Modifiche al T.U. sugli stupefacenti

 

Le modifiche alla disciplina penale degli stupefacenti
di Carlo Alberto Zaina (Avvocato)

 

Premessa

 

Con il d.l. 6927, provvedimento emendato di conversione del d.l. 30.12.2005 n. 272, approvato definitivamente oggi dalla Camera dei Deputati, si sono introdotte profonde modifiche rispetto a talune previsioni normative contenute nel T.U. 309/90. Sotto il profilo della disciplina penale sono stati interessati dalle modifiche in oggetto soprattutto gli artt. 73, 75, 89, 90, 91 e 94. Anche altre norme sono state riformate, ma in maniera non significativa. In questa sede, intendo soffermarmi sul complesso di disposizioni concernenti la fase del giudizio cognitivo, rinviando al mio testo "La disciplina penale degli stupefacenti" (Maggioli Editore) in corso di pubblicazione, ulteriori generali approfondimenti e le valutazioni relative alle norme che regolano la delicata fase dell’esecuzione penale (artt. 90 e segg.) il cui fine è stato a parere di chi scrive, del tutto stravolto.

Giovi solo. per quanto riguarda la fase esecutiva, sottolineare che emerge all’evidenza il notevole ampliamento dell’ambito di pena che permette l’accesso al beneficio sia della sospensione ex art. 90 che a quello dell’affidamento in prova ai sensi dell’art. 94.

La ragione di tale magnanima opzione non è facilmente comprensibile e, in ogni caso, confligge, sul piano della coerenza, con l’intenzione del legislatore di assumere un atteggiamento di severità nei confronti dei reati più gravi in materia di stupefacenti.

L’ampliamento a pene complessive o residue pari a sei anni (quattro anni per coloro che rientrano nella previsione dell’art. 4-bis l. 354/75) favorirà l’accesso ad un beneficio importante (tale addirittura da evitare l’espiazione di pena detentiva) di soggetti che, seppur tossicodipendenti, oggettivamente possono aver tenuto condotte di indubbia gravità o allarme sociale, se, poi, puniti con simile sanzione.

Il timore diffuso è, quindi, che la scelta che si commenta sia deleteria ed improvvida conseguenza del fatto che l’unificazione del trattamento sanzionatorio fra droghe pesanti e droghe leggere comporterà l’inflizione di pene pesanti anche in casi di modesta gravità (tenuto conto anche del nefasto impatto della ex-Cirielli) e, che, pertanto, per ovviare ad stortura evidentissima ed aberrante per tutti (ma non per il legislatore) si intenda temperare gli effetti che si produrranno nella fase espiativa, onde evitare un assurdo sovraffollamento delle carceri con personaggi che in carcere non avrebbero dovuto mettere piede.

Svolte tali premesse e con l’impegno di tornare più diffusamente su questo argomento, si deve passare, pertanto, a considerare le norme di cui agli artt. 73, 75, 75 bis ed 89.

L’art. 73, che era l’architrave dello scheletro penalistico della legislazione sugli stupefacenti, è stato, oggetto di mutamenti talmente rilevanti da stravolgerne senso e finalità.

Preliminarmente alle osservazioni tecniche, che seguiranno, non può tacersi il convincimento che il modus operandi del legislatore, nella specifica fattispecie, lasci francamente imbarazzati e sconcertati sul piano strettamente metodologico.

Chiunque può agevolmente notare la bizzarria consistente nell’introdurre sostanziali ed importanti modifiche alla regolamentazione della materia degli stupefacenti, ricorrendo ad un maxi-emendamento, inserito (meglio sarebbe dire mimetizzato), a propria volta, all’interno di una legge di conversione di un decreto-legge riguardante ufficialmente tutt’altra materia (nella fattispecie le incombenti Olimpiadi invernali di Torino 2006).

Oltre all’evidenziata stranezza cui si è fatto appena cenno (quale attinenza abbiano interventi definiti urgenti in materia di stupefacenti con le Olimpiadi non è dato apparentemente sapersi), non può trascurarsi la gravità e l’opinabilità della decisione di modificare una legge di così rilevante peso nella vita del paese, eliminando totalmente un doveroso dibattito parlamentare, che avrebbe offerto spunti di riflessione ed arricchimento del complesso normativo.

E’ noto, infatti, che si è perseguito il disegno di un’immediata e pronta approvazione di una specifica parte del più complessivo disegno di legge (già nell’agenda governativa sin dal 5 Marzo 2004) attraverso il solo voto di fiducia.

La legge, così promulgata, è un mix di contraddizioni e risulta palesemente ingiusta in taluni fondamentali passaggi.

Ciò che maggiormente affligge, però, è la certezza che il legislatore abbia perduto, dimostrando solo miopia normativa ed un immotivata fretta, una seria quanto rara occasione di intervenire in modo da ovviare ad atavici vizi di genericità ed indeterminatezza che affliggevano il T.U. 309/90.

Per converso, come si avrà modo di rilevare, sono stati introdotti altri e diversi elementi di forte incertezza proprio su quel piano del diritto positivo, che, invece, avrebbe dovuto formare oggetto di norma chiare e comprensibili.

Balza all’occhio, immediatamente, la infelice dizione della lett. a) del nuovissimo comma 1 bis .

Tale norma reintroduce di fatto quella dose media giornaliera, che il referendum del 1993[1] aveva abolito, in quanto è palese che tra i fini perseguiti con la novella legislativa vi è quello di recuperare alcune norme abrogate con detto strumento consultivo.

Viene posto, infatti, come condizione di punibilità dell’importazione, esportazione, acquisto, ricezione a qualsiasi titolo, nonché dell’illecita detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, un non meglio identificato criterio quantitativo.

La penale rilevanza della condotta si concreta, quando il dato ponderale risulti superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del consiglio dei Ministri – Dipartimento nazionale per le politiche antidroga -.

Si tratta di un decreto, che dovrà essere approvato in prosieguo.

E’, quindi, dimostrato per tabulas che la contestata scelta di delegare all’ambito amministrativo la definizione della soglia di punibilità di talune condotte, di fatto ed in maniera del tutto surrettizia, è viatico per ridare cittadinanza normativa all’abrogato principio della dose media giornaliera, che tante polemiche aveva suscitato nella propria breve esistenza.

In relazione a questa vera e propria restaurazione normativa, si deve dolentemente riconoscere che ci troviamo dinanzi, quindi, ad un atto di imperio, tradotto in attività normativa, la cui discutibilità viene amplificata dalla circostanza che essa si orienta in una direzione del tutto opposta alla volontà popolare e, di fatto, che mira ad imporre il pensiero di una minoranza

Si deve, poi, sottolineare con forza la circostanza che tutti gli operatori del diritto sono rimasti (giustamente) pesantemente perplessi e sconcertati a fronte della decisione di attribuire alla decretazione di un comitato interministeriale l’individuazione della soglia di punibilità di taluni comportamenti, sotto il profilo quantitativo, essenziale ai fini di attuazione della giurisdizione, nonché di tutte le conseguenze ad essa connesse (azione penale, misure cautelari etc.)

Si è, così, inammissibilmente legato il concetto di illiceità penalmente rilevante (e sanzionabile) a provvedimenti di natura prettamente amministrativa.

Il carattere di unilateralità delle scelte del governo rende, inoltre, forteemente dubbiosi sul piano della costituzionalità di una siffatta norma, che introduce un’ipotesi di riserva di legge in materia penale.

La stessa unificazione del trattamento sanzionatorio per le ipotesi illecite penalmente rilevanti, a prescindere dalla tipologia di stupefacente riferibile al soggetto, contenuta nei commi 1, 1 bis e 5 del novellato art. 73, induce a porre seri e concreti dubbi sulla correttezza dell’opzione normativa adottata.

Non è, infatti, per nulla condivisibile la giustificazione addotta dai sostenitori della riforma, secondo i quali si afferma il principio scientifico che non esistono droghe di serie A o di serie B, e che il comune ed eguale trattamento punitivo adottato troverebbe spiegazione inconfutabile nella circostanza che tutte le sostanze stupefacenti o psicotrope producono effetti negativi e nuocciono in maniera indifferenziata e gravemente alla salute.

Si tratta di una considerazione naturalisticamente pacifica sul piano etico (il fenomeno droga non è accettabile e le droghe certamente incidono negativamente sull’individuo), ma non altrettanto su quello dell’applicazione della norma penale, in relazione ai concreti effetti psichici e fisici che esse producono sugli assuntori.

E’ indubbia, infatti, che appare ben diversa la reale offensività, per la salute fisica e mentale del soggetto, di un droga quale la cocaina o l’eroina rispetto all’hashish ed alla marijuana.

Da tale osservazione, consegue la necessità imprescindibile di giungere, invece, a definire un principio sia di individuazione, che di graduazione del diverso livello di pericolosità di comportamenti definiti ed accolti come illeciti.

Scelta esattamente opposta a quella operata con la legge in commento.

Or bene, appare indubbiamente chiaro che, ferma l’indiscussa offensività, per la salute e la società, dell’uso e della diffusione di stupefacenti, non si possa porre sullo stesso piano, in relazione alla pericolosità sociale ed ai diretti riflessi penali che ne derivano, sostanze naturalisticamente, biologicamente e chimicamente del tutto diverse tra loro.

L’amplissimo allargamento dello spettro dei soggetti destinatari della pesanti sanzioni, (anche di natura amministrativa) introdotte con il dl 6927, posto che si devono ricomprendere in tale contesto ed accezione anche coloro che, a tutt’oggi, non potevano rientrare nella definizione di tossicodipendenti, in quanto facenti uso di droghe leggere, appare sostenuto da una logica particolarmente contraddittoria.

La novella legislativa, da un lato, risponde ad un orientamento che fa di una scelta totalmente repressiva e della retribuzione della pena rispetto al fatto-reato, la principale (se non esclusiva) risposta al problema della tossicodipendenza, omologando in una inammissibile oggettività, indebitamente, quindi, situazioni fattuali, tra loro differenti.

D’altro canto, invece, nel testo in esame si possono rinvenire tre principali elementi che paiono male armonizzarsi con la patente spinta sanzionatoria, sin qui evidenziata.

1. In primo luogo si deve notare come la pena edittale minima, per i reati previsti dai commi 1 ed 1 bis sia scesa da 8 a 6 anni, stante la conferma nel massimo a 20 anni.

Tale scelta si presta a due ordine di valutazioni.

Da un lato, essa pone il dubbio di una contraddizione non solo di forma, ma anche di sostanza, rispetto all’inasprimento delle sanzioni in relazioni a condotte illecite, sia penali, che amministrative, scopo per il quale la norma sarebbe stata concepita.

Né tale incoerenza normativa può trovare giustificazione nella considerazione, avanzata da taluno, che l’accorpamento, all’interno del medesimo ambito sanzionatorio, di droghe tra loro intrinsecamente diverse, avrebbe imposto al legislatore la necessità di optare per una forma di temperamento della pena minima, in costanza di un evidente generale aggravamento del trattamento punitivo.

Si deve osservare, che il legislatore, infatti, sull’apparente presupposto di volere reprimere il fenomeno degli stupefacenti, avrebbe mutato in toto il quantum di pena previsto dall’art. 73, inasprendo questa (fortemente e globalmente9, sia nei minimi, che nei massimi, in relazione a fatti attinenti a tipologie di stupefacenti (cd. droghe leggere, originariamente inserite nelle tabelle II e IV), che concretano, oggettivamente, una gravità ed un correlativo allarme sociale, di gran lunga minori e diversi rispetto a medesime condotte aventi, però, ad oggetto cocaina, eroina extasy e sostanze analoghe.

