Pena

 

Le novità introdotte nel 2000 con la L. 193 e il D.P.R. 230

 

Da sempre si è tentato di giustificare l’impiego della pena individuando gli elementi che la rendono più adatta alle esigenze di difesa sociale, in essa meglio rilevabili rispetto ad altre sanzioni giuridiche; tali elementi sono:

a) costante applicabilità;

b) possibilità, o maggiore possibilità, di adattarsi alla pericolosità del delinquente;

c) capacità di rieducare o rendere innocuo il delinquente;

d) possibilità di essere più fortemente sentita, costituendo valido deterrente.

Per quanto la pena sia uno dei fenomeni più diffusi e costanti della vita sociale, ne è stata spesso contestata la fondatezza da parte di pensatori e scienziati che l’hanno definita ingiusta, inutile e persino dannosa. In proposito, oltre agli utopisti Tommaso Moro e Tommaso Campanella, vanno ricordati parecchi teorici dell’anarchismo, tra cui primeggia la figura di Leone Tolstoj, e soprattutto alcuni grandi sociologi e criminalisti: Girardin, Ferri, Wargha, Montero, etc. Questi ultimi, partendo da una concezione ottimistica della vita umana, hanno sostenuto che un’opera di prevenzione largamente e sapientemente esercitata, può rendere inutile la repressione dei delitti. Tutti però prescindono da un fatto di importanza capitale, e cioè che la tendenza al delitto non è circoscritta ad una particolare categoria di individui, come nelle tesi di Cesare Lombroso, ma ha un carattere generalissimo.

La tendenza al delitto, la capacità a delinquere, in misura maggiore o minore esiste in forma più o meno latente in quasi tutti gli uomini. Sorge la necessità di un opposizione a tale propensione, individuata in una sofferenza, e il castigo diviene pertanto lo strumento (l'unico) capace di trattenere gli uomini dal commettere i delitti.

 In realtà, a tale risultato, indubbiamente, contribuiscono anche altri fattori: i sentimenti morali e sociali, il senso del dovere, dell’onore e della dignità personale, l’influenza dell’opinione pubblica, le credenze religiose, etc. (etica personale e solidarietà sociale), l’intervento educativo della scuola e la capacità formativa di ogni situazione aggregante, ivi comprese quelle lavorative.

              

Le funzioni della pena

 

Per funzione della pena si intende l’efficacia di essa, ossia l’insieme degli effetti che produce e in vista dei quali è adottata dallo Stato.

Molte sono le teorie elaborate da illustri filosofi e giuristi per definire la funzione della pena.

retributiva: la pena è il corrispettivo per aver violato un comando dell’ordine giuridico, ed è quindi la riaffermazione del diritto da parte dello Stato.

general-preventiva: la pena ha, nei confronti di tutti i consociati, un’efficacia deterrente che dissuade dal porre in essere comportamenti delittuosi coloro i quali sono portati a delinquere (Intimidazione).

special-preventiva: la pena esplica un’efficace deterrente anche nei confronti del condannato al fine di evitare nuovi comportamenti in violazione della legge; vi sono inoltre effetti rieducativi che le modalità di esecuzione della pena dispiegano sull’individuo ad essa sottoposto (emenda).

Le finalità della pena sopra descritte sono evidentemente basate su presupposti  diversi; per garantire l’efficacia della pena è necessario che esse non siano in conflitto.

Le teorie più moderne, che ambiscono ad avere un fondamento giustificato di tipo scientistico, individuano la legittimazione delle funzioni della pena non tanto su basi ideologiche, per di più esterne all’ordinamento giuridico, quanto nella misura in cui la sanzione è capace di perseguire gli obiettivi di prevenzione e di controllo delle condotte umane che le vengono assegnati. Soprattutto in relazione alla prevenzione speciale l’effettività della pena rimane tuttora una realtà indimostrata, e non può certo oggettivamente affermarsi che il nostro sistema  “migliori” sia la società tutta, sia il colpevole.

Sembra che dal punto di vista legalistico (Bentham) la carcerazione rappresenti l’unica forma di pena politicamente corretta, mentre altri studiosi che seguono il pensiero di Beccaria, come lui ritengono la carcerazione una pena irrazionale, priva di principi e inumana per l’intera società. Inoltre, “il tasso di recidivismo indica che la permanenza in prigione fa dei disadattati, esacerbando, quindi il problema del delitto”.

