Droghe: le nuove "tabelle"

 

Le nuove tabelle relative alle sostanze stupefacenti:

una ulteriore fonte di dubbio

di Carlo Alberto Zaina

 

Non si può essere talmente ipocriti ed incoerenti, da invocare a viva voce il criterio della indeterminatezza in relazione a fattispecie quali la lieve entità e l’ingente quantità e, indi, scandalizzarsi se si opera un tentativo, (timido e contestabile sinchè si vuole), finalizzato, però, a delimitare e costruire un concetto quello della detenzione che peraltro assume una valenza penale.

Si può non essere d’accordo (e chi scrive non lo è) con la scelta legislativa e con le procedure adottate per promulgarla, ma bisogna essere costruttivi sul punto, per non isterilire il dibattito in corso.

Ciò significa, sul piano della morfologia normativa, accettare in qualche maniera che venga superata quell’esaltazione della discrezionalità del magistrato, che ha determinato un ingente carico in capo a quest’ultimo di oneri che non gli competono (come purtroppo sino ad oggi è stato fatto) e che mira a sopperire a genetiche carenze legislative..

La previsione di legge deve, pertanto, mirare ad essere informata a principi di legalità e tassatività proprio per superare il rischio di indeterminatezza ed incertezza cui si faceva cenno prima.

Si deve, così, riconoscere che la scelta di parcellizzare i quantitativi da cui derivare la non punibilità del soggetto potrebbe avere astrattamente riflessi interessanti, ma che, in concreto, essa sia soluzione discutibile e poco praticabile, in quanto adottata in maniera avulsa da una valutazione sistematica complessiva coinvolgente l’intero pacchetto normativo.

Restano, infatti, sul terreno vari problemi, laddove addirittura essi non vengano amplificati dalla novella legislativa intervenuta.

Il primo e più grava problema è quello riguardante l’onere della prova.

La struttura sistematica della norma attuale (corredata dal dato tabellare) farebbe si di ritenere che vi sia una presunzione di non punibilità, ove si rinvengano quantitativi di stupefacente meramente detenuti, che risultino sul piano ponderale al di sotto del tetto massimo stabilito dalle tabelle.

Al contempo la norma in questione induce a ritenere che, in casi analoghi di sola detenzione di stupefacenti, ove si verta in ambito di superamento di tale limite ponderale (relativo al solo principio attivo) intervenga una presunzione uguale e contraria.

In buona sostanza, nell’ipotesi che il compendio illecito ecceda quantitativamente (sotto il profilo del citato principio attivo) i limiti tabellari dovrebbe considerarsi operativa una presunzione juris et de jure di detenzione illecita dello stupefacente, siccome esso verrebbe ritenuto destinato alla spaccio, con un giudizio di sfavore per l’indagato.

Questi non avrebbe possibilità seria di contestare l’assunto, con alligazioni probatorie, sicchè egli sarebbe alla mercè di un dato meramente presuntivo, che prescinde da una completa ed esauriente valutazione della dinamica dei fatti.

Credo che una siffatta interpretazione normativa che, prima facie, potrebbe apparire effettivamente possibile sotto il profilo processuale, debba essere energicamente disattesa.

Penso, infatti, a quale livello di difficoltà venga introdotto con la necessità di identificare nell’immediatezza dell’accertamento di fatti, il grado di purezza della sostanza e l’effettiva rispondenza della stessa ai criteri tabellari.

Sono persuaso del fatto che, anche se può essere astrattamente ammissibile una presunzione di non punibilità del detentore, fondata sulla valutazione del quantitativo di principio attivo, ci si debba domandare come si possa – in ipotesi di operazioni di polizia giudiziaria – stabilire tout-court se tale quantitativo rientri nei parametri, in carenza di strumenti atti ad effettuare sul posto ove l’operazione di polizia sia stata svolta ed immediatamente alla conclusione della stessa un’analisi spettrografia e chimica, che possa dimostrare il grado di purezza dello stupefacente.