Contemporaneamente, sempre il legislatore, invece, avrebbe ridotto, sensibilmente nei minimi la pena, in maniera indiscriminata cioè in relazione a tutte le condotte punibili e, quindi, anche in relazione a fatti di rilevante gravità.

D’altro canto, la sola rimodulazione della pena nei minimi edittali, seppur sin qui criticata, può, ad un più attento esame manifestare un carattere parzialmente positivo, soprattutto in relazione a quelle situazioni border-line, veri e propri spartiacque fra l’ipotesi ordinaria dell’art. 73 co. 1 o 1 bis e quella dell’art. 73 comma 5.

Chi scrive, iinfatti, ha sempre sostenuto come l’innalzamento di pena introdotto dal T.U. 309/90 (8- 20 anni di reclusioni oltre alla multa, contro i 4-15 anni della L. 685/75 oltre alla multa) finisse per penalizzare l’autore di fatti non particolarmente gravi (ad esempio il detentore o il piccolo spacciatore di qualche decina di grammi di droga), ponendolo sulla stesso piano, sotto il profilo punitivo, del soggetto rinvenuto con quantitativi di stupefacente, che, pur non essendo ingenti, apparivano, comunque, cospicui, creando una ingiusta situazione di fatto.

E’, quindi auspicabile che l’intervenuto abbassamento della sanzione nel suo minimo edittale, se non altro, possa risultare viatico per giungere a valutazione, in ordine al dosaggio delle pene concretamente da infliggere, che permetta di distinguere situazioni che si posizionano a livello intermedio fra la lieve entità e l’ordinaria previsione normativa, temperando la portata della sanzione prevista.

2. In secondo luogo, balza all’evidenza la novità dell’introduzione del comma 1 bis.

In realtà, tale norma attiene ad una serie di condotte di importazione, di esportazione, di acquisto, di ricezione a qualsiasi titolo e di illecita detenzione, già oggetto di previsione penale (nel previgente comma 1), le quali vengono poste, però, in questa sede, in un composito e disomogeneo rapporto con due tipologie di sostanze.

L’aspetto più rilevante è che, in concreto, con la norma in questione, principalmente il legislatore ha classificato le descritte condotte come compatibili con l’uso personale; da qui la separazione delle stesse, considerate come categorie autonome rispetto ai comportamenti previsti dal comma 1°.

Non si può ignorare la circostanza che lo sforzo di circoscrivere i comportamenti, che possano coniugarsi con il concetto di uso personale, possa apparire positivo, perché sembra mirare a porre un marcato discrimine fra trafficanti-spacciatori ed utenti-assuntori.

Va, però, osservato che, se in quest’ottica, importare, esportare, acquistare o ricevere a qualsiasi titolo ed illecitamente detenere sono comportamenti che possono apparire compatibili con il concetto di uso personale, non si comprende perché mai il comportamento di trasporto non possa venir ricompreso in tale contesto interpretativo

E’ incontroverso che il trasporto è condotta che rientra in quell’ambito di condotte riferite alla movimentazione dello stupefacente, di cui fanno parte l’esportazione, l’importazione, l’invio ed il passaggio in transito.

Esso, inoltre, presenta aspetti assai simili alla detenzione, in quanto in entrambe le condotte è identico l’oggetto delle stesse, pur potendosi affermare, talora, che esse, in realtà, si pongono in un rapporto di assorbimento tra un "maius" (assorbente-trasporto) ed un "minus" (assorbito-detenzione).

Le osservazioni che precedono, dunque, attestano sul piano logico la stravaganza della scelta legislativa, posto che l’omogeneità delle condotte in questione avrebbe dovuto indurre a catalogare ed inserire le stesse nel medesimo contesto normativo.

D’altro canto, appare, comunque, valutazione piuttosto discutibile quella per cui condotte come l’importazione o l’esportazione, che, usualmente, presuppongono un’attività finalizzata a traffici inseriti in contesti di criminalità organizzata, (e non differiscono sostanzialmente dalla spedizione in transito, solo per fare un esempio), possano giustificare una presunzione di minus valenza rispetto a talune di quelle di cui al comma 1 e segnatamente rispetto a quella del trasporto.

Ne consegue, quindi, che si deve rilevare come non si sentisse affatto la necessità di addivenire ad un cieco frazionamento dei vari comportamenti, scelta legislativa che rende ancor più farraginosa l’applicazione della norma, proprio per le discrasie squisitamente logiche che la stessa presenta, per l’illogicità di fondo della previsione.

Né pare particolarmente felice la decisione di richiamare le condotte descritte dall’esaminando comma 1 bis anche in relazione a “…..medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A[2], ove gli stessi eccedano il quantitativo prescritto...”, ipotesi che legittimerebbe una diminuzione di pena da un terzo alla metà.

Si tratta, è bene chiarirlo preliminarmente, di una previsione che si rivolge ad un campo di applicazione indubbiamente limitato, attenendo a medicinali taluni dei quali possono essere utilizzati per il trattamento del dolore severo in corso di patologia neoplastica e degenerativa.

Ad ogni buon conto, con la norma in oggetto, si viene a sancire una presunzione a sfavore dell’inquisito, il quale ove venisse trovato nel possesso (od in altra tra le condotte previste) di un quantitativo eccedente la prescrizione medica, si vedrebbe imputare la illiceità della propria detenzione, la quale viene di fatto equiparata in toto a quella di altra sostanza a fine di spaccio.

Tale presunzione può essere vinta efficacemente, laddove l’indagato assolva all’onere di provare l’assenza di volontà colpevole, posto che la struttura del reato di natura istantanea e spiccatamente dolosa, fa sì che lo sforamento dei limiti quantitativi terapeutici (entro i quali la condotta è ritenuta legittima) possa trovare ragioni esimenti solo quando il soggetto versi in ambito colposo.

Come detto, infatti, il reato è punito a titolo di dolo, sicchè pare di tutta evidenza che la lacunosa prospettazione normativa non preveda la possibilità di ritenere punibile il comportamento del soggetto, in caso di colpa.

Tale opinione non pare possa essere contraddetta o scalfita dalla locuzione “riceve a qualsiasi titolo”, in quanto è evidente che con tale espressione si è inteso solamente privilegiare la ragione (o per meglio dire il movente) che sottende all’atto di ricevere e non già l’elemento psicologico che animi il soggetto.

3. Terzo ed ultimo elemento che si intende prospettare a sostegno del vizio di contraddizione che si ritiene affliggere il nuovo testo normativo, consiste nella rimodulazione dei limiti di pena per l’accesso alle misure alternative previste dagli artt. 90 e 94.

Giovi subito rilevare, al fine che ci occupa in questa sede, il cospicuo innalzamento della soglia di ammissibilità per entrambi i benefici.

Si è passati da un limite di quattro anni (quale pena complessiva o residuo di altra maggiore pena) a quello di sei anni.

Il limite di quattro anni è rimasto per quei soggetti nei cui confronti sia stato emesso un “titolo esecutivo comprendente reato di cui all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni”, vale a dire personaggi spiccatamente pericolosi o, comunque, di pericolosità acclarata[3], che accedono a tale vantaggio processuale solo se divengano collaboratori di giustizia.

Or bene, appare evidente come questa scelta, che involge la fase dell’esecuzione di pene, concernenti reati commessi dal condannato in dipendenza del proprio stato di tossicodipendente, si ponga in contraddizione proprio con quell’opzione repressiva-punitiva, concretatasi nell’omologazione in un unico e severo trattamento sanzionatorio di tutti i tipi di stupefacente.

Lo Stato, infatti, dapprima, prevede una rigorosa punizione di comportamenti (di spaccio od analoghi) che giudica, in sede legislativa, particolarmente gravi e, quindi, tali da suscitare spiccato allarme sociale; indi, una volta irrogata la sanzione, svuota di significato il principio della certezza della pena, (argomento tanto caro proprio ai propugnatori della riforma) favorendo l’accesso a misure alternative al carcere a persone condannate anche per rilevanti e gravi reati.

Il concetto di gravità del fatto (prodromica e strumentale al concetto di allarme sociale), in uno con il concetto di pericolosità del singolo, non ha, né può assumere, un valore intermittente, venendo invocato ed applicato solo in alcune fasi processuali a scapito di altre.

E’ evidente che la pena finale di sei anni di reclusione può essere (come in realtà spesso è) risultato aritmetico di una serie di riduzioni operate dal giudice (in forza della concessione di varie attenuanti e diminuenti) che possono avere permesso di contenere una sanzione detentiva, originariamente di gran lunga superiore a quella in concreto irrogata.

Ciò sta a dire, quindi, che lascia fortemente perplessi la possibilità che persone, che si siano rese autrici di fatti di reato oggettivamente gravi, possano fruire di un così significativo temperamento della fase di espiazione di pena.

Il riscatto del condannato è indubbiamente fine da perseguire, in ossequio al principio costituzionale della funzione rieducativa della pena.

Come si coniuga, però, questo recupero personale e sociale dell’individuo, che abbia delinquito a cagione della propria condizione di tossicodipendenza, con la sua criminalizzazione nella fase cognitiva?

E allora, non è peregrino ritenere che il legislatore – ben consapevole che primo ed immediato effetto della novella possa essere l’aumento sensibile della popolazione carceraria, o, comunque, delle persone in vinculis – abbia tentato di attivare una correlativa valvola di sfogo, consistente nell’accesso del condannato ad un programma terapeutico e socio-riabilitativo eseguito presso una struttura sanitaria pubblica od una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116.


LO SDOPPIAMENTO DELL’ORIGINARIO COMMA 1 DELL’ART. 73

 

Il nuovo 73 del testo unico, recitava alla propria rubrica "Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e di sostanze psicotrope”.

Il testo della disposizione di legge attesta il frazionamento dell’insieme delle condotte punibili, prima ricomprese in un’unica soluzione, attraverso la previsione di un inedito comma 1 bis.

Si crea, così, un doppio binario sanzionatorio, giacchè, da un lato vengono previste plurime condotte, le quali integrano sempre e comunque ipotesi di reato, mentre, dall’altro, vengono estrapolati,dal più generale contesto fattuale, alcuni contegni, i quali possono, anche, sfuggire al concetto di sanzionabilità, in presenza di precise condizioni.

Il nuovo art. 73[4], come si è appena evidenziato separa, quindi, la condotta di chi, sfornito dell’autorizzazione di cui all’art. 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope, pluralità di situazioni rimaste al comma 1°, da quella di chi importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene le medesime sostanze.

Tutte le condotte indicate vengono punite con la medesima pena, essendo stata abrogata la distinzione, precedentemente e costantemente invalsa fra droghe leggere e droghe pesanti.

Con la nuova previsione legislativa, invece, sia gli oppiacei, che i derivati dalla cannabis, che qualsiasi altra droga di derivazione sintetica, vengono ricompresi nella medesima tabella, la I.

La tabella II, invece, attiene a prodotti di natura farmaceutica ed è strumentale ad un’ipotesi di reato soprattutto relativa alla detenzione di quantitativi di farmaci (con componenti di natura stupefacente) in misura eccedente la relativa prescrizione medica.

La nuova pena, che si applica indiscriminatamente a qualsiasi tipologia di stupefacente, è stata diminuita nel minimo edittale, passando da 8 a 6 anni, ferma quella nel massimo che è rimasta di 20 anni.

Il primo comma, quindi, non pare introdurre tematiche di particolare rilievo, posto che in relazione alle diciassette condotte ivi ricomprese non pare esser stata introdotta novità diversa da quelle sin qui indicate.

