Festa della Donna

 

Festa della donna nel carcere della Giudecca raccontata da due redattrici, una "relegata" tra fornelli e pentole, l’altra nel pieno degli avvenimenti, tra il Ministro Fassino e una marea di altri invitati

 

L’8 marzo 2001 è la data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della nuova Legge sulle detenute madri, e l’8 marzo il Ministro Fassino era alla Giudecca, a incontrare noi donne detenute e a parlare di quello che è stato fatto o che non è stato fatto per il carcere in quest’ultimo anno.

La giornata incomincia con l’apertura del blindo alle 8, e già in questo momento si nota il movimento inusuale dovuto alla novità di quello che ci aspetta: 100 ospiti esterni dentro un carcere, assessori, rappresentanti di Comune, Provincia, Regione, di enti, cooperative, associazioni. Tra noi detenute, c’è chi parteciperà alla festa, chi invece si è offerta come volontaria in cucina ed è già pronta per scendere tra i fornelli, e chi ha scelto di starsene a fare quello che fa gli altri 364 giorni dell’anno.

 

Patrizia, l’inviata tra gli ospiti

 

I preparativi: sono davvero complicati, perché l’idea che abbiamo è di dare a ogni ospite materiali che siano davvero interessanti, e che facciano capire qualcosa del carcere. Quindi con Anais, Daniela e Mara cominciamo il lavoro a catena per inserire in ogni borsa una copia di Ristretti Orizzonti, una Rassegna Stampa sulle donne in carcere, opuscoli informativi per gli stranieri detenuti preparati dai nostri compagni della redazione del "Due Palazzi" di Padova, e poi altri materiali con notizie sulle cooperative e associazioni di volontariato che danno lavoro all’interno e all’esterno delle carceri veneziane, "Rio Terà dei Pensieri", "Il Granello di Senape", "Il Cerchio".

Appena scesa nel cortile dei passeggi ho notato che mancavano delle compagne (l’invito era per tutte), devo dire che mi aspettavo la partecipazione di tutte, ma capisco che ci sia stato qualche disagio: se il programma avesse previsto un nostro intervento con domande e considerazioni sulla nostra condizione, la cosa forse avrebbe incuriosito più persone e creato un’atmosfera più calda e amichevole, e invece tutto mi è sembrato un po’ troppo formale.

Alla fine ho pensato che forse avremmo dovuto anche noi avere più coraggio, e prenderci le nostre responsabilità, rivendicare un ruolo più attivo di fronte a chi temeva che non ne fossimo all’altezza. Invece, tutto si è svolto tra presentazioni, ringraziamenti e impegni che gli ospiti si sono assunti per dare lavoro ai detenuti dentro e fuori dal carcere, ma anche questo conta, è importante perché costringe assessori, imprenditori, operatori a dire con chiarezza che cosa intendono fare per il carcere. Noi, da parte nostra, abbiamo imparato che nessuno ti regala niente, e quindi la prossima volta è da noi stesse che dobbiamo partire per conquistarci i nostri spazi: e lo faremo, a cominciare da una giornata di festa-studio che vorremmo organizzare per maggio, magari per chiedere a chi ha fatto delle promesse se ha cominciato davvero a mantenerle. La direttrice delle carceri veneziane, Gabriella Straffi, ha iniziato il suo intervento dicendo che le feste in carcere hanno sempre un po’ di malinconia: è vero, ma proprio per questo pensiamo che un ruolo nostro più forte, attivo, con più grinta possa trasformare la malinconia in desiderio di riprenderci in mano, in prima persona, il nostro destino.

Io, per quel che mi riguarda, ho cercato di seguire con attenzione tutto il convegno, in quanto sapevo che avrei dovuto scriverne per il giornale: il lavoro per i detenuti è stato al centro del dibattito, con i progetti che stanno coinvolgendo e dovrebbero coinvolgere ancora di più i detenuti all’esterno, nelle attività di risanamento delle isole della laguna, ma si è parlato anche di lavoro "dentro", quando Raffaele Levorato, della cooperativa sociale "Rio Terà dei Pensieri", ha energicamente spiegato quanto difficile è portare a termine un progetto all’interno delle carceri, primo, perché c’è sempre qualcosa o qualcuno nell’ambito burocratico che complica il percorso, e secondo, perché in carcere, soprattutto nei circondariali come a Santa Maria Maggiore, ci sono continuamente detenuti che entrano e che escono, e questo inevitabile ricambio rallenta il lavoro, frena i ritmi, costringe spesso a ripartire da zero nell’organizzazione delle attività lavorative.

Ma anche il problema degli alloggi e dell’accoglienza è stato toccato, ne ha parlato la presidente dell’Istituto della Pietà, Anna Maria Miraglia, riferendo di un progetto per mettere a disposizione, al più presto, uno spazio abitativo da destinare all’accoglienza di soggetti disagiati, tra cui appunto detenute ed ex detenute.

