Articolo C.A. Zaina

 

Stupefacenti: inammissibilità del ricorso in cassazione e nuova disciplina

Cassazione, sez. VI penale, sentenza 03.04.2006 n° 14057 (di Carlo Alberto Zaina)

 

La sentenza del Supremo Collegio che si annota appare particolarmente rilevante per tre ordini di motivi di natura processuale.

Essa, infatti, fornisce adeguati riscontri e risposte a censure involgenti:

1. l’erronea applicazione degli articoli 73 e 75 Dpr 309/90 e relativo vizio di motivazione in relazione alla non esclusione – da parte dei giudici di merito - della destinazione allo spaccio della cocaina detenuta dal ricorrente;

2. l’erronea applicazione della legge penale e relativo vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione del comma 5 dell’articolo 73 Dpr 309/90;

3. l’applicazione nel caso in esame ai sensi dell’articolo 2, terzo comma Cp, posto che nelle more della fissazione dell’udienza in Cassazione, è entrata in vigore la L. 49/2006 che ha modificato il regime sanzionatorio dell’art. 73, abbassando i minimi edittali di pena.

 

A. L’ERRONEA APPLICAZIONE DI NORME PENALI ED IL DIFETTO DI MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA DI MERITO.

 

Per quanto concerne i primi due aspetti (che per identità argomentativa si reputa utile trattare unitariamente) si deve rilevare che la Corte di legittimità ha ribadito il proprio – peraltro ampiamente consolidato e condivisibile – orientamento, che riconosce un deficit motivazionale denunziabile ai sensi della lett. e) dell’art. 606 c.p.p. solo ove sia ravvisabile una mancanza od una manifesta illogicità della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato[1].

L’insegnamento che deriva, è, pertanto, nel senso che non possono formare oggetto di ricorso per Cassazione doglianze che contestino la correttezza delle proposizioni inserite nella motivazione attraverso il diretto riferimento alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti processuali.

Un esame di tal fatta è, infatti, precluso al giudice di legittimità e, comunque, è circostanza pacificamente accolta quella per cui il vizio di motivazione deve emergere ictu oculi.

In proposito si ricorda che le Sezioni Unite con la pronuncia 24 Novembre 1999 n. 24[2] hanno sciolto ogni dubbio, sostenendo che “L'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali. L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento”. (conf. Cass. pen., sez. IV, 04/10/2004, n.4655, in Guida al Diritto, 2005, 5, 59; Cass. pen., sez. V, 04/10/2004, n.45420, Debbiati, Guida al Diritto, 200 4, 50, 74).

In coerente armonia con i principi ricordati, il Collegio di legittimità ha negato capacità inficiativa della sentenza di merito agli argomenti difensivi definiti “generici e indimostrati” ed ha escluso, con decisione, che possa “costituire vizio deducibile in sede dì legittimità la mera prospettazione di una diversa (e, per il ricorrente, più adeguata) valutazione delle risultanze processuali”.

La Corte Suprema ha, infatti, negato che possa rientrare tra i poteri del giudice di legittimità, “quello di compiere una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, essendo il sindacato in questa sede circoscritto alla verifica dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione”.

 

B. L’APPLICAZIONE (IN FORZA DEL DISPOSTO DELL’ART. 2 COMMA 3 C .P.) DELLE NUOVE SANZIONI PREVISTE DALL’ART. 73 DPR 309/90, COME MODIFICATO DALLA L. 49/2006 ED L’EFFETTO PRECLUSIVO DATO DALL’INAMMISSIBILITA’ DEL RICORSO PER CASSAZIONE.

 

Profili di ulteriore e preponderante interesse emergono in relazione alla terza questione emersa in corso di procedimento.

In buona sostanza, la difesa, preso atto – nelle more della discussione del giudizio di legittimità - dell’entrata in vigore della L. 49 del 2006, che modifica radicalmente il T.U. 309/90 (e su cui lo scrivente si è diffusamente e criticamente già intrattenuto[3]), ha richiesto, ai sensi dell’art. 2 co. 3 c.p., che si desse ingresso all’applicazione del legge più favorevole all’imputato, che – nella fattispecie – è proprio quella di recente promulgata, con correlativa diminuzione di pena.