Viene, comunque, esclusa la possibilità che tali comportamenti possano rientrare in un contesto di liceità, diversamente da quelli che vengono previsti al successivo comma 1 bis.

Il legislatore, quindi, ha ritenuto che solo i comportamenti descritti in tale nuovo comma possano assumere rilevanza penale, determinando la punibilità del soggetto, solo se riguardano sostanze stupefacenti e sostanze psicotrope che risultano, nel caso concreto, in quantità superiore a quella indicata nella tabella I allegata al presente testo unico ovvero che, per modalità di presentazione, con riguardo al peso lordo complessivo, al confezionamento frazionato o ad altre circostanze dell'azione, appaiono destinate a terzi o comunque ad un uso non esclusivamente individuale.

Appare evidente che il primo criterio discretivo in base al quale valutare l’illiceità solo di queste condotte è quello strettamente quantitativo.

La soglia massima, oltre la quale la condotta di importazione, esportazione, acquisto, ricezione o detenzione, assume rilievo penale, sarà determinata da un decreto interministeriale del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del consiglio dei Ministri – Dipartimento nazionale per le politiche antidroga -.

Si tratta di una metodologia normativa che induce a dubbi di costituzionalità.

Senza invadere il campo del diritto amministrativo, pare di poter affermare che la strutturazione d’insieme del comma 1 bis suscita dubbi in ordine alla sua conformità al principio della riserva di legge dettato dall'art. 25 Cost..

Nel caso concreto, infatti, esso non pare appieno rispettato perché la legge dello Stato pur indicando i presupposti ed i caratteri del precetto penale, affida, invece, al decreto ministeriale la decisiva determinazione del contenuto dello stesso e stabilisce il quantum di droga, oltre il quale la condotta diviene penalmente rilevante[5].

In concreto si dovrà approfondire (ed è auspicabile una pronunzia sul punto del giudice delle leggi) il problema concernente il fatto che il nuovo art. 1 bis detta una norma penale in bianco, facendo dipendere la punibilità del soggetto inquisito dalla osservanza di disposizioni amministrative emanate con semplice decreto interministeriale.

Si dovrà, quindi, valutare, se sussista per tali ragioni un contrasto con gli artt. 3 e 25, 2° comma Cost. (timore che pare indubbiamente fondato).

La novella, quindi, restaura l’ancient regime, reintroducendo in modo del tutto surrettizio quel concetto di dose media giornaliera che non ha più un riconoscimento legislativo dopo l'entrata in vigore del d.P.R. 5 giugno 1993, n. 171, proprio in virtù di una consultazione popolare.

Vanno, poi, richiamati i criteri sussidiari che la lett. a) del comma 1 bis indica sempre al fine di verificare l’uso personale oppure la destinazione dello stupefacente a terzi o comunque ad un uso non esclusivamente individuale.

Sotto la dizione “modalità di presentazione”, si ricomprende il peso lordo complessivo dello stupefacente ed il frazionamento del confezionamento della sostanza.

Per quanto attiene al primo si può serenamente affermare che si tratta di una duplicazione del criterio quantitativo prima trattato, posto che è evidente che, se il parametro precettivo della norma è dato da un limite quantitativo, ogni forma o manifestazione di superamento di tale limite integra il reato.

E’ evidente, invece, che non si presta a censure del tipo di quelle sin qui esposte, il canone del frazionamento delle confezioni, posto che si tratta di una situazione che classicamente attesta la destinazione a fini diversi da quelli personali dello stupefacente.

Rimane decisamente sul vago, invece, il legislatore con la locuzione “ad altre circostanze dell'azione”, in quanto in tal modo si ripropone la delega alla valutazione soggettiva del magistrato.

Anche l’ipotesi riconducibile alla lett. b) e relativa a medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, detenuti, importati, esportati o ricevuti in misura che ecceda il quantitativo prescritto, ha formato oggetto di precedenti valutazioni.

Giovi solamente aggiungere che in caso di verificazione di simile eventualità è previsto che le pene sancite per il comma 1 e per la lett. a) siano diminuite da un terzo alla metà.

Nonostante la usuale approssimatività lessicale, non pare revocabile in dubbio il fatto che si tratti di una ipotesi di reato autonoma (e certamente non di una circostanza attenuante ad effetto speciale), valutata, per il suo carattere di eccezionalità e particolarità, con un parametro di minore gravità.

 

LE ULTERIORI MODIFICHE AI COMMI 5 E 5 BIS DELL’ART. 73 .

 

Ferma l’abrogazione del comma 4, che regolamentava l’ipotesi di condotte illecite concernenti droghe leggere, si osserva che l’orientamento ispiratore il dl 6927, ha necessariamente imposto un intervento che rendesse il comma 5 coerente rispetto alle precedenti previsioni.

Non può tacersi, però, che si è persa ulteriormente un’occasione per migliorare, se non addirittura perfezionare una norma importantissima del T.U. sugli stupefacenti, sul piano sostanziale.

In concreto, ad un intervento strutturale sull’impianto normativo del tipo di quello operato – pur nella sua discutibilità – avrebbe dovuto corrispondere una profonda rivisitazione del comma 5 dell’art. 73.

Da un lato, anche alla luce delle nefaste conseguenze derivate in tema di giudizio di valenza fra aggravanti ed attenuanti, in capo a soggetti ai quali sia stata contestata la recidiva ex art. 99/4° c.p., dall’approvazione della L. 5 Dicembre 2005 n. 251, meglio conosciuta come ex-Cirielli, si sarebbe dovuto affrontare, preliminarmente ad ogni altra considerazione, il problema della natura giuridica dell’ipotesi lieve, abbandonando la tesi invalsa secondo la quale la norma in questione integra un’attenuante ad effetto speciale, in favore dell’ipotesi del reato autonomo[6].

Va, inoltre, rilevato come la tesi dell’autonomia di reato trovi, poi, ulteriore elemento di conforto e sostegno proprio nell’art. 7 della novella legislativa, che introduce il comma 5 bis .

Tale disposizione opera un riferimento preciso alla lieve entità, (“….Nell'ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui all'articolo 73, comma 1 bis…”), di modo che appare estremamente forzato ritenere che quella che viene definita un’ipotesi (di reato), possa venire considerata nulla più che un’attenuante.

Mantenendo, pertanto, in aperta quanto immotivata antitesi alla logica, alla ermeneutica nonché al percorso storico della normativa sugli stupefacenti, l’ipotesi della lieve entità nella categoria delle attenuanti, si finisce per ottenere un concreto ridimensionamento della portata applicativa della norma, svuotandola di significato e precludendone una significativa applicazione in un numero elevato di procedimenti.

In secondo luogo si deve osservare che il testo licenziato non presenta alcun tangibile ripensamento ai criteri contenuti nella norma originaria ed una possibile migliore indicazione ed individuazione degli stessi, sì da superare situazioni di palese indeterminatezza, limitandosi, infatti, a richiamare fedelmente la locuzione “la modalità o le circostanze dell'azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze”.

Ciò posto, come appena anticipato, si deve osservare, sul piano strettamente tecnico-giuridico che l’ipotesi di lieve entità, in forza della novella normativa, si attaglia con un'unica pena a qualsiasi tipologia di sostanza stupefacente, sicchè unica è le pena – laddove venga riconosciuta la sussistenza della ritenuta attenuante – che è della reclusione da uno a sei a anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000.

Di assoluta novità, invece, è il contenuto del comma 5 bis, introdotto dall’art. 7 .

Si tratta di una norma che si raccorda con la previsione dell’art. 1 bis, e si applica nei casi di lieve entità.

In buona sostanza, prima facie, il comma 5 bis conferma l’opinione che il frazionamento in due commi delle condotte criminose, (originariamente contenute nel comma 1), risponda al disegno di introdurre un doppio binario, conferendo all’importazione, esportazione, ricezione ed all’illecita detenzione un carattere di minore gravità rispetto a tutti gli altri comportamenti sanzionati.

Ergo, in un contesto di ritenuta ridotta offensività di taluni comportamenti, il giudice, in presenza di persona tossicodipendente o assuntrice di stupefacenti, in caso di condanna all’esito del giudizio o di patteggiamento, potrà evitare che l’imputato, il quale non possa fruire del beneficio della sospensione condizionale della pena e, pertanto, debba espiare in concreto in carcere la pena inflitta, possa convertire la stessa in quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274.

La disposizione pone immediatamente alcuni interrogativi.

A. In primo luogo, ci si deve domandare cosa si intenda con il termine “assuntore” di sostanze stupefacenti e di sostanze.

Ci si deve, infatti, porre il problema di quali siano i soggetti che possono venir ricompresi in siffatta previsione o individuzati con tale accezione, e, soprattutto, a quale fine sia stato usato tale termine in vece di tossicodipendenti.

In buona sostanza si vuole comprendere se il legislatore abbia coniato una nuova categoria processualmente rilevante e quali siano i contorni della stessa.

B. Un secondo profilo di meditazione ci viene fornito dal fatto che il legislatore prevede la misura alternativa del lavoro di pubblica utilità, laddove non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena di cui all’art. 163 c.p.[7].

Ci si deve, infatti, domandare cosa abbia voluto intendere la novella legislativa con la locuzione “non debba concedersi”.

Vale a dire che, essendo la sospensione della pena causa di estinzione del reato di natura assolutamente discrezionale, posto che il giudice non è affatto tenuto a concedere in maniera automatica il citato beneficio, ci si chiede quali siano i limiti applicativi della norma e se con l’espressione “non debba concedersi” si sia fatto riferimento ad alcune specifiche ipotesi quali:

1. la sussistenza di una condizione ostativa soggettiva, quale, ad esempio, la circostanza che il soggetto abbia già fruito in precedenza del beneficio,

2. la sussistenza di una condizione ostativa oggettiva, quale è l’ipotesi che la pena irrogata non rientri nei limiti sanciti dall’art. 163 c.p.,

3. la sussistenza di una valutazione del giudice, il quale ritenga, in forza di una prognosi negativa, l’imputato (che pure potrebbe ottenere la sospensione condizionale della pena) immeritevole di accedere alla causa estintiva.

Pare di poter affermare che il primo quesito debba essere risolto, senza patemi di sorta in senso positivo.

Si tratta di una vera e propria ipotesi di affidamento minore, delibato anticipatamente in sede cognitiva, rispetto alla sede naturale che è quella esecutiva (innanzi al Tribunale di Sorveglianza), in base ad una valutazione complessiva che il giudice deve supportare con adeguata motivazione.

Per quanto concerne il secondo tema, ritiene chi scrive che si debba favorire la tesi dell’applicabilità del beneficio anche a pene superiori a quelle limite per la concessione della sospensione condizionale della pena.

La ragione di tale opinione è assai semplice e logica.

La norma si limita, infatti, a richiamare, da un lato, quale elemento legittimante l’istituto in parola, solo l’ipotesi del novellato comma 5 che prevede una pena che, va da un minimo di 1 anno di reclusione ad un massimo di 6 anni di reclusione.

In pari tempo, sotto altro profilo, il comma 5 bis pone una condizione negativa che consiste nel fatto che, nel caso concreto, non possa concedersi all’imputato la sospensione condizionale, senza, però, esplicitare la ragione di tale diniego e lasciando, pertanto, ampia discrezionalità all’interprete.

C. Altro quesito attiene alla possibilità che il giudice applichi la sanzione alternativa in sostituzione della sospensione condizionale, nel caso non abbia ritenuto l’imputato meritevole del beneficio ed abbia, pertanto, rigettando l’adozione dello stesso.