Un detenuto rilasciato non solo non sembra “rieducato” ma non mostra quali possono essere gli effetti della sua pena sul resto della popolazione. L’obiettivo dichiarato dal carcere non corrisponde ai suoi effetti risultati, esso può essere descritto non tanto sulla base dei suoi successi, quanto su quella delle sue limitazioni: la limitazione della libertà dell’individuo, la coercizione di vita in un ambiente residenziale sgradevole, e promotore di nuova criminalità. 

 

La risocializzazione del condannato

        

E’ oggi, quindi del tutto evidente che la pena non possa più essere considerata come un semplice castigo; emblematico in questo senso l’art. 27 della nostra Costituzione in cui è sancito il principio per cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.

Con riferimento all’Ordinamento italiano, l’Art. 27 della Costituzione, il quale prevede espressamente il trattamento inteso come un programma correzionale, che prenda inizio con la pronuncia della sentenza di condanna e raggiunga il completamento con la cessazione d’ogni controllo,  ha trovato attuazione con la riforma penitenziaria del 1975.

Con la legge 26 luglio 1975, n. 354 l’amministrazione penitenziaria è venuta ad acquisire l’indispensabile strumento normativo per adeguarsi ai precetti costituzionali dell’umanizzazione delle pene e del trattamento rieducativo per i condannati.

Per la prima volta la materia penitenziaria è  stata disciplinata con legge invece che con atti amministrativi di carattere generale.

La Legge 354/75 mostra l’evidente sfavore verso la completa esecuzione della pena inframuraria, ed introduce la possibilità di ricorrere a misure alternative alla detenzione, in pratica sancendo la fine del principio assoluto di intangibilità della sentenza di condanna.

             

 Misure alternative alla pena detentiva

Il principio della funzione rieducativa della pena ha ispirato l’introduzione nel nostro ordinamento delle Misure alternative alla detenzione, le quali, sostituendosi alle pene detentive ed abituando il condannato alla vita di relazione, rendono più efficace l’opera di risocializzazione. Ricordiamole brevemente.

        

Affidamento in prova al servizio sociale

“Il condannato a pena detentiva non superiore a tre anni ed al quale non sia stata applicata una misura di sicurezza può essere affidato al servizio sociale” per un periodo di prova, può essere quindi posto al di fuori dell’istituto di pena per tutta la durata della pena ancora da scontare, salvo, naturalmente la revoca della misura. I presupposti per ottenere tale beneficio consistono in pratica dopo l'introduzione della L. Simeone (n. 165/98),  nella durata della pena: quest’ultima non deve superare i tre anni.

E’ inoltre necessario che, dopo un periodo di osservazione della personalità di mesi uno, le prescrizioni, che l’affidato deve osservare nel corso della misura, siano sufficienti alla sua rieducazione e a prevenire una sua ricaduta nel reato. Competente per la concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale è il Tribunale di Sorveglianza. All’affidato vengono imposte delle prescrizioni che ne agevolano l’inserimento nella società: svolgere attività lavorativa che dia sufficiente garanzia, non avere rapporti personali che possano occasionare il compimento di reati, dimorare o meno in certi luoghi, adoperarsi in favore della vittima del suo delitto. Il servizio sociale controlla il comportamento del soggetto e lo aiuta nel reinserimento nella vita sociale, riferendo periodicamente al giudice di sorveglianza. L’affidamento viene revocato ogni qualvolta il comportamento dell’affidato appaia incompatibile con la prosecuzione della prova; al contrario il periodo di prova che ha esito positivo estingue la pena ed ogni altro effetto penale.

Una figura specifica di affidamento in prova è quello che si applica in casi particolari, disciplinato dall’art. 94 del D.P.R. 9-10-1990, n. 309 (così come modificato dalla L. 14-07-1993, n. 222 e definitivamente consacrato dalla Simeone): si tratta dell’affidamento in prova relativo a condannati tossicodipendenti che abbiano in corso o intendano sottoporsi ad un programma di recupero.. Costoro possono chiedere in ogni momento di essere affidati in prova al servizio sociale qualora la pena detentiva loro inflitta o ancora da scontare non superi i 4 anni, e purché abbiano in corso o intendano intraprendere un programma riabilitativo, la cui sussistenza ed idoneità deve essere accertata e certificata dal servizio pubblico per le tossicodipendenze.