La soluzione negativa a tale prospettazione difensiva, adottata dalla Corte, si fonda sulla osservazione dell’effetto preclusivo, determinato dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso interposto, che impedisce l’attivazione di un meccanismo valutativo l’applicabilità dello ius superveniens al caso concreto.

Per meglio comprendere la linearità del persistente orientamento del Supremo Collegio, ci si deve soffermare brevemente sul concetto di inammissibilità coniugato al procedimento penale di legittimità.

La declaratoria d’inammissibilità del ricorso per cassazione altro non è che la rilevazione sul piano giuridico dell’esistenza di una causa di inidoneità del ricorso ad instaurare il giudizio di legittimità.

Essa assume la forma dell'ordinanza anche in caso di trasferimento della cognizione e decisione del ricorso dall'apposita sezione istituita dal comma 1 dell'art. 610 (modificato dall'art. 6 della legge 26 marzo 2001 n. 128 alle Sezioni unite, a nulla rilevando la circostanza che tale ordinanza, in quanto definisce il giudizio, abbia nella sostanza natura di sentenza (Cass. pen., sez. unite, 28/01/2004, n.5466, Gallo)[4].

In dottrina si segnala VALENTINI[5], che ha rilevato la natura - sempre e comunque - meramente dichiarativa e non costitutiva della decisione sul vizio d'inammissibilità.

La pronuncia de qua si risolve, pertanto, con l’uso della forma dell'ordinanza, in una absolutio ab instantia, posto che essa certifica la non conformità del ricorso allo schema processuale e l'inidoneità ab origine del medesimo ad instaurare un valido rapporto d'impugnazione davanti alla Corte di Cassazione.

Codicisticamente, si rilevano, poi, più situazioni che possono cagionare tale effetto processuale.

Esse si ricavano:

1. in senso positivo, dall'elencazione prevista negli artt. 606, 1° co., e 609, 2° co., dei casi e motivi che fondano la cognizione della corte,

2. in senso negativo, conseguendo all'individuazione, sia delle cause d'inammissibilità dell'impugnazione ex art. 591, 1° co., sia di quelle "speciali" ipotesi d'inammissibilità del ricorso per cassazione previste dagli artt. 606, 3° co., e 613, 1° co.

Nella categoria delle inammissibilità cd. speciali è stata inserita anche la "manifesta infondatezza" dei motivi di ricorso, parificata sia per struttura e funzione, agli altri casi di inammissibilità.

Qualunque sia la ragione che sottende alla pronuncia di inammissibilità, è, comunque, di tutta evidenza che il rigore dello schema, cui si rifà il codice di rito, è frutto della necessità di circoscrivere e limitare la possibilità di utilizzazione del mezzo di impugnazione delle sentenze di merito davanti alla Suprema Corte.

Non è, infatti, casuale il giro di vite normativo intervenuto a fronte di una proliferazione, esplosa oltre ogni accettabile limite, di ricorsi per cassazione puramente defatigatori o dilatori, destinati ineluttabilmente ad una pronuncia di inammissibilità.

Sicchè l’accentuazione delle pronunce di inammissibilità (che sfiorano il 50% dell’insieme delle decisioni della Suprema Corte), ha determinato un progressivo approfondimento ed assestamento della giurisprudenza della Corte, relativamente alla distinzione fra cause d'inammissibilità "originarie" e "sopravvenute" del ricorso, da un lato[6].

Anche per quanto concerne lo specifico problema dell’applicazione della legge più favorevole all’imputato, nell’ambito delal successione di leggi penali nel tempo, affrontato dalla pronuncia che si commenta, la distinzione sopra ricordata appare rilevante.

Come ha autorevolmente affermato TRANCHINA[7], non vi è stata affatto soluzione di continuità fra la giurisprudenza formatasi nella vigenza del precedente codice e quella attuale, in quanto si “continua a distinguere a seconda che le cause suscettibili di determinare un'eventuale pronuncia che neghi l'ammissibilità dell'atto d'impugnazione siano originarie, cioè avveratesi anteriormente alla proposizione dell'atto stesso, o sopravvenute”.