La rilevanza della questione attiene esclusivamente all’ipotesi del patteggiamento della pena ex art. 444 c.p.p., giacchè in sede di giudizio dibattimentale od abbreviato il giudicante non è vincolato in alcun modo dalle richieste delle parti .

E’, infatti, usuale, in sede di definizione di procedimenti penali per il tramite dell’adozione di tale rito alternativo, subordinare – se ve ne siano gli estremi – la pena concordata dalle parti al beneficio ex art. 163 c.p. .

La condizione così apposta è parte integrante e non eventuale del patteggiamento al punto che, il diniego del riconoscimento della causa estintiva del reato – da parte del giudice – inficia in radice il patteggiamento che viene travolto nella sua essenza[8], ai sensi del comma 3 dell’art. 444 c.p.p .

Il rigetto da parte del giudice della richiesta di patteggiamento munita di consenso da parte del P.M. , determina una situazione di incompatibilità del giudicante ex art. 34 c.p.p.[9], sancita dalla Corte cost. con la pronunzia n. 186 del 1992.

E’, quindi, possibile per il giudice, che respinga il patteggiamento, non ritenendo possibile la concessione del beneficio della sospensione della pena, a seguito di una propria personale valutazione di meritevolezza del soggetto imputato, concedere – accedendo ad un’ipotesi subordinata formulata ritualmente e tempestivamente dalla parte privata -, invece, la conversione nella misura alternativa in disamina?

Chi scrive ritiene motivatamente di si.

La parte privata che formuli istanza di patteggiamento, prevedendo in tale atto un’ipotesi alternativa, infatti, si prefigura ed accetta preventivamente, la possibilità che il giudicante possa non ratificare il negozio processuale sulla pena nella sua globalità.

Viene, così, offerta dalla parte al giudice un’opzione alternativa, cioè la possibilità di esaminare, contestualmente una prospettazione del modo di definizione del procedimento, parzialmente diversa e che attiene esclusivamente al profilo dell’esecuzione eventuale della pena, ferma la conferma della adeguatezza retributiva della stessa così come suggerita dalle parti.

L’esercizio di una siffatta valutazione non pare, quindi, integrare estremi dell’incompatibilità, in quanto non viene inciso né l’an, né, tantomeno, il quantum poenae e l’implicita responsabilità penale dell’imputato (non si dimentichi che la sentenza resa ai sensi dell’art. 444 è equiparata a quella di condanna).

L’esercizio della descritta delibazione, come detto, involge, quindi, solamente l’adempimento della sanzione proposta ed accettata, presupponendo una globale valutazione in ordine alla pericolosità sociale ed alla prognosi futura dell’imputato.

La prescrizione della conversione della pena in quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, in sostanza impedisce al soggetto l’accesso al carcere e, come tale, pur ponendosi in posizione gradata rispetto alla sospensione condizionale della pena, deve reputarsi, comunque, misura assolutamente favorevole all’imputato.

Per quanto concerne la effettiva applicazione del disposto dell’art. 54 d.l.vo 28 agosto 2000, n. 274[10], non sorgono particolari problemi interpretativi.

Unica deroga al disposto della citata norma è quella per cui, nel caso che ci occupa, il lavoro di pubblica utilità ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata, a fronte di un usuale regime che da un minimo di 10 giorni ad un massimo di sei mesi.

Viene sancita, poi, la possibilità che la misura venga adempiuta anche nelle strutture iscritte nell'albo di cui all'articolo 116, previo consenso delle stesse.

E’ stata, inoltre, introdotta l’ipotesi di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità.

Tale situazione legittima la richiesta del P.M., oppure l’intervento d'ufficio del giudice competente ex art. 279 c.p.p., nella fase cognitiva o del giudice dell'esecuzione, se la sentenza è passata in cosa giudicata, con le formalità dell’incidente di esecuzione ex art. 666 c.p.p., a fini di revoca.

Prima dell’eventuale ripristino della pena oggetto di conversione, il giudice, come detto in contraddittorio, dovrà valutare sia l'entità dei motivi, sia le circostanze della violazione.

Il provvedimento di revoca è ricorribile per Cassazione, ma l’impugnazione non ha effetto sospensivo.

Viene, inoltre, posto un limite all’accesso alla misura alternativa nel senso che la pena non può venire sostituita dal lavoro di pubblica utilità può per non più di due volte.

 

GLI ILLECITI AMMINISTRATIVI PREVISTI DALL’ART. 75 E DALL’ART. 75 BIS

 

LE DISPOSIZIONI DI CUI ALL’ART. 75.

 

La recentissima riforma ha rivalutato e conferito una posizione di spiccata importanza alle disposizioni di cui all’art. 75[11].

La norma ripropone al comma 1° sanzioni già contenute in precedenza, stabilendo, un lasso di tempo che va da un minimo di un mese ad un massimo di un anno.

Le cd. sanzioni amministrative previste si compendiano nella:

a) sospensione della patente di guida o divieto di conseguirla (in proposito va ricordato che il comma 3° descrive le modalità del possibile immediato ritiro del documento e prevede, altresì, la possibilità dell’ulteriore fermo amministrativo di motoveicoli per un periodo non superiore a 30 giorni);

b) sospensione della licenza di porto d’armi o divieto di conseguirla;

c) sospensione del passaporto e di ogni altro documento equipollente o divieto di conseguirli;

d) sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o divieto di conseguirlo se cittadino extracomunitario.

Va segnalato, inoltre, che il legislatore ha solo aggiunto alla vera e propria sospensione di documenti autorizzativi già rilasciati, il divieto, di natura preventiva, di ottenere gli stessi nel periodo di interdizione.

Alle sanzioni principali sin qui indicate, la norma affianca, con il 2° comma, anche l’eventuale invito a seguire un programma terapeutico e socio-riabilitativo, o, comunque, un programma ad personam di recupero.

Il procedimento amministrativo è di competenza prefettizia.

Si ritiene che, in clima di riforme, che meglio sarebbe stato conferire l’incarico di definire le vicende non penalmente sanzionabili ad un organo giudiziario, quale il giudice di pace, ad esempio.

E’, infatti, fondata la considerazione che simili vicende, che comportano una sanzione, che necessitano, comunque, un contraddittorio, al fine di permettere all’interessato l‘esercizio del diritto di difesa, che postulano una decisione (archiviazione o inflizione di sanzione), la quale presenta rilevanti analogie con il procedimento giurisdizionale, che involgono delicate problematiche di fatto e diritto rispetto alle quali il giudice è indubbiamente soggetto qualificato e specificatamente preparato, ben avrebbero dovuto (e potuto) essere delegate alla Magistratura.

Sarebbe stato, pertanto, sufficiente qualificare le cd. sanzioni amministrative come misure interdittiva accessorie, stabilendo in principalità la sanzionabilità dei comportamenti in questione per il tramite di una pena pecuniaria, per potere dare corso ad un procedimento, rapido, serio e rispettoso dei diritti dell’interessato.

Anzi, sarebbe stato sufficiente mutuare la procedura dell’art. 13 comma 5 bis del d.l.vo 286/98, in materia di espulsione del cittadino extracomunitario, se non, addirittura, ispirarsi a quella sancita dall’art. 391 c.p.p.[12] (in tema di convalida dell’arresto e del fermo dell’indagato) per poter coniugare speditezza del procedimento, tutela della collettività e garanzie per l’interessato.

Sarebbe stato sufficiente stabilire che il provvedimento reso dal Giudice di Pace all’esito dell’udienza di convalida e di applicazione delle misure è ricorribile per Cassazione (con effetto sospensivo del ricorso) per costruire un iter procedimentale scevro da bizantinismi di sorta e veramente efficace.

La struttura e lo sviluppo del procedimento, quindi, non pare proprio informato a criteri di rapidità e snellezza.

Per fare un primo evidente esempio, i termini per la convocazione della persona e l’inizio del procedimento in contraddittorio, che avviene con notifica di ordinanza ad hoc sono stati, infatti, allungati, in quanto si è passati, dai 5 giorni del comma 6° della precedente formulazione, agli attuali 40 giorni, decorrenti dalla ricezione della segnalazione da parte degli organi di polizia.

Non si comprende, inoltre, se il Prefetto nell’ordinanza possa (o debba) preventivamente indicare all’interessato con la notifica della convocazione gli eventuali termini e la ipotizzata durata della sanzione che si intende irrogare, si da poter favorire una di lui difesa anche in relazione all’an ed al quantum della sanzione e non solo rispetto all’infrazione.

Viene, indi, riconosciuto all’interessato l’esercizio della facoltà di inviare scritti e memorie difensive (ai sensi dell’art. 18 L . 689/81), a sostegno, o in vece della vera e propria presentazione personale.

Entro 150 giorni dalla ricezione degli scritti o dalla comparizione personale dell’interessato, l’autorità, nel caso in cui si reputi di dover irrogare sanzioni, in forza del giudizio di fondatezza dell’accertamento, escludendosi, così, il ricorso all’archiviazione del procedimento, emette una nuova ordinanza di convocazione, cui segue, in caso di mancata comparizione l’inflizione delle sanzioni di cui al 1° comma.

I provvedimenti di convalida dell’accertamento e di ulteriore convocazione innanzi all’autorità prefettizia si assumono impugnabili di fronte al Giudice di Pace, oppure, in caso di persona minore di età dinanzi al Tribunale dei Minori, competente per territorio in relazione al criterio sancito dall’art. 13 (luogo di residenza o, in mancanza, di domicilio dell’interessato e, ove questi siano sconosciuti, luogo ove è  stato commesso il fatto).

Pare, quindi, di poter sostenere che proprio tale passaggio procedimentale, renda particolarmente farraginosa e macchinosa la procedura, posto che questo ricorso al Giudice di Pace avrà ad oggetto solo la convalida e l’invito a comparire.

Si tratta, quindi, di una procedura giurisdizionale affatto diversa e distinta da quella riportata al successivo comma 9, dove viene, invece, prevista la facoltà di proporre opposizione entro il termine di dieci giorni dalla notifica stessa, davanti al Giudice di Pace, e nel caso di minorenne al Tribunale per i Minorenni, competente in relazione al luogo come determinato in prosieguo, avverso il decreto con il quale il prefetto irroga le sanzioni di cui al comma 1 e eventualmente formula l’invito di cui al comma 2,

Appare evidente, onde permettere il corretto espletamento della facoltà di impugnare, che il provvedimento amministrativo impositivo la misura (o le misure) dovrà constare della precisa indicazione della o delle sanzioni che il Prefetto ritiene dover infliggere all’esito del contraddittorio instaurato e che è certamente obbligo dell’ente amministrativo, quello di munire l’atto di una motivazione adeguata e congrua, necessaria in ipotesi un così grave provvedimento, il quale incide (e non poco) nella sfera del cittadino.

Con i commi 6 e 7 dell’art. 75 vengono sanciti due principi attinenti al diritto di difesa della parte privata.

Da un lato,si circoscrive l’ambito di utilizzabilità degli accertamenti svolti al solo procedimento amministrativo, dall’altro si riconosce il diritto del cittadino ad accedere alla visione ed estrazione di copia degli atti che lo riguardino.

Meritevole di segnalazione è il comma 8, che riguarda il caso in cui la violazione sia stata compiuta dallo straniero maggiorenne e che prevede la comunicazione al questore territorialmente competente.

Le sanzioni inflitte possono essere revocate prima della loro naturale espiazione, ove venga fornita la prova che l’interessato si sia sottoposto, con esito positivo, al programma di cui al comma 2.