Intendo dire che il porre, ad elemento centrale del discrimine che deriva fra detenzione illecita e finalità di spaccio, il dato meramente nominalistico – riferito, poi, in maniera specifica al puro principio drogante – sia opzione foriera di incertezze, di possibili quanto inevitabili errori, che possono ricadere sull’inquisito.

Come detto si pensi all’imbarazzo delle forze dell’ordine, per le quali non sarà né semplice, né pacifico dare corso ad un arresto in stato di apparente flagranza di reato, in quanto si deve valutare (non si sa in quale modo) preliminarmente ad ogni altra attività ed in tempo reale, se la fattispecie concreta, che ha determinato l’intervento di p.g., configuri un illecito penale o meno.

Si tratta di una situazione di dubbio e preoccupazione che si trasmetterà in virtù di un palese effetto devolutivo sia al P.M., che dovrà chiedere la convalida dell’arresto, che al G.I.P. chiamato a decidere della legittimità dello stesso ed all’applicazione di eventuali misure cautelari.

Credo, pertanto, che nonostante l’apparente oggettività del complesso normativo, more solito, debba essere l’interprete ad indicare la via di corretta ed intelligente applicazione della norma.

Si deve ritenere compatibile, quindi, da un lato (e sino alla concorrenza dei limiti sanciti con le tabelle) la presunzione di non punibilità, (quindi regime favorevole all’indagato/imputato), la quale dispiegherà effetto laddove la droga detenuta dal soggetto rientri nel dettato dei parametri fissati con le tabelle interministeriali, mentre dall’altro si dovrà adottare un principio di prova libera per quanto riguarda tutti i quantitativi che eccedano detti limiti.

Vale a dire che, una volta superata la soglia ponderale, che definisce la detenzione come non penalmente rilevante, (ma, comunque, illecita solo sotto il profilo amministrativo), non può ritenersi accettabile ammettere valenza probatoria ad una presunzione di natura sfavorevole all’inquisito, la quale reputi, in maniera del tutto automatica, che la condotta detentiva integri gli estremi di reato esclusivamente in base alla mera presunzione di una (apodittica) destinazione della sostanza allo spaccio.

Il problema investe, come già detto, anche e precipuamente profili di natura processuale, riferendosi alla struttura dogmatica dell’onere della prova.

Se, quindi, un soggetto verrà trovato nel possesso di un quantitativo che ecceda il limite sopra detto non si potrà avere astrazione processuale, cioè inversione dell’onere della prova del commesso reato.

Dovrà essere, quindi, sempre l’accusa a dovere dimostrare che il reato contestato si è perfezionato in ogni suo aspetto e che la detenzione dello stupefacente è certamente finalizzata alla successiva cessione in favore di terzi.

In carenza di quella prova l’imputato dovrà essere mandato assolto, poiché non è a lui che compete dimostrare la propria innocenza, quanto piuttosto è compito (in ossequio ai principi codicistici in materia) dell’accusa dimostrare – al di là di ogni ragionevole dubbio – la di lui colpevolezza.

Sotto questo aspetto, ritengo che la novità legislativa, seppur informata, in maniera assolutamente contraddittoria, all’inasprimento ed alla repressione di condotte concernenti anche l’uso di stupefacenti (non si dimentichi il complicato reticolo procedimentale introdotto con gli artt. 75 e 75 bis nei casi di irrilevanza penale delle condotte di cui al comma 1 bis dell’art. 73), non possa e non debba stravolgere il principio, introdotto all’esito della consultazione popolare dell’Aprile 1993, in base al quale veniva ascritto all’accusa l’onere di dimostrare la una destinazione a fini differenti dall’uso personale dello stupefacente.

Implicito corollario all’innovativa attribuzione del dovere di provare in capo all’accusa la destinazione allo spaccio dello stupefacente era (e pare debba permanere) quello per cui “in caso di insufficienza o contraddittorietà della prova sul punto, il giudice deve pervenire ad una sentenza di assoluzione”[1].

Credo, quindi, che la posizione della giurisprudenza, che ha determinato in passato il superamento della presunzione previgente ed il ridimensionamento del valore dell’elemento quantistico debba rimanere tale nella sua pacificità, per non creare un contrasto irreversibile con i principi processualpenalistici sul punto.