 

Semilibertà

      

La riforma del 1986 puntava a rimuovere una palese incoerenza prospettatasi nell’esperienza applicativa; la giurisprudenza infatti esigeva, ai fini dell’applicazione della misura, che il condannato avesse iniziato l’esecuzione della pena al momento dell’istanza: la necessità di non interrompere un percorso rieducativo già avviato in sede extramuraria condusse all’introduzione di una modalità di accesso alla semilibertà che prescindeva dalla instaurazione della detenzione. Ispirato all’analoga soluzione adottata in tema di affidamento in prova, il dettato del comma 6 dell’art.50 ord. penit. prevedeva che la semilibertà per le pene non superiore a sei mesi potesse essere “altresì disposta” prima dell’inizio dell’esecuzione qualora il condannato avesse dimostrato la propria “volontà di reinserimento nella vita sociale”; la semilibertà per pene non superiore a sei mesi si presenta quindi sotto una veste anomala, innestata sul ceppo della figura madre destinata ai condannati a pene medio-lunghe. Ma la semilibertà “ordinaria” svolge funzioni transitorie tra il regime di piena detenzione e la scarcerazione finale, che la tipologia riformata non possiede.     

La semilibertà ordinaria è concessa sulla base dei progressi compiuti durante il trattamento, ed è finalizzata a facilitare il graduale reinserimento sociale del soggetto.

La disciplina della semilibertà prevede che i condannati alla pena dell’arresto di qualunque entità o della reclusione non superiore a sei mesi possano essere ammessi a trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto per partecipare ad attività lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale. Il limite dei sei mesi suddetto vale solo per la reclusione, per cui i condannati all’arresto possono sempre essere ammessi a godere della semilibertà. Nel caso di pena detentiva superiore ai sei mesi al detenuto è concesso il beneficio solo dopo aver scontato metà della pena o  due terzi nei casi dei reati di maggior allarme sociale. La semilibertà è concessa dal Tribunale di sorveglianza, ed è revocata se il condannato si dimostra inidoneo al trattamento, ovvero se il condannato rimane assente dall’istituto per più di dodici ore o non vi faccia rientro. Con la L.356/92 recante “Provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa” si è posto il divieto di concessione delle misure alternative alla detenzione (tra cui la semilibertà) ai soggetti che abbiano riportato condanna per alcuni tipi di reato: associazione di stampo mafioso o finalizzata allo spaccio di stupefacenti, sequestro di persona con finalità di rapina o di estorsione, etc. La concessione è, tuttavia, ammessa allorquando il condannato svolga attività di collaborazione con la giustizia e non vi siano a suo carico elementi tali da lasciar presumere attuali collegamenti con la criminalità organizzata.

        

Liberazione anticipata

 

La liberazione anticipata consiste in una riduzione di pena di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di detenzione scontata, concessa a quei condannati a pena detentiva che abbiano fornito prova di partecipazione all’opera di rieducazione. E’ necessario ricordare che l’articolo 54 O. P. è stato oggetto di un intervento della Corte costituzionale, la quale lo ha dichiarato costituzionalmente illegittimo relativamente alla parte in cui non consentiva la concessione della liberazione anticipata ai condannati all’ergastolo. Nel computo del tempo è valutato anche il periodo trascorso in stato di custodia cautelare a detenzione domiciliare.

La finalità principale dell’istituto consiste nel rendere più efficace il reinserimento del condannato nella società; la prospettiva di ricevere tale beneficio costituisce un incentivo per il condannato a collaborare attivamente all’opera di rieducazione.

   

 Detenzione domiciliare   

    

Si tratta di una forma di espiazione della pena presso la propria abitazione. La pena della reclusione non superiore ai quattro anni e la pena dell’arresto possono essere scontate anche nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura o assistenza quando trattasi di soggetti con particolari problemi personali o di salute.

La detenzione domiciliare si differenzia dagli arresti domiciliari, in quanto, quest’ultima figura costituisce un provvedimento di carattere cautelare, che viene adottato nei confronti di soggetti che non sono stati ancora condannati con una sentenza definitiva.