In proposito non si comprende la necessità che tale decisione venga comunicata al questore ed al Giudice di Pace, organi che possono intervenire solo eventualmente.

Più comprensibile sarebbe stato precisare con gli opportuni distinguo che i due organi vengono avvertiti se investiti del problema (il primo in caso di cittadino straniero, il secondo se fosse stata proposta opposizione).

Il procedimento, oltre che con un provvedimento di archiviazione (ove si dimostri l’infondatezza dell’addebito amministrativo mosso) può concludersi con esito favorevole al cittadino, ai sensi dell’art. 14, in ipotesi di particolare tenuità della violazione, essendo la prima volta, vengano a ricorrere elementi tali da far presumere che la persona si asterrà, per il futuro, dal commetterli nuovamente.

In tal caso, quindi, in luogo della sanzione, verrà inflitto un formale invito al soggetto affinchè non faccia più uso delle sostanze stupefacenti.

 

I PROVVEDIMENTI PREVISTI DALL’ART. 75 BIS

 

La norma in questione[13] introduce un regime di misure ulteriori che si applicano alla persona, oggetto dei provvedimenti di cui all’art. 75, che sia stata già condannata, anche con sentenza non definitiva per reati di varia natura (persona, patrimonio, stupefacenti, circolazione stradale) o sottoposto a misura di sicurezza o prevenzione, per un tempo non superiore a due anni.

La norma appare, pertanto, caratterizzata da una propria peculiarità essendo destinata ad personam, cioè a soggetti specificatamente individuati sulla base di una particolare situazione soggettiva (l’essere stati condannati o destinatari di provvedimenti di sicurezza).

Le sanzioni in questioni si differiscono da quelle indicate nel precedente art. 75, per il loro carattere maggiormente affittivo e coercitivo, che - come detto – ricalca chiaramente quello delle misure cautelari personali di natura codicistica.

Si tratta, pertanto, senza dubbio, di vere e proprie misure cautelari, poiché è evidente il loro carattere coattivo e limitativo della libertà personale, nonostante esse vengano applicate dal Questore, sono, però, soggette alla convalida da parte del Giudice di Pace, entro un termine massimo di 96 ore dalla loro esecuzione, che avviene con notifica all’interessato.

Nel caso l’interessato sia minorenne, ai sensi del comma 7, è competente a provvedere agli adempimenti concernenti la convalida il Tribunale per i minorenni, individuato in relazione al luogo di residenza o, in mancanza, di domicilio.

Resta, però, il convincimento che sia decisione assai opinabile quella del legislatore di affidare ad un organo di polizia (il questore) il compito di applicare, con valutazione discrezionale, una o più tra le misure previste.

Si tratta di un’invasione notevole, di discutibile ammissibilità e costituzionalità, nel campo del potere giudiziario.

Il controllo giurisdizionale da parte del giudice terzo appare, se non altro, passaggio procedimentale doveroso e condivisibile, a fronte di una simile inquietante delegazione di poteri giudiziari alla polizia.

Il Giudice di Pace è, così, chiamato ad operare con grande attenzione una forma di penetrante controllo sia sulla effettiva sussistenza della condizioni legittimanti il provvedimento, sia su quell’obbligo motivazionale, che il 2° comma dell’art. 75 bis impone al questore.

Tale controllo appare ancor più importante sol che si pensi alla circostanza che egli deve anche valutare se la prognosi di pericolosità presunta operata dagli organi di polizia trovi conforto in atti, soprattutto, in relazione a persone che siano state condannate con sentenze non definitive.

Sorge, però, il dubbio che una fase delicata ed importante quale risulta, nella fattispecie, la convalida del provvedimento coercitivo, emesso motu proprio dal questore, possa intervenire inaudita altera parte, cioè che il Giudice possa decidere in assenza di un vero contraddittorio fra le parti, con ciò limitando la possibilità espositiva delle ragioni di opposizione del singolo.

Chi scrive ritiene che un’interpretazione intelligente della norma in oggetto non possa prescindere dal fatto che si verte in ambito di verifica della legittimità e fondatezza di una misura che incide sulla libertà personale del cittadino, diritto costituzionalmente tutelato, la quale nella maniera del tutto atipica sopra evidenziata, viene applicata direttamente ed in maniera assai anomala da un organo di polizia e, solo in una fase successiva, sottoposta al vaglio del giudice.

Deriva, quindi, che laddove si dovesse rilevare nella fase di applicazione del procedimento l’adesione ad una procedura decisoria di convalida de plano, cioè priva di un’auspicabile e necessaria fase ricognitiva diretta che ponga il giudice in diretto rapporto gnoseologico con il soggetto passivo della procedura, permettendo a questi di difendersi in concreto, si dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale della norma – del tutto irragionevole – per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. .

Il Giudice di Pace mantiene il controllo della situazione de libertate, così concretatasi – nell’ipotesi di applicazione della misura – in quanto in progresso di tempo egli può modificare o revocare la stessa su istanza della parte.

Parimenti può essere chiamato a decidere su una richiesta di aggravamento, avanzata dal questore.

Se nel primo caso la decisione (allo stesso modo delle misure previste dal codice di procedura penale) avviene de plano, nel secondo, intervenendo una istanza che contiene un’ulteriore compressione del diritto del cittadino, questi ne deve essere avvisato, onde svolgere le facoltà a lui riconosciute al comma 2.

In quest’ultimo caso si ripropongono nella loro attualità tutti i dubbi e le questioni esaminate in relazione al giudizio di convalida.

L’unico caso in cui non vi devono essere formalità di sorta è quello preveduto al comma 4°, che consiste nella revoca di provvedimenti applicati ai sensi dell’art. 75.

In tale circostanza, che si può verificare, dice la legge, “…quando l’interessato risulta essersi sottoposto con esito positivo al programma di cui al comma 2 dell’articolo 75…”, vi sarà un effetto di consequenzialità che comporterà in capo al Giudice l’obbligo di revocare la misura adottata, con ordinanza de plano.

Le decisioni del Giudice di Pace, in ordine alla revoca o modifica della misura originariamente adottata, sono – a mente del comma 3 – ricorribili per Cassazione, sicchè sia la parte pubblica, che quella privata possa adire il Supremo Collegio, anche se l’impugnazione non produce effetto sospensivo.

La violazione di una delle disposizioni del comma 1 dell’art. 75 bis, costituisce reato contravvenzionale ed è punitacon l’arresto da tre a diciotto mesi.

 

IL NUOVO ART. 89 DPR 309/90.

 

E’ l’arresto domiciliare il fulcro del nuovo regime dell’art 89.

Tale misura va applicata in favore di chi dovrebbe essere attinto da un provvedimento sancente la custodia in carcere, che sia una persona tossicodipendente o alcooldipendente ed abbia già in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell’ambito di una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116.

Viene, così ristretto il precedente sistema che permetteva una radicale revoca della misura della custodia in carcere, o, comunque, l’accesso dell’inquisito anche ad un regime di maggior favore, quale quello previsto dalle misure di cui agli artt. 281, 282 e 283 c.p.p. .

Per il legislatore importanza decisiva riveste il timore che la possibile l’interruzione del programma possa pregiudicare il recupero dell’imputato.

In buona sostanza, se, con la formulazione precedente, l’art. 89 poneva al comma 1°[14], ora sostituito, un evidente, quanto chiaro, limite all’uso della custodia cautelare in carcere, (forma estrema di privazione della libertà individuale) ribadendo il principio che l’uso di tale misura custodiale deve essere giustificato da ragioni di eccezionalità, rimanendo essa una scelta a carattere estremo, in armonia al disposto dell’art. 273/3 prima parte, che recita testualmente “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata” e lasciando ampia libertà al giudice che poteva discrezionalmente valutare la necessità di altra misura meno gravosa, o, addirittura, porre in libertà l’inquisito, ora tale prospettiva viene maggiormente e fortemente circoscritta, atteso che viene posta una sola chiara alternativa al carcere, la quale consiste nell’arresto domiciliare[15].

Rimane, per vero, intatto il limite negativo della sussistenza di cautele eccezionali, condizione che assume un carattere di assoluta prevalenza rispetto ad ogni altra circostanza e che, pertanto, non può subire alcun bilanciamento, spiegando efficacia assoluta.

Anche se in termini maggiormente angusti ed indubbiamente meno soddisfacenti, residua una previsione che si concilia con il più generale disposto dell’art. 275 comma 4° e seguenti del codice di procedura penale[16], in tema di divieto della custodia in carcere ed individuazione e scelta delle misure in relazione al caso concreto.

Dal tenore letterale della norma si deve rilevare, poi, che la misura dell’arresto domiciliare può essere eseguita sia presso il domicilio dell’inquisito, che potrà seguire un piano terapeutico nelle forme del day-hospital, sia con l’accesso ad una struttura residenziale, ove ilo tossicodipendente dimori stabilmente.

Unica deroga viene prevista, ove la persona interessata sia indagata od imputata per uno fra i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, c.p. e nell’ipotesi in cui, senza raggiungere un livello di eccezionalità, possano sussistere particolari esigenze cautelari, l’arresto domiciliare presuppone necessariamente (“è subordinato”) che il programma terapeutico venga svolto in una struttura residenziale.

E’, così, previsto, il potere per il giudice di stabilire all’atto della sostituzione della misura o successivamente, eventuali forme di controllo necessarie per accertare che il soggetto adempia al programma di recupero, potendo, inoltre, indicare orari e giorni nei quali lo stesso possa assentarsi per l’attuazione del programma.

Va segnalato che il novellato comma 1° usa la locuzione “persona imputata”.

Nonostante la palese differenza giuridica fra indagato ed imputato, pare di poter dire che l’imperfezione terminologica del legislatore non possa valere ad escludere dal campo di applicazione della norma i soggetti indagati.

Una soluzione opposta restringere abnormemente la fase processuale di intervento della disposizione legislativa, escludendo dalla stessa immotivatamente (ed ingiustamente) la fase delle indagini preliminari e riservando le possibilità previste solo in favore di chi fosse in fase dibattimentale o di udienza preliminare.

La norma perderebbe, così, gran parte della propria significatività.

Si è, così, giunti ad elaborare un testo normativo che ha sancito due condizioni ostative alla custodia in carcere ed autorizzative o la custodia domestica od il trattamento residenziale in struttura riabilitativo pubblica o privata.

Da un lato, si rileva l’effettiva sussistenza di un programma terapeutico di recupero tramite una struttura organizzata.

Dall’altro, si sottolinea il timore che l’interruzione del programma stesso possa pregiudicare il buon esito del progetto.

Analogamente, il comma 2° dell’art. 89 prevede, sempre in favore delle persone già indicate al comma precedente che si trovino sottoposti alla misura custodiale estrema, la possibilità di ottenere la sostituzione della misura – in assenza di esigenze cautelari di natura eccezionale -, a condizione che l’interessato intenda sottoporsi ad un programma di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero una struttura privata autorizzata.

Anche in questo caso l’elemento di novità che si rinviene consiste nella riduzione delle opzioni de libertate, le quali si riducono ai soli arresti domiciliari; puntuale conferma deriva dalla sostituzione della parola “revoca” (della misura cautelare) con la parola “sostituzione”, scelta che significa la permanenza di un vincolo in capo all’interessato.

Viene, poi, riconosciuto anche alle strutture private accreditate ai sensi dell’art. 116 il potere, in precedenza conferito solo ai SERT, di attestare lo stato di tossicodipendenza del soggetto, mentre il tipo di documentazione da produrre non ha subito particolari modifiche.