Penso, altresì, che non possa (o debba) venir travolto e disatteso, da uno pseudo ius superveniens, l’orientamento della Suprema Corte di Cassazione, Sez. IV, la quale, dapprima con la decisione 18 Aprile 1997, n.1620, Miccoli,[2] ed indi con quella 28 Ottobre 1999, n.14515, Cafagna[3], ha sostenuto che, perchè sussista il reato, deve essere l'accusa a fornire la prova rigorosa della destinazione allo spaccio, non potendo questa più essere desunta dal solo quantitativo della sostanza (la cui rilevanza non è incompatibile con la destinazione all'uso personale),

E seppure è vero che la novella introdotta con la L. 49/2006 ha riesumato, anche se su basi differenti, il concetto di dose media giornaliera, il principio processualcodicistico di cui agli artt. 187 e segg. c.p.p. non tollera forzature, nel senso che non si può certo addivenire allo stravolgimento del generale onus probandi, ponendo indebitamente tale carico sulle spalle della parte inquisita o del suo difensore ed esonerando, contestualmente ed abnormemente, da tale compito l’organo che rappresenta la pretesa punitiva dello Stato.

Taluno potrà eccepire che il rispetto del generale principio probatorio era ritenuto consequenziale all’esito referendario[4] che aveva abbattuto lo sbarramento della d.m.g. e che , allo stato, siffatta situazione si deve considerare superata e radicalmente modificata.

Resta il fatto che appare inaccettabile ed irragionevole il ritenere che, solo in funzione di un mero dato quantitativo, che ecceda in maniera del tutto minima il limite sancito ex decreto (non legge), si debba presumere con un automatismo ermeneutico il fine di spaccio[5].

Non possono, infatti, essere escluse dal quadro valutativo del giudice altre circostanze di natura soggettiva, che possono efficacemente attestare che il detentore opera per sé e per nessun altro.

Si rammenti la capacità economica del singolo, che è indice significativo, in base al quale è stata giustificata la detenzione di quantitativi non eccessivi, ma in linea con la tesi dell’uso personale, escludendo che l’inquisito abbia necessità di procedere alla cessione nei confronti di terzi, per alimentare il proprio vizio.

Si ricordi, ad esempio ulteriore, la situazione di contingente difficoltà di approvigionamento da parte di persona in conclamato stato di tossicodipendenza, che sia incensurata e nei cui confronti non vi siano prove di spaccio a terzi. Si tratta di una situazione che può legittimare il ricorso ad una piccola scorta che ecceda seppur modestamente il quantum strettamente destinato all’uso personale concepito dalla norma ora vigente.

Le incertezze ed i dubbi, però, non si possono circoscrivere solo a questo dedotto aspetto.

Ci si deve domandare, infatti, se la presunzione operi, sempre e comunque, quale clausola di non punibilità della detenzione del quantitativo minimo (sancito tabellarmente), di modo che, nel caso in cui il soggetto venga trovato in possesso di un compendio che ecceda ponderalmente (seppur di poco), l’eventuale indagine in ordine al presunto spaccio debba involgere solo la parte che superi la soglia di punibilità, oppure se tale valutazione in ordine alla sussistenza dell’illecito penale debba attenere a tutto il compendio, siccome eccedente nella sua globalità i limiti predeterminati ex lege.

Anche questo specifico aspetto involge la più complessiva piattaforma probatoria e sortirà indubbiamente un vivace ed articolato dibattito, qualunque sia la soluzione che si intenda adottare.

Si sente, inoltre, dire che giustificazione sottostante alla differenza relativa alla determinazione dei singoli principi attivi riguardanti le specifiche sostanze, riposerebbe nell’oggettiva differenza dell’effetto drogante che si rinviene in capo all’hashish, piuttosto che alla cocaina.

Se tale affermazione (che, peraltro, naturalisticamente è verissima) fosse stata effettivamente formulata, si dovrebbe concludere per un’evidente contraddizione e grave confusione del legislatore, il quale, da un lato, assimila sul piano sanzionatorio tutte le droghe (che, quindi, non presenterebbero tra loro differenza di alcun genere) e, in pari tempo, opera una imprevista distinzione tra le stesse in ordine agli effetti droganti.