Le cause cd. originarie provocano in capo all’atto di impugnazione (id est ricorso per cassazione) una condizione di inidoneità “ad introdurre il nuovo grado di giudizio e a produrre, quindi, quegli effetti cui si ricollega la possibilità di emettere una pronuncia diversa dalla dichiarazione d'inammissibilità” (Cfr. Cass. 8 novembre 1994, in Archivio della nuova procedura penale, 1995, 494; Cass., sez. un., 11 novembre 1994, in Cass. pen., 1995, 1165).

Ne consegue, quindi, l’assoluta impossibilità di rilevare e dichiarare eventuali motivi di non punibilità o di nullità assolutà.

Tale forma d’inammissibilità del ricorso, pertanto, non consente neppure l'esercizio del potere-dovere di decidere la questione, rilevabile d'ufficio, concernente la violazione del principio di legalità della pena. (Cass. pen., sez. V, 09/07/2004, n.36293).

Nel caso di cui alla massima che precede, la Corte , pur rilevando in via teorica l'illegittimità della pena applicata dal Giudice di appello per il reato di lesioni lievissime - che rientra nella competenza del Giudice di pace ed è punito con la multa e non con la reclusione, anche nel caso in cui il processo sia celebrato davanti a giudice diverso - e pur ritenendo, in assenza di specifiche doglianze al riguardo da parte del ricorrente, che si tratti di questione rilevabile d'ufficio, ha affermato la prevalenza della declaratoria di inammissibilità sulla declaratoria d'ufficio.

Il principio sopra esposto è stato, altresì, confermato anche recentemente dalle SS. UU., con la pronuncia 22 Marzo 2005, n.23428[8] che ha affermato testualmente “L'inammissibilità del ricorso per Cassazione (nella specie, per assoluta genericità delle doglianze) preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., l'estinzione del reato per prescrizione, pur maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza di appello, ma non dedotta né rilevata da quel giudice”.

Parimenti, nel novero descritto dell’inammissibilità di natura originaria rientra, secondo Cassazione, Sez. I, 30 Settembre 2004, n.39598,[9] l’impugnazione che difetti “dell'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, "ex" art. 591 c.p.p., comma primo, lett. c), all'inammissibilità del ricorso”.

Ed ulteriore esempio di deficit originario del ricorso è quello del ricorso presentato da un difensore non iscritto nell'Albo speciale della Corte di Cassazione.

Si tratta, a parere di Cassazione Sez. I, 16 Settembre 2004, n.38293, Oliari[10] di forma d’inammissibilità che si estende anche ai motivi nuovi presentati da difensore cassazionista dopo la scadenza del termine per impugnare.

Di particolare rilievo è, inoltre, come anticipato, l’infondatezza manifesta dei motivi.

Tale situazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 c.p.p. (Cassazione, Sez. IV, 21 Gennaio 2004, n.18641)[11].

Nel caso di specie, ad esempio, la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso. (conf. ex plurimis Sez. IV, 4 Luglio 2003, n.36993, Valduga, in Guida al Diritto, 2004, 3, 74; Sez. IV, 27 Maggio 2003, n.34618, Autieri, Guida al Diritto, 2003, 43, 68; Sez. III, 18 dicembre 2002, n.5161, Pfostl, Guida al Diritto, 2003, 23, 77; Sez. VI, 27 Novembre 2002, n.5758, Laforè, CED Cassazione, 2003; Cass. pen., sez. II, 21 Giugno 2002, n.43480, Siggillino e altri, Guida al Diritto, 2003, 13, 84).

La Sez. VII , con la decisione 17 Ottobre 2001, n. 40767, Pugliese[12], ha, però, posto una perimetrazione al citato principio, che, come si è visto, è ormai pacificamente ed unanimemente accolto in sede giurisprudenziale.

Afferma il Collegio, infatti, che “All'inammissibilità del ricorso, anche quando derivi dalla sua riconosciuta, manifesta infondatezza, esclude "ab origine" l'instaurarsi di un valido rapporto processuale di impugnazione ed impedisce, quindi, l'operatività di qualsivoglia causa di non punibilità, affermando, infatti, fanno eccezione solo i casi dell'"abolitio criminis" o della riconosciuta illegittimità costituzionale della norma incriminatrice”.