Per ultimo mi è rimasta impressa la figura del Ministro di Giustizia Piero Fassino, in un primo momento mi sembrava annoiato ma credo stesse riflettendo, poi quando è toccato a lui parlare ho sentito umanità e rispetto per noi donne, e questi due sentimenti rendevano meno freddo il suo ruolo istituzionale di Ministro. Al centro del suo intervento, la necessità di rompere una condizione di isolamento, di solitudine, di estraneità che il carcere vive, e l’importanza che può avere il lavoro a tal fine, purché si portino in carcere lavori "veri", gli stessi che si fanno fuori, e non lavori marginali. Quanto al reinserimento, il Ministro ha parlato di questo fondo (380 o 400 o 320 o 300 miliardi? Stranamente, questa cifra cambia di continuo, in tutti gli interventi ufficiali) previsto dalla Legge Finanziaria per creare opportunità di reinserimento sociale e lavorativo per i detenuti: su questo ci sarebbe piaciuto però chiedergli qualcosa di più, soprattutto come verranno impiegati in concreto questi soldi, ma non ci siamo riuscite.

Al termine del convegno, dalla sala ci siamo spostati all’esterno, nel cortile dei passeggi, dove nel sottoportico erano esposti lavori di ceramica, realizzati da alcune compagne durante un corso all’interno del nostro Istituto, poi maschere per il Carnevale di Venezia e collane di perle di vetro, perché questi sono lavori artigianali che la cooperativa Il Cerchio ha in progetto di portare all’interno del carcere, e ancora borse, pantofole, centrini, portaoggetti ecc., infine i prodotti coltivati nell’orto che abbiamo qui dentro alla Giudecca, dove ogni mattina alcune compagne si recano a lavorare tra serre, terra e alberi.

Alcuni tavoli poi erano imbanditi con il cibo multietnico che Emilia e le altre compagne preparavano in cucina: uno straordinario "rimescolamento" di cibi sudamericani, slavi, albanesi, e di venezianissimi "seppie nere" e "bigoi in salsa" preparati sotto la guida sapiente di un cuoco di uno dei migliori ristoranti di Venezia.

Appena uscite dalla sala c’è stata un po’ di confusione, le Agenti che facevano andare noi verso il cortile oltre il sottoportico, gli ospiti invece dalla parte opposta, probabilmente per avere il controllo della situazione, poi invece, quando sono arrivate tutte le portate del pranzo, ci siamo mescolate assieme agli altri e qualcuna di noi ha potuto scambiare due parole con gli ospiti. La Direttrice e la Comandante mi sono sembrate disponibili e rilassate, mentre le Agenti si sono disposte in modo da osservare tutta la situazione, beh... normale questo, dato che siamo, nonostante la particolare giornata, all’interno di un Istituto Penitenziario.

 

Emilia in cucina

 

In cucina è stata una specie di guerra. Arrivate giù, Jamai inizia a disperarsi perché le mancano le verze (o meglio, si sono disintegrate in un "eccesso di cottura"). Mi giro e vedo Cristina (detta Mama Sita), alta un metro e tanta voglia di crescere, in punta di piedi davanti ai fornelli indaffarata a mescolare circa 11 kg. di riso: pur essendo in quella posizione a malapena riesce a vedere quello che mescola, e così chiede ogni tanto il mio intervento, seppure tra noi due non ci sia tanta differenza di altezza, pressappoco un centimetro.

Poi c’è Carmen, che deve preparare piccole sfoglie sottili per gli involtini primavera e l’unico tegame che le serve misura 20 cm. di diametro, sta di fatto che quel pentolino viene continuamente sacrificato, per motivi di spazio di cui le altre compagne hanno bisogno, e così gira tutti gli 8 fornelli, per non parlare poi del fatto che ogni spostamento del tegame comporta lo spostamento di tutto l’occorrente che è sul tavolo.

Patricia e Ines intanto fanno le Empanade, piatto tipico colombiano. E Gena controlla il suo dolce e va sempre avanti e indietro per la cucina, disperata, chiedendo chi voglia assaggiarlo e cercando ovunque rassicurazioni sulla sua riuscita.

Non bisogna però dimenticare Lidana, l’addetta alle vasche, lei ha il compito di recuperare e lavare tutte le pentole che trova, in modo che siano pronte per essere riutilizzate, in pratica il suo lavoro non finisce mai, e quanto a gratificazioni, siamo sotto zero...

A quel punto arriva il cuoco, per 5 minuti si guarda attorno, non so per quale motivo, certo non può essere per la cucina in quanto, avendo un ristorante qui a Venezia, è pratico di quest’ambiente.

C’è da dire che all’inizio sentivamo che c’era distacco tra noi e lui, probabilmente dovuto al fatto che eravamo persone estranee e, considerando anche il posto, da parte sua c’era una certa difficoltà ad aprire questo "rapporto di lavoro" con delle detenute. Per rompere il ghiaccio, era necessario fare le dovute presentazioni, così sono andata da lui e gli ho detto il mio nome, e lo stesso hanno fatto le mie compagne, dopo di che il lavoro è potuto proseguire meglio, se non altro ci chiamavamo per nome, e forse lui ha capito che siamo delle persone abbastanza "normali" anche noi… Alla fine, pare che tutti gli ospiti abbiano apprezzato lo strano pranzo etno-veneziano.

 

Patrizia e Emilia

 

 

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