La critica alla soluzione di cui le tabelle delle soglie drogante non è una critica circoscritta al solo regime tabellare, ma è, in realtà, una analisi di natura metodologica a tutto campo.

La singola scelta, come più volte osservato, potrebbe anche avere una sua intrinseca accettabilità, poiché indubbiamente tenta di imporre quantomeno un criterio di oggettività.

Non si può, però, essere rigorosi, tassativi ed oggettivi solo in relazione all’uso personale, in costanza del mantenimento di una situazione interpretativa di assoluta indeterminatezza e vaghezza in relazione a situazioni di gran lunga più gravi e foriere di elevatissimo allarme sociale.

Penso al fatto che non si messo per nulla mano (e colpevolmente) al concetto di ingente quantità di cui all’art. 80 t.u. 309/90, norma sulla quale si scontra la realtà dei veri grandi trafficanti, associati per delinquere e sulla quale si è scritto e detto tutto ed il contrario di tutto.

Si tratta, come ho più volte avuto occasione di sostenere, di un’aggravante ad effetto speciale, che, però, appare affetta geneticamente da un vuoto contenutistico, che impropriamente (ed abnormemente) viene colmato dall’intelligenza e fantasia giuridica degli operatori del diritto nella quotidianità, con il ricorso a criteri spesso anche fittizi.

Penso anche alla norma di cui all’art. 73 comma V, in tema di lieve entità, cioè della previsione legislativa che maggiormente entra in gioco in materia di piccolo spaccio.

Non è tollerabile un complesso normativo regolamentante una materia, quale quella degli stupefacenti afflitto da incoerenze di fondo, da contraddittorietà su punti decisivi, da scelte metodologiche a “macchia di leopardo”.

Vi sono previsioni rigorose e tassative e ve ne sono altre che presentano un deficit di precisione e sicurezza ermeneutica.

Come detto, il regime tabellare riporta la legislazione sugli stupefacenti indietro di 13 anni, vanificando l’indirizzo che emerse prepotente con il referendum del 1993.

Ho avuto modo di dire che, al limite, si può comprendere la volontà di fornire criterio valutativi che riducano i contrasti emersi negli anni in dottrina e giurisprudenza ed evitino, preventivamente, distorsioni di interpretazione, che, peraltro, fortunatamente, non abbondano, a patto che esso divenga il minimo denominatore comune di un’impostazione coerente, la quale sia atta ed idonea a fornire metri valutativi tra loro non dissonanti.

Si tratta di una situazione, allo stato, ben lontana dal verificarsi.

Ulteriore aspetto di perplessità, poi, concerne la scelta dello strumento del decreto interministeriale, in luogo di una vera e propria legge, quale mezzo normativo, per determinare i parametri di punibilità a livello penale in questione.

L’aspetto che maggiormente si presta a plurime critiche serrate è quello concernente il tipo e la metodologia della scelta operata, in quanto sia la determinazione della soglia di punibilità delle condotta detentiva, che la valorizzazione della norma incriminatrice non possono che avvenire attraverso un provvedimento che trovi nella volontà parlamentare la sua genesi.

Non è possibile, infatti, creare in una così delicata materia ed agire utilizzando una metodologia che induce a dubbi di costituzionalità.

Senza invadere il campo del diritto amministrativo, pare di poter affermare che la strutturazione d’insieme del comma 1 bis suscita dubbi in ordine alla sua conformità al principio della riserva di legge dettato dall'art. 25 Cost..

Nel caso concreto, infatti, esso non pare appieno rispettato perchè la legge dello Stato pur indicando i presupposti ed i caratteri del precetto penale, affidando, invece, al decreto ministeriale la decisiva determinazione del contenuto dello stesso, stabilendo il quantum di droga, oltre il quale la condotta diviene penalmente rilevante[6].