Opinione per nulla pacifica, attesa la visione diametralmente contraria sia della Sez. III, 18 Maggio 2001, n.26755, Mariani[13], che della Sez. IV, 25 Gennaio 2001, n.8200, Varas Mendoza[14].

La prima pronuncia ha, infatti, sostenuto come la preclusione derivante dall’inammissibilità investa non solo le questioni concernenti le cause estintive, ma anche quelle derivanti dall'eventuale abrogazione della norma incriminatrice, atteso che anche nel giudizio di cassazione (art. 614, comma 3, c.p.p.), il rapporto processuale si instaura con la costituzione delle parti e che "l'abolitio criminis", facendo venir meno la "causa petendi", costituisce solo una (benchè la più importante) delle questioni oggetto di trattazione nel processo, la cui constatazione è logicamente successiva alla verifica preliminare dell'ammissibilità dell'impugnazione.

La seconda decisione, ha concluso nel senso che “la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso per cassazione si risolve in una causa d'inammissibilità originaria dell'impugnazione, sicchè, formatosi il giudicato, alla Corte è impedito di prendere cognizione sulla fattispecie in imputazione anche nell'ipotesi di successiva depenalizzazione”.

In epoca precedente, si segnala come le SS.UU., con la decisione 30 Giugno 1999, n. 15, Piepoli[15], abbiano operato un incisivo distinguo in ordine al vizio di manifesta infondatezza dei motivi che provoca declaratoria di inammissibilità del ricorso.

In tale occasione, infatti affermando che la detta inammissibilità del ricorso per cassazione non impedisce che vengano rilevate e dichiarate, ai sensi dell'art. 129 c.p.p., le cause di non punibilità, la Corte ha, altresì, precisato che la dichiarazione di dette cause è preclusa, viceversa, dall'inammissibilità derivante dall'enunciazione, nell'atto di gravame, di motivi non consentiti e nella denuncia di violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello, trattandosi di ipotesi di inammissibilità originarie le quali non consentono quella delibazione sulla fondatezza della censura che costituisce peculiarità singolare della dichiarazione di inammissibilità per infondatezza dei motivi di impugnazione.

E’ chiaro, sul piano squisitamente esemplificativo, il riferimento a motivi di ricorso che si risolvano in doglianze di fatto, oppure a censure, che coinvolgendo la decisione di merito di primo grado, non siano state sottoposte al vaglio del giudice d’appello.

Per quanto concerne, invece, le cause cd. derivate o sopravvenute, si deve affermare che esse incidono in maniera più limitata e, di conseguenza, possono provocare l'impulso necessario per originare il giudizio d'impugnazione.

La sentenza della Sezione sesta, n. 14057, appare, pertanto, assolutamente condivisibile proprio perché evidenzia come la rilevata inammissibilità originaria del ricorso per cassazione, retroagisca alla data di verificazione della causa che l'ha determinata.

In virtù del fatto che la pronuncia del Supremo Collegio, come si è avuto modo di sottolineare ha natura dichiarativa e non costitutiva, essa opera ex tunc e preclude, pertanto, la trattazione di tutte le questioni, sia di procedura che di merito, ad eccezione di quella avente ad oggetto la medesima inammissibilità.

Il sopravvenire – pendente il ricorso - di un rilevante mutamento normativo che attiene al quantum di pena, che viene ridotto sensibilmente nel minimo edittale dell’art. 73 dpr 309/90 è circostanza assolutamente ininfluente, atteso che, a seguito della conclamata vis retroattiva dell’isituto dell’inammissibilità dell’impugnazione di legittimità – che nel caso in questione appare configurabile come originaria -, la sentenza emessa dalla corte territoriale (nella specie la Corte d’Appello di Roma) deve intendersi passata in giudicato, nonostante la proposzione del gravame, con la conseguente occlusione di ogni possibile intervento delibativo del giudice di legittimità (Conf. Sez. V, 29 Novembre 2000, n.4867, Maglieri).[16]

La modifica in melius del regime sanzionatorio appare, pertanto, in concreto, del tutto successiva temporalmente al giudicato che si è venuto a formare – nei modi sin qui descritti – e come tale insuscettibile di produrre alcuna efficacia.

