddove il reo non giunga, durante la mediazione, a riconosce la sofferenza insita nella esperienza di vittimizzazione e, di conseguenza, a sentirsi responsabile per averla cagionata, nessuna offerta di riparazione potrà avere anche una valenza di "riconciliazione" e di ricostituzione del legame sociale infranto dal reato (36) In definitiva, la mediazione è un "processo relazionale" , in cui, la parola "scambiata" e "indirizzata" e, successivamente, la condotta riparatrice - quali modalità autoresponsabilizzanti di gestione del conflitto - possono funzionare da catalizzatori rispetto ad una positiva evoluzione sia della relazione autore/vittima, sia delle dinamiche sociali che la commissione di un reato ha innescato nella comunità.

Ma se la mediazione si arrestasse a questo stadio, essa non interesserebbe affatto il diritto, ne, tantomeno, il diritto penale: la mediazione e l’offerta di riparazione, sganciate dalla definizione penalistica del conflitto e dalla dinamica processuale, resterebbero infatti meri strumenti di politica sociale. Il diritto penale è invece costretto ad occuparsi della mediazione quando essa si incunea nella dialettica processuale (penale) , riuscendo, in caso di esito positivo, a condizionare l’esercizio dell’azione o l’esito del processo.

Limitando il discorso al nostro ordinamento, va precisato che la mediazione autore/vittima - almeno stando ai progetti pilota avviati in talune Corti di Appello rispetto alla sola giustizia minorile - si immette nella dinamica del sistema penale - processuale attraverso due modalità di ingresso principali.

A) La prima di queste può essere definita pre-processuale: quando alla mediazione si ricorre nella fase delle indagini, essa può essere vista come una tecnica di diversion. Il ricorso alla mediazione in fase pre-processuale è reso possibile, nel nostro ordinamento, dall’art. 9 d.P.R. 448/88, che consente al pubblico ministero di rivolgersi agli operatori dell’ufficio per la mediazione per acquisire una serie di conoscenze circa il minore indagato e per valutare, oltre la rilevanza sociale del fatto, l’opportunità che il minore si attivi per riparare le conseguenze del reato (37).

 

Attraverso questa norma, una gamma di caratteristiche soggettive, familiari, sociali e ambientali possono giungere a conoscenza del pubblico ministero e costituire, poi, la base "fattuale" sia per

predisporre strategie di intervento di segno riparativo e/o risocializzante. La conoscenza dell’imputato minorenne non assolve, in questo modo, ad una funzionalità monodirezionale, perché orientata al solo giudizio di colpevolezza; al contrario, tale conoscenza fa da supporto ad una serie di scelte di più ampia portata che vanno dalla decisione in merito alla rilevanza sociale del fatto

(ex art. 27 d.P.R. 448/88) alla definizione del corredo di prescrizioni per la sospensione del processo con messa alla prova (ex art. 28 d.P.R. 448/88), alla scelta delle sanzioni sostitutive da applicare in caso di condanna (38). E, in particolare, rispetto al proscioglimento per irrilevanza del fatto che l’eventuale riparazione del danno intervenuta prima dell’inizio del processo e la verifica della disponibilità del minore ad incontrarsi con la vittima e a riconsiderare la propria condotta delittuosa - effettuati con l’ausilio degli operatori sociali e dietro impulso del pubblico ministero

- possono rappresentare criteri "fattuali" significativi di valutazione della portata "antisociale" dell’episodio delittuoso. mediazione e riparazione ( da intendersi qui anche nella accezione "minima" di risarcimento) consentono peraltro di allargare le maglie dell’art 27 d.P.R. 448/88, la cui applicazione resterebbe altrimenti condizionata, probabilmente in senso rigoristico, dal solo parametro della gravità oggettiva dell’illecito.

Consentire che si acceda alla mediazione nella fase delle indagini, stante il principio costituzionale di obbligatorietà dell’azione penale, è però una scelta non scevra da inconvenienti sul piano delle garanzie. Basti pensare, per indicare solo una tra le questioni di coordinamento tra mediazione e processo astrattamente prospettabili, al problema della utilizzabilità in sede processuale delle dichiarazioni confessorie fatte dal reo per "entrare in mediazione", qualora la mediazione stessa non si sia conclusa positivamente (ad esempio, per mancanza della disponibilità della vittima a mediare o per inconciliabilità assoluta della posizioni delle parti) (39).