Vige anche in questa ulteriore ipotesi il vincolo, già esposto e collegato ad una presunzione di pericolosità del soggetto, a che l’inquisito accusato per i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, c.p. e, sempre, in situazioni in cui sussistano particolari esigenze cautelari, debba necessariamente essere inserito in una struttura residenziale, elemento che subordina l’accoglimento dell’istanza.

L’insieme di previsioni di cui ai commi 1 e 2 novellati dell’art. 89 incontra, però, un limite nel disposto del successivo comma 4° (anch’esso novellato)[17], il quale oppone alla possibilità di derogare al regime carcerario estremo, la pendenza – a carico della persona che astrattamente possa fruire dell’accesso ai trattamenti terapeutici descritti – di un procedimento avente ad oggetto uno dei delitti di cui all’art. 4- bis L. 26.7.1975 n. 354[18], fatta eccezione di quelli di cui agli articoli 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale purché non siano ravvisabili elementi di collegamento con la criminalità  organizzata od eversiva.

Viene sostituita la previsione precedentemente vigente e che prendeva a parametro i reati ricompresi nell’art. 407 comma 2 lett. a), nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 c.p.p. .

In tale elencazione rientravano:

1) delitti di cui agli artt. 285, 286, 416 bis e 422 del codice penale;

2) delitti consumati o tentati di cui agli artt. 575, 628, terzo comma, 629, secondo comma, e 630 dello stesso codice penale;

3) delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo;

4) delitti commessi per finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell'ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, nonche' delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 270-bis, secondo comma, e 306, secondo comma, del codice penale;

5) delitti di illegale fabbricazione, introduzione nello Stato, messa in vendita, cessione, detenzione e porto in luogo pubblico o aperto al pubblico di armi da guerra o tipo guerra o parti di esse, di esplosivi, di armi clandestine nonché di più armi comuni da sparo escluse quelle previste dall'art. 2, comma terzo, della legge 18 aprile 1975, n. 11;

6) delitti di cui agli artt. 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'art. 80, comma 2, e 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni.

Rispetto a tali previsioni l’art. 4 –bis citato prevede, inoltre i delitti di cui

a) agli articoli 600, 601, 602 e 630 del codice penale,

b) all'articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43.

Si tratta in tutta evidenza di ipotesi di reato di particolare gravità e tali da suscitare un allarme sociale così rilevante, da giustificare l’ablazione e la compressione massima del diritto del singolo, anche a fronte di un status di tossicodipendenza in capo all’indagato.

La spiccata particolarità della situazione, descritta dai commi 1 e 2 dell’art. 89, è tale e palese al punto che – come si ricava dal disposto del comma 3° - in caso di interruzione dell’esecuzione del programma (o, in alternativa laddove il soggetto mantenga un comportamento incompatibile con la corretta esecuzione, o quando accerta che la persona non ha collaborato alla definizione del programma o ne ha rifiutato l'esecuzione), può essere disposto il ripristino della custodia cautelare o l’adozione della stessa. Si tratta di una previsione che è rimasta immune ad ogni tipo di modifica o censura e che si è perpetuata anche con l’entrata in vigore del d.l. n. 6927.

Del tutto inedito, invece, è il comma 5 bis[19], che impone una precisa responsabilità in capo al responsabile della struttura ove si esegue la misura ed il programma terapeutico, consistente nell’obbligo di segnalare qualsivoglia violazione commessa dal tossicodipendente sottoposto al programma.

Ove, in presenza di reati il soggetto responsabile non segnali quanto avvenuto all’autorità giudiziaria, può essere applicata la revoca o sospensione delle autorizzazioni amministrative.

Note

 

[1] Si legge, tra l’altro, nella relazione al progetto di legge 3397 del 2001, testo in base al quale è stata modellata la opzione normativa in oggetto “Su queste basi di principio e costituzionali si fondano le modifiche contenute nella presente proposta di legge, che si muove verso il recupero dell'impostazione di fondo del citato testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 e l'utilizzo dell'esperienza maturata a seguito dell'applicazione delle disposizioni in esso contenute e di ciò che è accaduto quando quell'impianto è stato modificato dal referendum del 1993” .

 

[2] V. in appendice le tabelle complete

 

[3] Art.4-bis

Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti.
1. L'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell'articolo 58-ter della presente legge: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitto di cui all'articolo 416-bis del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 601, 602 e 630 del codice penale, all'articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all'articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Sono fatte salve le disposizioni degli articoli 16-nonies e 17-bis del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82. I benefici suddetti possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti di cui al primo periodo del presente comma purchè siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, nonchè nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall'articolo 62, n. 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall'articolo 114 ovvero dall'articolo 116, secondo comma, del codice penale. I benefici di cui al presente comma possono essere concessi solo se non vi sono elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, ai detenuti o internati per i delitti di cui ai seguenti articoli: articoli 575, 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale, articolo 291-ter del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, articolo 73 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'articolo 80, comma 2, del medesimo testo unico, articolo 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del medesimo codice, dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale e dall'articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
2. Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni per il tramite del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato. In ogni caso il giudice decide trascorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni. Al suddetto comitato provinciale può essere chiamato a partecipare il direttore dell'istituto penitenziario in cui il condannato è detenuto.

2-bis. Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1, quarto periodo, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni dal questore. In ogni caso il giudice decide trascorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni.
3. Quando il comitato ritiene che sussistano particolari esigenze di sicurezza ovvero che i collegamenti potrebbero essere mantenuti con organizzazioni operanti in ambiti non locali o extranazionali, ne dà comunicazione al giudice e il termine di cui al comma 2 è prorogato di ulteriori trenta giorni al fine di acquisire elementi ed informazioni da parte dei competenti organi centrali.
3-bis. L'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, non possono essere concessi ai detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunica, d'iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione o internamento, l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In tal caso si prescinde dalle procedure previste dai commi 2 e 3.

 

[4] "Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e di sostanze psicotrope

1. Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14, è  punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26.000 a euro 260.000.

1-bis. Con le medesime pene di cui al comma 1 è  punito chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene:

a) sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del consiglio dei Ministri – Dipartimento nazionale per le politiche antidroga -, ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell’azione, appaiono destinate ad un uso non esclusivamente personale;

b) medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, che eccedono il quantitativo prescritto. In questa ultima ipotesi, le pene suddette sono diminuite da un terzo alla metà.

2 . CHIUNQUE, ESSENDO MUNITO DELL'AUTORIZZAZIONE DI CUI ALL'ARTICOLO 17, ILLECITAMENTE CEDE, METTE O PROCURA CHE ALTRI METTA IN COMMERCIO LE SOSTANZE INDICATE NELLE TABELLE I E II DI CUI ALL’ARTICOLO 14 E’ PUNITO CON LA RECLUSIONE DA SEI A VENTIDUE ANNI E CON LA MULTA DA 26.000 A € 300.000=.

2-bis. Le pene di cui al comma 2 si applicano anche nel caso di illecita produzione o commercializzazione delle sostanze chimiche di base e dei precursori di cui alle categorie 1, 2 e 3 dell’allegato I al presente testo unico, utilizzabili nella produzione clandestina delle sostanze stupefacenti o psicotrope previste nelle tabelle di cui all’articolo 14.

3. Le stesse pene si applicano a chiunque coltiva, produce o fabbrica sostanze stupefacenti o psicotrope diverse da quelle stabilite nel decreto di autorizzazione.

4. Quando le condotte di cui al comma 1 riguardano i medicinali ricompresi nella tabella II, sezioni A, B e C, di cui all’articolo 14 e non ricorrono le condizioni di cui all’articolo 17, si applicano le pene ivi stabilite, diminuite da un terzo alla metà .

5. Quando, per i mezzi, per la modalità  o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità  e quantità  delle sostanze, i fatti previsti dal presente articolo sono di lieve entità , si applicano le pene della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 a euro 26.000.";

5-bis. Nell’ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui all’articolo 73 commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’articolo 444 del codice di procedura penale, su richiesta dell’imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, puo` applicare, anziché  le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilità  di cui all’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste. Con la sentenza il giudice incarica l’Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L’Ufficio riferisce periodicamente al giudice. In deroga a quanto disposto dall’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, il lavoro di pubblica utilità  ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata. Esso puo` essere disposto anche nelle strutture private autorizzate ai sensi dell’articolo 116, previo consenso delle stesse. In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità , in deroga a quanto previsto dall’articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, su richiesta del Pubblico ministero o d’ufficio, il giudice che procede, o quello dell’esecuzione, con le formalità  di cui all’articolo 666 del codice di procedura penale, tenuto conto dell’entità  dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita. Avverso tale provvedimento di revoca è  ammesso ricorso per Cassazione, che non ha effetto sospensivo. Il lavoro di pubblica utilità  puo` sostituire la pena per non piu`di due volte.".

6 . SE IL FATTO È COMMESSO DA TRE O PIÙ PERSONE IN CONCORSO TRA LORO, LA PENA È AUMENTATA.

7 . LE PENE PREVISTE DAI COMMI DAL PRIMO AL SESTO SONO DIMINUITE DALLA METÀ A DUE TERZI PER CHI SI ADOPERA PER EVITARE CHE L'ATTIVITÀ DELITTUOSA SIA PORTATA A CONSEGUENZE ULTERIORI, ANCHE AIUTANDO CONCRETAMENTE L'AUTORITÀ DI POLIZIA O L'AUTORITÀ GIUDIZIARIA NELLA SOTTRAZIONE DI RISORSE RILEVANTI PER LA COMMISSIONE DEI DELITTI.

 

[5] Per un interessante presa di posizione sul tema V. Cass. pen., Sez. III, 21/04/1993, Porcelli, Cass. Pen., 1994, 2220, Mass. Pen. Cass., 1993, fasc.11, 18

 

[6] Per una più approfondita disamina del problema si rinvia alla trattazione svolta sullo specifico punto al capitolo 2.

 

[7] 163 Sospensione condizionale della pena

(articolo così modificato dall'articolo 1 della legge n. 145 del 2004)

1. Nel pronunciare sentenza di condanna alla reclusione o all'arresto per un tempo non superiore a due anni, ovvero a pena pecuniaria che, sola o congiunta alla pena detentiva e ragguagliata a norma dell'art. 135, sia equivalente ad una pena privativa della libertà personale per un tempo non superiore, nel complesso, a due anni, il giudice può ordinare che l'esecuzione della pena rimanga sospesa per il termine di cinque anni se la condanna è per delitto e di due anni se la condanna è per contravvenzione. In caso di sentenza di condanna a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva non superiore a due anni, quando la pena nel complesso, ragguagliata a norma dell'articolo 135, sia superiore a due anni, il giudice può ordinare che l'esecuzione della pena detentiva rimanga sospesa.

2. Se il reato è stato commesso da un minore degli anni diciotto, la sospensione può essere ordinata quando si infligga una pena restrittiva della libertà personale non superiore a tre anni, ovvero una pena pecuniaria che, sola o congiunta alla pena detentiva e ragguagliata a norma dell'art. 135, sia equivalente ad una pena privativa della libertà personale per un tempo non superiore, nel complesso, a tre anni. In caso di sentenza di condanna a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva non superiore a tre anni, quando la pena nel complesso, ragguagliata a norma dell'articolo 135, sia superiore a tre anni, il giudice può ordinare che l'esecuzione della pena detentiva rimanga sospesa.