In concreto si dovrà approfondire (ed è auspicabile una pronunzia sul punto del giudice delle leggi) il problema concernente il fatto che il nuovo art. 1 bis detta una norma penale in bianco, facendo dipendere la punibilità del soggetto inquisito dalla osservanza di disposizioni amministrative emanate con semplice decreto interministeriale.

Si dovrà, quindi, valutare, se sussista per tali ragioni un contrasto con gli artt. 3 e 25, 2° comma Cost..

La novella, quindi, restaura l’ancient regime, reintroducendo in modo del tutto surrettizio quel concetto di dose media giornaliera che non ha più un riconoscimento legislativo dopo l'entrata in vigore del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, proprio in virtù di una consultazione popolare.

La portata delle novità in materia di delimitazione del quantitativo di stupefacente, cui conferire natura di detenzione non penalmente rilevante (essa non può essere dichiarata lecita, attesa la previsione di cui agli artt. 75 e 75 bis t.u. 309/90), viene, poi, ridimensionata, in concreto, dal fatto che, attesa la vigenza del regime generale di cui all’art. 2 c.p., in materia di successione di leggi nel tempo, i procedimenti aventi oggetto reati in materia di stupefacenti commessi anteriormente alla promulgazione e pubblicazione delle tabelle in questione, non potranno sfuggire alla regola di giudizio vigente in precedenza.

Si avrà così un duplice modo di procedere (con buona pace ovviamente della comprensione dell’esercizio della giurisdizione da parte dei non addetti ai lavori, cioè della stragrande maggioranza dei cittadini), in quanto permarrà, comunque, il principio della valutazione assolutamente discrezionale del giudice in relazione alla illiceità o meno della detenzione di quantitativi di droga, in assenza di condotte inequivoche di cessione da parte dell’indagato. Una giustizia a due velocità di cui francamente si poteva fare a meno.

 

Avvocato Carlo Alberto Zaina, patrocinante in Cassazione e Magistrature Superiori. È stato tra i membri fondatori nel 1987 della Camera Penale della Romagna. Si interessa esclusivamente di questioni penali, con particolare attenzione ai profili attinenti alla legge sugli stupefacenti, ed a problematiche concernenti i reati associativi e lo sfruttamento della prostituzione.

Note

 

[1] Cfr. Neri in INSOLERA La produzione di sostanze stupefacenti, UTET 1998 pg. 169

[2] Cass. Pen., 1998, 2488

[3] Cass. Pen., 2000, 3135, Zacchia, 2000, 207

[4] Sul piano di legittimità va ricordata Cassazione Sezione VI, 20 Dicembre 1995, che ha riaffermato, sulla scorta di precedenti decisioni della stessa Sezione 16 Marzo 1995 n. 2799[iv] e della Sez. IV del 25 Febbraio 1994 n. 2534[iv] come “A seguito della depenalizzazione della detenzione per uso personale di sostanze stupefacente, intervenuta con il d.P.R. 5 giugno 1993 n. 171, dopo l'abrogazione referendaria del 18-19 aprile 1993, la destinazione allo spaccio è un elemento costitutivo del delitto di detenzione di droga, che deve essere provato dall'accusa. Tale prova può essere fornita facendosi leva, oltre che sulla quantità, quando sia tale da non essere compatibile con le condizioni economiche dell'imputato, sulle modalità di custodia dello stupefacente, sul luogo e sul modo in cui è avvenuto l'accertamento e sulla contestuale detenzione di specie diverse di sostanza”.

[5] Un’interessante sentenza del Tribunale di Roma (IV sezione 25 Gennaio 2000), ha ribadito che il solo dato quantitativo, in mancanza di sicuri elementi di prova dell'attività di spaccio da parte del detentore della sostanza (nella specie, cannabis), che devono essere forniti dall’accusa, non può ritenersi sufficiente ad affermare la penale responsabilità dello stesso in ordine al reato di spaccio, salvo che emergano circostanze in qualche modo sintomatiche di quell'attività.

[6] Per un interessante presa di posizione sul tema V. Cass. pen., Sez. III, 21/04/1993, Porcelli, Cass. Pen., 1994, 2220, Mass. Pen. Cass., 1993, fasc.11, 18

 

 

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