 

(Altalex, 29 aprile 2006. Nota di Carlo Alberto Zaina)

[1] Per le modifiche intervenute sul punto, atteso che il vizio di motivazione non è più circoscritto al provvedimento impugnato (“«mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”) si consiglia l’ esame del testo della L. 46/2006 (cd. Pecorella-bis), nonché della sentenza n. 14054 della Sez. Vi del 20Aprile 2006, particolarmente analitica sul punto.

[2] Arch. Nuova Proc. Pen., 2000, 312

[3] cfr. su questa rivista i commenti

7.04.2006 Le nuove tabelle relative alle sostanze stupefacenti: una ulteriore fonte di dubbio

11.03.2006 Ulteriori perplessità sul nuovo regime di cui all'art. 89 DPR 309/90

06.03.2006 Custodia cautelare per il tossicodipendente: il nuovo regime dell’art.89 dpr 309/90

23.02.2006 Il momento consumativo del reato di cessione di sostanze stupefacenti (Cassazione , sez. IV penale, sentenza 07.12.2005 n° 44621)

8.2.06 Prime osservazioni sulle modifiche alla disciplina penale degli stupefacenti

[4] Riv. Pen., 2004, 1013 , Arch. Nuova Proc. Pen., 2004, 660

[5] In GAITO, Codice di procedura penale Ipertestuale, UTET, 2001

[6] Cfr , CP , 1995, 3296, con nota di Marandola, Sul rapporto tra l'inammissibilità dell'impugnazione e l'immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità ; GI , 1996, II, 481, con nota di Atzei, Il problema dei rapporti tra cause di inammissibilità dell'impugnazione e cause di non punibilità al vaglio delle sezioni unite ; C., S.U., 30.6.1999, Piepoli, CP , 2000, 843, con nota di Presutti, Ancora un intervento delle sezioni unite in tema di inammissibilità dell'impugnazione e declaratoria ex art. 129 c.p.p. ed ivi , 1534, con nota di Marandola, Inammissibilità del ricorso per cassazione e declaratoria di determinate cause di non punibilità nella giurisprudenza delle Sezioni unite

[7] Voce Impugnazione (dir. proc. pen.) [II agg., 1998] in Enc. Dir. GIUFFRE’

[8] CED Cassazione, 2005

[9] CED Cassazione, 2004

[10] CED Cassazione, 2004

[11] CED Cassazione, 2004

[12] Arch. Nuova Proc. Pen., 2002, 198

[13] Arch. Nuova Proc. Pen., 2001, 618

[14] Cass. Pen., 2001, 2124

[15] , Cass. Pen., 2000, 25,843, 1534, nota di PRESUTTI; MARANDOLA Foro It., 2000, II, 80

[16] CED Cassazione, 2001, RV219060

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Sentenza 3-20 aprile 2006, n. 14057

Presidente Di Virginio – Relatore Rotundo

Pm Fraticelli – Ricorrente I.


Fatto e diritto

 

1. La Corte di appello di Roma, Sezione seconda penale, con sentenza in data 20 aprile 2004, in parziale riforma della condanna pronunciata in primo grado nei confronti di I. C. per il reato di cui agli articoli 81 cpv. Cp e 73 Dpr 309/90, ha ridotto la pena a lui inflitta, esclusa la continuazione, ad anni tre, mesi sei e giorni venti di reclusione ed euro dodicimila di multa, con interdizione dai pubblici uffici per anni cinque, confermando nel resto.

2. Avverso la citata sentenza del 20 aprile 2004 ha proposto personalmente ricorso per cassazione I. C., chiedendone l’annullamento per “erronea applicazione degli articoli 73 e 75 Dpr 309/90 e relativo vizio di motivazione”.

A suo avviso, la Corte di appello avrebbe errato nel non escludere la destinazione allo spaccio dei 176 grammi di cocaina da lui detenuti, in quanto le risultanze indicate nella sentenza impugnata (occultamento della droga presso la abitazione della sorella; rinvenimento di sostanza da taglio, bilancino di precisione ed attrezzatura varia per il confezionamento delle dosi) non sarebbero elementi idonei a denotare che la cocaina non fosse destinata ad esclusivo uso personale.

Il ricorrente deduce altresì “erronea applicazione della legge penale e relativo vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione del comma 5 dell’articolo 73 Dpr 309/90”.

3. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.