3. Se il reato è stato commesso da persona di età superiore agli anni diciotto ma inferiore agli anni ventuno o da chi ha compiuto gli anni settanta, la sospensione può essere ordinata quando si infligga una pena restrittiva della libertà personale non superiore a due anni e sei mesi ovvero una pena pecuniaria che, sola o congiunta alla pena detentiva e ragguagliata a norma dell'articolo 135, sia equivalente ad una pena privativa della libertà personale per un tempo non superiore, nel complesso, a due anni e sei mesi. In caso di sentenza di condanna a pena pecuniaria congiunta a pena detentiva non superiore a due anni e sei mesi, quando la pena nel complesso, ragguagliata a norma dell'articolo 135, sia superiore a due anni e sei mesi, il giudice può ordinare che l'esecuzione della pena detentiva rimanga sospesa;

4. Qualora la pena inflitta non sia superiore ad un anno e sia stato riparato interamente il danno, prima che sia stata pronunciata la sentenza di primo grado, mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni, nonché qualora il colpevole, entro lo stesso termine e fuori del caso previsto nel quarto comma dell'articolo 56, si sia adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato da lui eliminabili, il giudice può ordinare che l'esecuzione della pena, determinata nel caso di pena pecuniaria ragguagliandola a norma dell'articolo 135, rimanga sospesa per il termine di un anno.

 

[8] Cass. pen., Sez.II, 14/03/2001, n.14151, De Masi, Arch. Nuova Proc. Pen., 2001, 284

Attese le profonde differenze tra il c.d. "patteggiamento in appello", previsto dall'art. 599, comma 4, c.p.p. (nel testo novellato dall'art. 1 della l. 19 gennaio 1999 n. 14), e quello ordinario disciplinato dagli art. 444 ss. c.p.p., è da escludere che nel primo di essi possa trovare attivazione la regola dettata dal comma 3 del citato art. 444 secondo cui il giudizio deve respingere la richiesta di applicazione della pena qualora, avendo la parte esplicitamente subordinato la sua efficacia alla concessione della sospensione condizionale, non ritenga di concedere tale beneficio.

 

[9] Cfr .Pret. Padova, 22/03/1996, Zanirato, Arch. Nuova Proc. Pen., 1996, 620

 

[10] Art. 54.( Lavoro di pubblica utilita')

1. Il giudice di pace puo' applicare la pena del lavoro di pubblica utilita' solo su richiesta dell'imputato.

2. Il lavoro di pubblica utilita' non puo' essere inferiore a dieci giorni ne' superiore a sei mesi e consiste nella prestazione di attivita' non retribuita in favore della collettivita' da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato.

3. L 'attivita' viene svolta nell'ambito della provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non piu' di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalita' e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice puo' ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilita' per un tempo superiore alle sei ore settimanali.

4. La durata giornaliera della prestazione non puo' comunque oltrepassare le otto ore.

5. Ai fini del computo della pena, un giorno di lavoro di pubblica utilita' consiste nella prestazione, anche non continuativa, di due ore di lavoro.

6. Fermo quanto previsto dal presente articolo, le modalita' di svolgimento del lavoro di pubblica utilita' sono determinate dal Ministro della giustizia con decreto d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281.

 

[11] Art. 4-ter

1. L’articolo 75 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, è  sostituito dal seguente:

"Art. 75. - (Condotte integranti illeciti amministrativi).

1. Chiunque illecitamente importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope fuori dalle ipotesi di cui all’articolo 73, comma 1-bis, o medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezioni B e C, fuori delle condizioni di cui all’articolo 72, comma 2, è  sottoposto, per un periodo non inferiore a un mese e non superiore a un anno, a una o piu`delle seguenti sanzioni amministrative:

a) sospensione della patente di guida o divieto di conseguirla;

b) sospensione della licenza di porto d’armi o divieto di conseguirla;

c) sospensione del passaporto e di ogni altro documento equipollente o divieto di conseguirli;

d) sospensione del permesso di soggiorno per motivi di turismo o divieto di conseguirlo se cittadino extracomunitario.

2. L’interessato, inoltre, ricorrendone i presupposti, è  invitato a seguire il programma terapeutico e socio-riabilitativo di cui all’articolo 122 o altro programma educativo e informativo personalizzato in relazione alle proprie specifiche esigenze, predisposto dal servizio pubblico per le tossicodipendenze competente per territorio analogamente a quanto disposto al comma 12 o da una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116.

3. Accertati i fatti di cui al comma 1, gli organi di polizia procedono alla contestazione immediata, se possibile, e riferiscono senza ritardo e comunque entro dieci giorni, con gli esiti degli esami tossicologici sulle sostanze sequestrate effettuati presso le strutture pubbliche di cui al comma 10, al prefetto competente ai sensi del comma 12. Ove, al momento dell’accertamento, l’interessato abbia la diretta e immediata disponibilità  di veicoli a motore, gli organi di polizia procedono altresì all’immediato ritiro della patente di guida. Qualora la disponibilità sia riferita ad un ciclomotore, gli organi accertatori ritirano anche il certificato di idoneità tecnica, sottoponendo il veicolo a fermo amministrativo. Il ritiro della patente di guida, nonché del certificato di idoneità tecnica e il fermo amministrativo del ciclomotore hanno durata di trenta giorni e ad essi si estendono gli effetti di quanto

previsto al comma 4. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni degli articoli 214 e 216 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni. La patente di guida e il certificato di idoneità tecnica sono trasmessi al prefetto competente ai sensi del comma 12. In caso di guida di un veicolo durante il periodo in cui la patente sia stata ritirata ovvero di circolazione con il veicolo sottoposto a fermo amministrativo, si applicano rispettivamente le sanzioni previste dagli articoli 216 e 214 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni.

4. Entro il termine di quaranta giorni dalla ricezione della segnalazione, il prefetto, se ritiene fondato l’accertamento, adotta apposita ordinanza convocando, anche a mezzo degli organi di polizia, dinanzi a sé o a un suo delegato, la persona segnalata per valutare, a seguito di colloquio, le sanzioni amministrative da irrogare e la loro durata nonché, eventualmente, per formulare l’invito di cui al comma 2. In tale attività il prefetto è assistito dal personale del nucleo operativo costituito presso ogni prefettura-ufficio territoriale del governo. Nel caso in cui l’interessato si avvalga delle facoltà previste dall’articolo 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689, e successive modificazioni, e non venga emessa ordinanza motivata di archiviazione degli atti, da comunicare integralmente all’organo che ha effettuato la segnalazione, contestualmente all’ordinanza con cui viene ritenuto fondato l’accertamento, da adottare entro centocinquanta giorni dalla ricezione degli scritti difensivi ovvero dallo svolgimento dell’audizione ove richiesta, il prefetto convoca la persona segnalata ai fini e con le modalità indicate nel presente comma. La mancata presentazione al colloquio comporta l’irrogazione delle sanzioni di cui al comma 1. Avverso l’ordinanza con cui il prefetto ritiene fondato l’accertamento e convoca la persona segnalata può essere proposta opposizione al giudice di pace, entro il termine di dieci giorni dalla notifica all’interessato. Nel caso di minore l’opposizione viene proposta al tribunale per i minori. Valgono per la competenza territoriale in merito all’opposizione gli stessi criteri indicati al comma 12.

5. Se l’interessato è persona minore di età , il prefetto, qualora cio` non contrasti con le esigenze educative del medesimo, convoca i genitori o chi ne esercita la potestà , li rende edotti delle circostanze di fatto e dà  loro notizia circa le strutture di cui al comma 2.

6. Degli accertamenti e degli atti di cui ai commi da 1 a 5 puo` essere fatto uso soltanto ai fini dell’applicazione delle misure e delle sanzioni previste nel presente articolo e nell’articolo 75-bis.

7. L’interessato puo` chiedere di prendere visione e di ottenere copia degli atti di cui al presente articolo che riguardino esclusivamente la sua persona. Nel caso in cui gli atti riguardino piu` persone, l’interessato puo` ottenere il rilascio di estratti delle parti relative alla sua situazione.

8. Qualora la condotta di cui al comma 1 sia stata posta in essere da straniero maggiorenne, gli organi di polizia ne riferiscono altresì al questore competente per territorio in relazione al luogo, come determinato al comma 12, per le valutazioni di competenza in sede di rinnovo del permesso di soggiorno.

9. Al decreto con il quale il prefetto irroga le sanzioni di cui al comma 1 e eventualmente formula l’invito di cui al comma 2, che ha effetto dal momento della notifica all’interessato, puo` essere fatta opposizione entro il termine di dieci giorni dalla notifica stessa, davanti al giudice di pace, e nel caso di minorenne al tribunale per i minorenni, competente in relazione al luogo come determinato al comma 12. Copia del decreto è  contestualmente inviata al questore di cui al comma 8.

10. Gli accertamenti medico-legali e tossicologico-forensi sono effettuati presso gli istituti di medicina legale, i laboratori universitari di tossicologia forense, le strutture delle Forze di polizia ovvero presso le strutture pubbliche di base da individuare con decreto del Ministero della salute.

11. Se risulta che l’interessato si sia sottoposto, con esito positivo, al programma di cui al comma 2, il prefetto adotta il provvedimento di revoca delle sanzioni, dandone comunicazione al questore e al giudice di pace competente.

12. Si applicano, in quanto compatibili, le norme della sezione II del capo I e il secondo comma dell’articolo 62 della legge 24 novembre 1981, n. 689.

13. Il prefetto competente per territorio in relazione al luogo di residenza o, in mancanza, di domicilio dell’interessato e, ove questi siano sconosciuti, in relazione al luogo ove è  stato commesso il fatto, applica le sanzioni di cui al comma 1 e formula l’invito di cui al comma 2.

14. Se per i fatti previsti dal comma 1, nel caso di particolare tenuità della violazione, ricorrono elementi tali da far presumere che la persona si asterrà, per il futuro, dal commetterli nuovamente, in luogo della sanzione, e limitatamente alla prima volta, il prefetto può definire il procedimento con il formale invito a non fare più uso delle sostanze stesse, avvertendo il soggetto delle conseguenze a suo danno.

 

[12] Art.391 (Udienza di convalida)

1. L’udienza di convalida si svolge in camera di consiglio con la partecipazione necessaria del difensore dell’arrestato o del fermato.

2. Se il difensore di fiducia o di ufficio non è stato reperito o non è comparso, il giudice provvede a norma dell’art. 97 comma 4.

3. Il pubblico ministero, se comparso, indica i motivi dell’arresto o del fermo e illustra le richieste in ordine alla libertà personale. Il giudice procede quindi all’interrogatorio dell’arrestato o del fermato, salvo che questi non abbia potuto o si sia rifiutato di comparire; sente in ogni caso il suo difensore.

4. Quando risulta che l’arresto o il fermo è stato legittimamente eseguito e sono stati osservati i termini previsti dagli artt. 386 comma 3 e 390 comma 1, il giudice provvede alla convalida con ordinanza. Contro l’ordinanza che decide sulla convalida, il pubblico ministero e l’arrestato o il fermato possono proporre ricorso per cassazione.

5. Se ricorrono le condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 e taluna delle esigenze cautelari previste dall’art. 274, il giudice dispone l’applicazione di una misura coercitiva a norma dell’art. 291. Quando l'arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell'articolo 381, comma 2, ovvero per uno dei delitti per i quali è consentito anche fuori dai casi di flagranza, l'applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli articoli 274, comma 1, lettera c), e 280 (1).

6. Quando non provvede a norma del comma 5, il giudice dispone con ordinanza la immediata liberazione dell’arrestato o del fermato.