L’ibridismo della detenzione domiciliare, a parer nostro, è aumentato con l'introduzione della legge Simeone  (165/98), che disciplina, infatti, una misura del tutto singolare nel quadro delle alternative alla pena detentiva. Dalla lettera della disposizione non emerge, infatti, né che l’istituto in questo caso abbia quei contenuti rieducativi che la costituzione impone in via generale perché possa attuarsi la sostituzione dell’espiazione in forma detentiva con misure ad essa alternative, né che la deroga al regime detentivo ordinario sia introdotta per ragioni di contemperamento con altri interessi costituzionalmente tutelati. Le motivazioni che hanno indotto ad un innesto di questo genere sono altre e concernono il tentativo di evitare ai condannati a brevi pene detentive il contatto con l’ambiente del carcere. Alla misura si accede sulla base di un giudizio prognostico circoscritto alla idoneità riconosciuta al beneficio di essere in grado di fronteggiare il pericolo che il soggetto commenta altri reati; ma la legge non specifica in alcun modo quali siano gli  elementi da cui questa valutazione deve scaturire. I parametri di riferimento normativo su cui la decisione deve basarsi, sono dunque piuttosto indeterminati e tali da rendere prospettabile una indiscriminata sottrazione del condannato alla sanzione della pena detentiva.

        

 Il lavoro come strumento trattamentale elettivo

 

Lavorare per un detenuto è un diritto più che un dovere. Il lavoro è essenziale nel trattamento rieducativo, così come sancisce l’art. 15 dell’O.P.

Al condannato “deve” essere assicurato un lavoro, salvo i casi di impossibilità soggettiva (cioè propria del soggetto e non dell’amministrazione), come recita in modo tassativo il secondo comma. Lo sforzo dell’Amministrazione Penitenziaria per adeguarsi a questo principio non sembra però, ad oggi,  aver sortito grandi risultati. L'Art. 50 del DPR 230, peraltro, afferma perentoriamente che I condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro, che non siano stati ammessi al regime di semilibertà o al lavoro all'esterno o non siano stati autorizzati a svolgere attività, artigianali, intellettuali o artistiche o lavoro a domicilio, per i quali non sia disponibile un lavoro corrispondente ai criteri indicati nel sesto comma dell'articolo 20 della legge (l'O.P. n.d.r.), sono tenuti a svolgere un'altra attività lavorativa tra quelle organizzate dell'istituto. Se esiste, ci permettiamo di rilevare.

 

Il lavoro in carcere

 

L’Amministrazione Penitenziaria è in grave difetto, come abbiamo detto, perché non soddisfa il dovere di fornire lavoro; a tale dovere corrisponde un diritto (del condannato) ad ottenere quel “trattamento rieducativo” che è incentrato proprio sul lavoro.

In tale situazione, che ormai si trascina da anni, nel 1993, si è  tentato il coinvolgimento dell’esterno(vedi quanto da me scritto su questa stessa rivista nel 1993), mediante l’introduzione degli artt. 20 bis e 25 bis. Ma il tentativo fino ad oggi non ha dato gli esiti sperati.

L’Amministrazione avrebbe potuto cedere alcune sue competenze a terzi mediante “contratti d'opera” nel settore della direzione tecnica e della formazione del personale; si sarebbero potute istituire a titolo sperimentale nuove lavorazioni avvalendosi se necessario “dei servizi prestati da imprese pubbliche o private ed acquistando le relative progettazioni”.

Sono state istituite le “Commissioni Regionali per il lavoro penitenziario” ma almeno fino ad oggi non si sono visti apprezzabili risultati e non risulta che abbiano partorito le “direttive” di cui parla la legge, in base alle quali il Provveditore dovrebbe organizzare le lavorazioni (trovando anche i locali che spesso neanche ci sono).

Il legislatore nel 1993 ha riconosciuto che l’Amministrazione Penitenziaria da sola non è in grado di affrontare un problema del genere; che la stessa per tradizione ha il grave compito di sorvegliare e di custodire i detenuti e di assicurare l’ordine e la disciplina; che al trattamento concorre tutta la comunità, come ricorda l’art. 17, tuttora purtroppo usato con grande parsimonia e nel senso, sbagliato, di mera “assistenza” a detenuti.