La Corte di appello di Roma ha già fornito corretta ed adeguata risposta a tutte le censure, già sollevate con i motivi di gravame.

In particolare, nella sentenza impugnata si è puntualizzato che sussistevano “plurimi elementi indiziari, convergenti verso l’ipotesi della destinazione dello stupefacente detenuto dall’imputato alla cessione”, e cioè:

- “l’elevato quantitativo di droga complessivamente detenuto (pari a circa 1200 dosi medie giornaliere)”;

- “il rinvenimento, unitamente alla sostanza stupefacente, all’interno di una cassetta di sicurezza, di un bilancino di precisione, di sostanza da taglio (mannite), di attrezzatura varia per il confezionamento delle dosi (forbici,

- cucchiaino, rotolo di nastro metallico, carta plastificata tipo bancomat per il mescolamento, ben 48 ritagli di buste di cellophane);

- “l’occultamento della sostanza e della attrezzatura indicate presso la abitazione della sorella, luogo evidentemente ritenuto più sicuro”;

- “l’aver portato fuori dell’abitazione, con i rischi conseguenti, un quantitativo di cocaina pari ad oltre dieci grammi, e quindi a circa sessanta dosi, certamente superiore e di molto alla quantità che l’imputato avrebbe potuto assumere nella giornata”.

Su queste basi, la Corte dì merito ha osservato che, come correttamente rilevato anche nella sentenza di primo grado, “la dimostrata condizione di assuntore dello stupefacente poteva tutto al più consentire di ritenere che la droga in parte fosse destinata al consumo personale del detentore, ma non era sufficiente da sola, in relazione alla quantità detenuta ed alla presenza di strumentazioni ed oggetti solitamente posseduti dagli spacciatori, ad accreditare l’ipotesi della destinazione dell’intero stupefacente al fabbisogno personale dell’imputato”.

Infine la Corte di appello ha puntualizzato che il quantitativo elevato di cocaina, “anche accedendo alla ipotesi di una parziale destinazione dello stupefacente al consumo personale”, unitamente alla buona qualità della sostanza (pura dal 62,4 al 70,9 %), escludevano la riconducibilità del fatto nell’ambito della ipotesi attenuata di cui al comma quinto dell’articolo 73 Dpr 309/90.

Le suddette argomentazioni della Corte di appello di Roma costituiscono corretta applicazione delle regole del diritto, in aderenza a consolidati orientamenti giurisprudenziali. Inoltre il tessuto motivazionale della sentenza censurata non presenta affatto quella carenza o macroscopica illogicità del ragionamento del giudice di merito

che, alla stregua dei principi affermati da questa Corte, può indurre a ritenere sussistente il vizio di cui all’articolo 606, lettera e), Cpp, nel quale pure si risolvono le censure. Come si è visto, l’argomentare della Corte di merito é logico ed adeguato e, a fronte di esso, il ricorrente si é limitato sostanzialmente a controbattere generici e indimostrati argomenti di segno contrario. Ma non può certo costituire vizio deducibile in sede dì legittimità la mera prospettazione di una diversa (e, per il ricorrente, più adeguata) valutazione delle risultanze processuali. Non rientra, infatti, nei poteri di questa Corte quello di compiere, come sostanzialmente si chiede, una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, essendo il sindacato in questa sede circoscritto alla verifica dell’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione.

3. La legge 49/2006 (il cui articolo 4bis ha modificato in senso più favorevole le pene previste per il reato contestato allo I.) non trova applicazione nel caso in esame ai sensi dell’articolo 2, terzo comma Cp, in quanto, trattandosi di ricorso inammissibile per i motivi suesposti, deve ritenersi formato il giudicato e pronunciata sentenza irrevocabile, limite insuperabile anche innanzi a disposizione più favorevole al reo. Anche la dichiarazione di inammissibilità per manifesta infondatezza del ricorso si risolve, infatti, in una absolutio ab istantia derivante dalla mera apparenza dell’atto di impugnazione (Su 32/2000, De Luca).

4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende [che, in relazione alla peculiarità del caso, si ritiene equo determinare in euro 1.000,00 (mille), non ravvisandosi elementi per escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità].

 

P.Q.M.

 

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 (mille) in favore della cassa delle ammende.


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