7. Le ordinanze previste dai commi precedenti, se non sono pronunciate in udienza, sono comunicate o notificate a coloro che hanno diritto di proporre impugnazione. Le ordinanze pronunciate in udienza sono comunicate al pubblico ministero e notificate all’arrestato o al fermato, se non comparsi. I termini per l’impugnazione decorrono dalla lettura del provvedimento in udienza ovvero dalla sua comunicazione o notificazione. L’arresto o il fermo cessa di avere efficacia se l’ordinanza di convalida non è pronunciata o depositata nelle quarantotto ore successive al momento in cui l’arrestato o il fermato è stato posto a disposizione del giudice.

(1) Periodo così sostituito dall’art. 12 L .26 marzo 2001 n.128, in G.U.n. 91 del 19 aprile 2001 [il testo precedente disponeva: Quando l’arresto è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell’art. 381 comma 2, l’applicazione della misura è disposta anche al di fuori dei limiti previsti dall’art. 280.]

 

[13] "Art. 75-bis. - (Provvedimenti a tutela della sicurezza pubblica).

1. Qualora in relazione alle modalità  od alle circostanze dell’uso, dalla condotta di cui al comma 1 dell’articolo 75 possa derivare pericolo per la sicurezza pubblica, l’interessato che risulti già  condannato, anche non definitivamente, per reati contro la persona, contro il patrimonio o per quelli previsti dalle disposizioni del presente testo unico o dalle norme sulla circolazione stradale, oppure sanzionato per violazione delle norme del presente testo unico o destinatario di misura di prevenzione o di sicurezza, puo` essere inoltre sottoposto, per la durata massima di due anni, ad una o piu` delle seguenti misure:

a) obbligo di presentarsi almeno due volte a settimana presso il locale ufficio della Polizia di Stato o presso il comando dell’Arma dei carabinieri territorialmente competente;

b) obbligo di rientrare nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora, entro una determinata ora e di non uscirne prima di altra ora prefissata;

c) divieto di frequentare determinati locali pubblici;

d) divieto di allontanarsi dal comune di residenza;

e) obbligo di comparire in un ufficio o comando di polizia specificamente indicato, negli orari di entrata ed uscita dagli istituti scolastici;

f) divieto di condurre qualsiasi veicolo a motore.

2. Il questore, ricevuta copia del decreto con il quale è  stata applicata una delle sanzioni di cui all’articolo 75, quando la persona si trova nelle condizioni di cui al comma 1, puo` disporre le misure di cui al medesimo comma, con provvedimento motivato, che ha effetto dalla notifica all’interessato, recante l’avviso che lo stesso ha facoltà  di presentare, personalmente o a mezzo di difensore, memorie o deduzioni al giudice della convalida. Il provvedimento è comunicato entro quarantotto ore dalla notifica al giudice di pace competente per territorio in relazione al luogo di residenza o, in mancanza, di domicilio dell’interessato. Il giudice, se ricorrono i presupposti di cui al comma 1, dispone con decreto la convalida nelle successive quarantotto ore.

3. Le misure, su istanza dell’interessato, sentito il questore, possono essere modificate o revocate dal giudice di pace competente, qualora siano cessate o mutate le condizioni che ne hanno giustificato l’emissione. Le prescrizioni possono essere altresì modificate, su richiesta del questore, qualora risultino aggravate le condizioni che ne hanno giustificato l’emissione. In tal caso, con la richiesta di modifica, il questore deve avvisare l’interessato della facoltà  prevista dal comma 2. Il ricorso per cassazione contro il provvedimento di revoca o di modifica non ha effetto sospensivo.

4. Il decreto di revoca dei provvedimenti di cui all’articolo 75, adottato quando l’interessato risulta essersi sottoposto con esito positivo al programma di cui al comma 2 dell’articolo 75, è  comunicato al questore e al giudice ai fini della revoca dei provvedimenti eventualmente emessi ai sensi del presente articolo. Il giudice provvede senza formalità .

5. Della sottoposizione con esito positivo al programma è data comunicazione al questore in relazione al disposto di cui al comma 8 dell’articolo 75.

6. Il contravventore anche solo ad una delle disposizioni del comma 1 del presente articolo è  punito con l’arresto da tre a diciotto mesi.

7. Qualora l’interessato sia minorenne, competente a provvedere ai sensi dei commi dal 2 al 4 è  il tribunale per i minorenni, individuato in relazione al luogo di residenza o, in mancanza, di domicilio

 

[14] Articolo 89

 

(Decreto-legge 22 aprile 1985, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 1985, n. 297, art. 4-quinquies, sostituito dall'art. 275, comma 5, del codice di procedura penale)

Provvedimenti restrittivi nei confronti dei tossicodipendenti o alcooldipendenti che abbiano in corso programmi terapeutici.

Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputata é una persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell'ambito di una struttura autorizzata, e l'interruzione del programma può pregiudicare la disintossicazione dell'imputato. Con lo stesso provvedimento, o con altro successivo, il giudice stabilisce i controlli necessari per accertare che il tossicodipendente o l'alcooldipendente prosegua il programma di recupero.

Se una persona tossicodipendente o alcooldipendente, che é in custodia cautelare in carcere, intende sottoporsi ad un programma di recupero presso i servizi pubblici per l'assistenza ai tossicodipendenti, ovvero una struttura autorizzata residenziale, la misura cautelare é revocata, sempre che non ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. La revoca é concessa su istanza dell'interessato; all'istanza é allegata certificazione, rilasciata da un servizio pubblico per le tossicodipendenze, attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcooldipendenza, nonché la dichiarazione di disponibilità all'accoglimento rilasciata dalla struttura. Il servizio pubblico é comunque tenuto ad accogliere la richiesta dell'interessato di sottoporsi a programma terapeutico.

Il giudice dispone la custodia cautelare in carcere o ne dispone il ripristino quando accerta che la persona ha interrotto l'esecuzione del programma, ovvero mantiene un comportamento incompatibile con la corretta esecuzione, o quando accerta che la persona non ha collaborato alla definizione del programma o ne ha rifiutato l'esecuzione.

Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano quando si procede per uno dei delitti previsti dall'articolo 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6), , del codice di procedura penale (a).

Nei confronti delle persone di cui al comma 2 si applicano le disposizioni previste dall'articolo 96, comma 6.

 

[15] 1. Qualora ricorrano i presupposti per la custodia cautelare in carcere il giudice, ove non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, dispone gli arresti domiciliari quando imputata è una persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti, ovvero nell’ambito di una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116, e l’interruzione del programma puo` pregiudicare il recupero (disintossicazione) dell’imputato. Quando si procede per i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, del codice penale e comunque nel caso sussistano particolari esigenze cautelari, il provvedimento è  subordinato alla prosecuzione del programma terapeutico n una struttura residenziale. Con lo stesso provvedimento, o con altro successivo, il giudice stabilisce i controlli necessari per accertare che il tossicodipendente o l’alcooldipendente prosegua il programma di recupero ed indica gli orari ed i giorni nei quali lo stesso puo`assentarsi per l’attuazione del programma.

2. Se una persona tossicodipendente o alcooldipendente, che è  in custodia cautelare in carcere, intende sottoporsi ad un programma di recupero presso i servizi pubblici per l’assistenza ai tossicodipendenti, ovvero una struttura privata autorizzata ai sensi dell’articolo 116, la misura cautelare è (revocata) sostituita con quella degli arresti domiciliari ove non ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza. La sostituzione (revoca) è  concessa su istanza dell’interessato; all’istanza è  allegata certificazione, rilasciata da un servizio pubblico per le tossicodipendenze o da una struttura privata accreditata per l’attività di diagnosi prevista dal comma 2, lettera d), dell’articolo 116, attestante lo stato di tossicodipendenza o di alcooldipendenza, la procedura con la quale è  stato accertato l’uso abituale di sostanze stupefacenti, psicotrope o alcoliche, nonché  la dichiarazione di disponibilità  all’accoglimento rilasciata dalla struttura. Il servizio pubblico è  comunque tenuto ad accogliere la richiesta dell’interessato di sottoporsi a programma terapeutico. L’autorità  giudiziaria, quando si procede per i delitti di cui agli articoli 628, terzo comma, o 629, secondo comma, del codice penale e comunque nel caso sussistano particolari esigenze cautelari, subordina l’accoglimento dell’istanza all’individuazione di una struttura residenziale".

 

[16] Art. 275 (Criteri di scelta delle misure) – commi 1, 1 bis, 2, 2 bis, 2 ter e 3 omissis

4. Non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole, ovvero persona che ha superato l'età di settanta anni.

4-bis. Non può essere disposta ne' mantenuta la custodia cautelare in carcere quando l'imputato e' persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria accertate ai sensi dell'articolo 286-bis, comma 2 , ovvero da altra malattia particolarmente grave, per effetto della quale le sue condizioni di salute risultano incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non consentire adeguate cure in caso di detenzione in carcere.

4-ter. Nell'ipotesi di cui al comma 4-bis, se sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza e la custodia cautelare presso idonee strutture sanitarie penitenziarie non e' possibile senza pregiudizio per la salute dell'imputato o di quella degli altri detenuti, il giudice dispone la misura degli arresti domiciliari presso un luogo di cura o di assistenza o di accoglienza. Se l'imputato e' persona affetta da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, gli arresti domiciliari possono essere disposti presso le unita' operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unita' operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell'assistenza ai casi di AIDS, ovvero presso una residenza collettiva o casa alloggio di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 5 giugno 1990, n. 135.

4-quater. Il giudice può comunque disporre la custodia cautelare in carcere qualora il soggetto risulti imputato o sia stato sottoposto ad altra misura cautelare per uno dei delitti previsti dall'articolo 380, relativamente a fatti commessi dopo l'applicazione delle misure disposte ai sensi dei commi 4-bis e 4-ter. In tal caso il giudice dispone che l'imputato venga condotto in un istituto dotato di reparto attrezzato per la cura e l'assistenza necessarie.

4-quinquies. La custodia cautelare in carcere non può comunque essere disposta o mantenuta quando la malattia si trova in una fase cosi' avanzata da non rispondere più, secondo le certificazioni del servizio sanitario penitenziario o esterno, ai trattamenti disponibili e alle terapie curative.

 

[17] Il comma 4 è  sostituito dal seguente:

"4. Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 non si applicano quando si procede per uno dei delitti previsti dall’articolo 4-bis della legge 26 Luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, ad eccezione di quelli di cui agli articoli 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale purché  non siano ravvisabili elementi di collegamento con la criminalità  organizzata od eversiva ";

 

[18] Come già detto in altra parte si tratta di delitti di particolare gravità, in relazione alla commissione dei quali si deve accertare la pericolosità dell’autore, ma soprattutto, per ottenere l’accesso ai benefici dell’ordinamento penitenziario gli interessati devono collaborare con la giustizia a norma dell'articolo 58-ter della L. 354/75

 

[19] d) dopo il comma 5 è  aggiunto il seguente:

"5-bis. Il responsabile della struttura presso cui si svolge il programma terapeutico di recupero e socio-riabilitativo è  tenuto a segnalare all’autorità  giudiziaria le violazioni commesse dalla persona sottoposta al programma. Qualora tali violazioni integrino un reato, in caso di omissione, l’autorità  giudiziaria ne dà  comunicazione alle autorità competenti per la sospensione o revoca dell’autorizzazione di cui all’articolo 116 e dell’accreditamento di cui all’articolo 117, ferma restando l’adozione di misure idonee a tutelare i soggetti in trattamento presso la struttura".


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