Il legislatore del 2000 ha compiuto un ulteriore passo al comma 2 dell'Art. 1 della L. 193 del 22 giugno, laddove,  introducendo il doppio regime  contributivo per le cooperative sociali, rispettivamente previsto dalla nuova formulazione del comma 3 dell'Art. 4 della L. 381 e dall'introduzione del successivo comma 3 bis, per i quali l'agevolazione può consistere nelle aliquote ridotte a zero (ipotesi comma 3) o nelle aliquote ridotte in misura percentuale individuata ogni due anni con decreto ministeriale (ipotesi comma 3 bis), finalmente formalizza l'inclusione dei detenuti e degli internati nelle categorie dei soggetti svantaggiati previste dalle succitate norme.

Appare evidente che trattasi di un percorso da gambero, quello del legislatore, non riuscendo francamente a capire la ragione di tale sdoppiamento, ed anzi rilevando che, semmai, le categorie maggiormente disagiate sono proprio quelle incluse nel regime per così dire , meno di favore; ci riferiamo infatti ai condannati detenuti sic et simpliciter, non usufruenti, cioè di alcuna misura alternativa alla detenzione, nonché agli ex internati in O.P.G.  Non risulta assolutamente allineata a criteri di logica giuridica o trattamentale neppure la differenziazione fra i condannati ammessi al lavoro esterno ex Art. 21 O.P. e quelli ammessi alle misure alternative

Assai più comprensibile e condivisibile appare invece l'estensione delle agevolazioni contributive ad aziende pubbliche o private che organizzino attività produttive o di servizi, inframurarie, impiegando persone detenute o internate, seppure nel regime di sgravio più limitato.

Il DPR 230, all'Art. 47,  specifica espressamente che le lavorazioni penitenziarie , sia interne che esterne all'istituto, possono essere organizzate dalle direzioni penitenziarie, da imprese pubbliche o private e, in particolare, da imprese cooperative sociali, in locali concessi in comodato dalle direzioni. Il comma 1 prosegue poi con la definizione della organizzazione di tali lavorazioni. Il comma 3 ulteriormente specifica che, le convenzioni con le cooperative sociali di cui al c. 1, possono anche avere ad oggetto servizi interni, come quello di somministrazione del vitto, di pulizia e di manutenzione dei fabbricati. Questa è una novità assoluta che sancisce, in pratica, il riconoscimento del valore degli accordi convenzionali e programmatici intercorsi fra il Ministero della Giustizia e la Cooperazione Sociale negli ultimi anni.

Tale riconoscimento era già stato attuato mediante l'art. 5 della L. 193, il quale, apportando alcune modifiche all'Art. 20 della L. 354, ha introdotto una deroga al regime ordinario, stabilendo la possibilità per le direzioni penitenziarie, centrali e locali, di stipulare apposite convenzioni con soggetti pubblici e privati o cooperative sociali, finalizzate a fornire ai detenuti opportunità lavorative.

 

Il lavoro fuori dal carcere   

 

La novità più evidente introdotta dalla  L. 193 sembrerebbe essere la possibilità di ottenere sgravi fiscali, non meglio identificati, ed anzi rimandati nella loro definizione concreta ad apposito decreto del Ministero della Giustizia da emanarsi di concerto con i Ministeri del lavoro e della previdenza sociale entro il 31 maggio di ogni anno, da parte di altri soggetti imprenditoriali, oltre alle imprese sociali, che assumano lavoratori detenuti per un periodo di tempo non inferiore ai trenta giorni o che svolgano effettivamente attività formativa nei confronti dei detenuti, ed in particolare dei giovani detenuti. Il successivo Art. 6 ragguaglia modalità ed entità di tali agevolazioni alle risorse finanziarie disponibili, e stabilisce altresì il limite di 9 miliardi per l'anno in corso.

Dal canto suo il Regolamento 230, agli Artt. 48 e 54, disciplina il lavoro esterno e il lavoro in semilibertà, richiamando espressamente l'applicazione dei diritti riconosciuti ai lavoratori liberi, con le sole limitazioni che conseguono agli obblighi inerenti alla esecuzione della misura privata della libertà.

Le ultime due novità degne di nota che ci pare debbano esser richiamate riguardano in primis  il disposto dell'Art. 5, comma 2 della L. 193, secondo il quale : Agli effetti della presente legge, per la costituzione e lo svolgimento di rapporti di lavoro nonché per l'assunzione della qualità di socio nelle cooperative sociali di cui alla legge 8 novembre 1991, n. 381, non si applicano le incapacità derivanti da condanne penali o civili.