B) La seconda modalità di ingresso è quella processuale.

Quando il processo è già iniziato, il giudice può utilizzare la mediazione come prescrizione a corredo della sospensione del processo con messa alla prova ex art. 28 d.P.R. 44:8/88, che viene disposta dopo l’audizione delle parti (40) . Nella prassi, l’esito positivo della prova - che, a seconda delle comminatorie edittali previste per il reato per cui si procede. deve avere una durata non superiore ad un anno oppure non superiore a tre anni - ha come conseguenza la dichiarazione di estinzione del reato ( 41) .

L’articolo 28 prevede che, per il periodo della prova, il minore debba essere affidato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia che, in collaborazione con i servizi sociali locali, programmano "le opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno": scelta perfettamente coerente con l’orientamento personalistico a cui è improntata la legislazione penale - processuale minorile. Maggiori aperture in ottica "riparativa", si hanno invece sul terreno delle prescrizioni che possono essere impartite dal giudice a corredo della prova. In proposito, la legge - che concede al giudice un ampio potere discrezionale - menziona espressamente solo le prescrizioni "dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato". Due degli strumenti -cardine della giustizia riparativa possono dunque essere utilizzati dal giudice per compiere - in base a quanto richiesto dall’art. 29 d.P.R. 448/88- una valutazione del "comportamento del minorenne e della evoluzione della sua personalità", idonea a riverberare effetti rilevanti sulla definizione del procedimento.

Anche in questa fase di "attivazione" del percorso riparativo e riconciliativo - che di norma muove, per le ragioni spiegate, dalla mediazione - possono presentarsi momenti di frizione con il sistema delle garanzie processuali. In questo caso, i problemi maggiori riguardano il "consenso" alla mediazione. Se la vittima è a conoscenza che dall’esito della mediazione dipenderà l’esito della "prova" e perciò, in definitiva. il destino processuale del minorenne, non è escluso che possa sentirsi, in qualche modo, "costretta" a mediare. Il minorenne, da parte sua, potrebbe aderire alla mediazione solo per motivi strettamente utilitaristici, finendo con lo svilire lo spessore etico e la valenza sociale della mediazione stessa.

L’ altro problema che può porsi nella prassi concerne la valutazione del percorso di mediazione ai fini della "prova": una mediazione non riuscita potrà dal giudice essere presa in considerazione comunque, ai fini della valutazione del fatto o della dosimetria sanzionatoria, almeno sotto il profilo della condotta "susseguente" ex art. 133, n. 3, del codice penale?

E in che modo? Il problema è capire come potrà il giudice veni re a conoscenza della condotta che il minorenne ha tenuto durante una mediazione "non riuscita", dato il dovere di riservatezza del mediatore, che è tenuto a comunicare solo l’esito finale della stessa.

Non è questa, ovviamente, la sede per cercare una risposa a tali interrogativi che, ineludibili in un sistema di civil law ad obbligatorietà dell’azione penale come è quello italiano, mettono allo scoperto i risvolti problematici di un congegno normativo border line quale è la mediazione. La sua appartenenza ad un territorio di confine tra scienza del diritto penale, etica e criminologia fa della mediazione un strumento da un lato assai maneggevole, per la flessibilità e l’adattabilità ai diversi tipi di conflitto, ma, dall’altro, "scomodo", almeno rispetto al problema di compatibilità con un sistema di garanzie storicamente calibrato sull’autore di reato.

La mediazione, in ogni caso. pur con i limiti applicativi che ontologicamente le appartengono e con le sue difficoltà di integrazione nel sistema penale e nelle dinamiche processuali, sembra destinata ad essere oggetto di una applicazione sempre maggiore sino a svolgere un ruolo di tutto rilievo nell’ambito degli strumenti della giustizia riparativa. Almeno, questo è il trend che emerge dall’esperienza di numerosi ordinamenti europei ed extra europei; la scelta di campo in tal senso effettuata dalle Nazioni Unite con la "Dichiarazione di Vienna" ne rappresenta un’ultima, fondamentale, conferma.

 

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