Sempre la L. 193, infine, dispone all'Art. 1, laddove modifica l'Art. 4 della 381 introducendovi il comma 3 bis, e all'Art. 3, laddove coinvolge le imprese che assumono detenuti,  che: Gli sgravi contributivi o le agevolazioni  di cui al presente comma (Art. 1per i primi, Art. 3 per le seconde, n.d.r.) si applicano anche nel periodo di 6 mesi successivo alla cessazione dello stato di detenzione.

         

Alcune riflessioni riguardanti il lavoro dei condannati nelle cooperative

       

Sono fortemente convinto che , oggi, la cooperazione sociale costituisca lo strumento elettivo di offerta lavorativa per i detenuti, e quindi, uno degli strumenti trattamentali più efficienti proposti dal territorio. Ma ciò significa non circoscrivere la portata dell'intervento alla sola dimensione lavorativa. Le cooperative devono giocare un ruolo come attori del reinserimento sociale, non solo lavorativo. per far questo occorre una presa di coscienza ideologica e metodologica, iniziando dalla prassi quotidiana ed investendo, in concreto, il proprio modo di agire complessivo.

Esiste, ad esempio,  un aspetto di contesto generale comune a tutte le cooperative: la persona è inserita secondo un contratto di lavoro o formativo, sa che le vengono richiesti puntualità, continuità, impegno, sa che ci sono delle regole dichiarate da rispettare come in un qualsiasi ambiente di lavoro.

Per il condannato tutto ciò diventa formativo nel momento in cui è assunto all’interno di un progetto personalizzato e sottoposto a verifica periodica.

Perciò al momento dell’inserimento è necessaria una prima valutazione del reale possesso da parte della persona  di comportamenti coerenti con le necessità e le regole del lavoro, vale a dire:

puntualità;

conoscenza, utilizzo e manutenzione delle attrezzature usate;

tenuta dei ritmi di lavoro;

continuità durante la giornata e la settimana;

capacità di organizzare fasi lavorative di piccola e media difficoltà;

ordine e pulizia personale;

modalità di relazionarsi con i compagni, con gli operatori e con il coordinatore/responsabile di settore.

Questi punti, presentati o come “regole” o come obiettivi generali della cooperativa al momento del colloquio d’ingresso, costituiscono un vademecum fondamentale di ri-adattamento della persona condannata alle regole primarie del vivere sociale, e dall'inosservanza di questi può già desumersi un'incapacità di tenuta ad altri e ben più gravi stimoli negativi. Se non sono posseduti, devono diventare obiettivi specifici da raggiungere. Su tali obiettivi va costruito il progetto individuale, affinché diventi lo strumento di controllo di  tutto l’intervento risocializzante.

Il progetto individuale deve prevedere, fra gli altri, il monitoraggio di un elemento fondamentale, vale a dire la capacità relazionale della persona condannata.

 

Gli aspetti relazionali

     

All’interno dell’organizzazione del lavoro in cooperativa è necessario controllare ed incentivare l'acquisizione di capacità relazionali necessarie a ri-costruire la propria identità sociale gravemente compromessa dalle vicende giudiziarie e detentive.

Ai lavoratori condannati, ne più ne meno che agli altri, ma con maggior attenzione al processo di autonomizzazione, deve richiedersi di essere capaci di comunicare in modo costruttivo, saper collaborare con gli altri,  saper riconoscere e accettare il conflitto,  essere in grado di assumersi responsabilità anche minime, ecc.

Aiutare queste persone ad acquisire professionalità significa quindi anche aiutarle ad entrare in relazione e a costruire rapporti, non dimenticandosi che sovente l'incapacità comunicativa, è elemento fortemente criminogenico. Se è vero, come è vero, che fra le categorie di svantaggio, i detenuti costituiscono quella di maggior marginalità e isolamento, sia come percezione esistenziale di sé che come realtà di fatto, è chiaro che la cooperativa deve curare in modo particolare la rete di relazioni interne trasformandole in continua occasione di crescita.

Non deve spaventare il rischio di recidiva: assai di più faccia paura, e stimoli di conseguenza il cooperatore, l'incapacità a comunicare e  relazionare con la persona condannata; se ciò dovesse accadere ogni lavoro offerto,  seppur positivo ed appagante, risulterebbe mero veicolo di transizione fra l'uscita dal carcere e il prossimo rientro.

 

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