Articolo per Fuoriluogo

 

Morti senza memoria

di Sergio Segio

 

Fuoriluogo, febbraio 2004

 

Il primo del 2004 si chiamava P.G., 41 anni. Si è ucciso proprio il 1° gennaio in una cella di Rebibbia, forse perché era stato licenziato: non fuori, ma in carcere, dove l’unico articolo 18 che l’amministrazione penitenziaria riconosce è quello dell’Ordinamento penitenziario, che disciplina i colloqui e la corrispondenza.

Ne ha scritto qualche giorno dopo Luigi Manconi, in un articolo che si concludeva con una banale, ancorché rimossa e amara, verità: in galera non ci si ammazza tanto perché si è disperati, in galera ci si ammazza perché si è in galera.

Forse è dunque per vergogna che le autorità competenti non forniscono più da tempo i dati dei suicidi, dell’autolesionismo, delle morti di carcere. Nella corposa relazione del ministero sull’amministrazione della giustizia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, al riguardo non c’è il minimo accenno. Somiglia un po’ al "tutto va bene, madama la marchesa" del Berlusconi di Porta a porta.

Stessa omissione nell’intervento fatto nella medesima occasione dal ministro Castelli, che ha invece trovato spazio per parlare, come fosse novità, del solito piano per l’edilizia di 23 nuovi penitenziari (piano demeritoriamente voluto e varato dal passato governo di centrosinistra con Piero Fassino), dell’attivazione di 361 corsi di formazione con il coinvolgimento di 3.879 detenuti (vale a dire appena il 7% della popolazione detenuta), nonché dell’istituzione nella polizia penitenziaria di un reparto a cavallo (sic!).

L’unica traccia di un’attenzione alle morti dietro le sbarre si trova nella relazione di apertura dell’anno giudiziario tenuta il 12 gennaio dal procuratore generale della Corte di cassazione, Francesco Favara. Il quale, lamentando che «molti procuratori generali non hanno fornito dati precisi» e definendo «allarmante » il numero dei suicidi e tentati suicidi dei detenuti, ha fornito la seguente cifra: dal 1° gennaio 2002 al 30 settembre 2003 i casi sono stati 108, di cui 83 suicidi. Una cifra che il procuratore

generale dichiara provenire da un’imprecisata «altra fonte» rispetto a quella che sarebbe titolata e fors’anche tenuta a fornirli, ovverossia il Dap. E viene quasi da pensare che la fonte utilizzata sia quel dossier "Morire di carcere", realizzato da Ristretti orizzonti (www.ristretti.it), il giornale dei detenuti e detenute di Padova e Venezia, di cui abbiamo parlato in Fuoriluogo del novembre scorso. Così fosse, sarebbe certo paradossale, ma allo stesso tempo renderebbe più affidabili le cifre indicate. Basti vedere i numeri sull’applicazione del cosiddetto "indultino" (detto anche "insultino") forniti il mese scorso dalle autorità preposte: circa 2000 (secondo la relazione del ministero per l’inaugurazione dell’anno giudiziario); 2.700 (per Giovanni Tinebra, capo del Dap); 3.941 (seguendo l’intervento del ministro della Giustizia Roberto Castelli all’inaugurazione dell’anno giudiziario).

L’unica cosa certa è che molti di coloro che hanno usufruito della legge 1° agosto 2003 n. 207 stanno rapidamente rientrando in carcere, in genere a causa delle modalità e dei controlli previsti che hanno carattere vessatorio e di difficile praticabilità, come, inascoltati, avevamo denunciato nel corso dei lavori parlamentari.

Nel frattempo, il dossier di Ristretti orizzonti ha aggiornato a gennaio 2004 i dati delle morti (75 nel 2002 e 75 nel 2003 quelle ricostruite, tra suicidi, decessi per malasanità, per cause non chiare, per violenze e per overdose) e ha aggiunto un nuovo capitolo all’indagine: quello sugli esiti dei procedimenti giudiziari aperti per le morti e i pestaggi. Risultato: «Se una volta su due la morte di un detenuto passa sotto silenzio, nove volte su dieci i processi per queste morti non trovano spazio sui giornali. Tantomeno ne trovano le notizie relative ai processi per le presunte violenze e omissioni commesse a danno dei detenuti, che invece non sono così rari come la gente pensa», scrivono i curatori della ricerca.

I procedimenti forse non sono rari, ma quello che sembra essere poco frequente è la condanna, che avverrebbe solo in un 10% dei casi, perlomeno dovendo stare a una delle fonti (il segretario di uno dei maggiori sindacati della polizia penitenziaria) rintracciate sui giornali, che sono l’unica origine della documentazione raccolta da Ristretti.

Vero è che la documentazione reperita è decisamente insufficiente per fondare una qualche statistica significativa, pur se sono stati circa 5.000 gli articoli contenenti notizie sul carcere consultati. Il materiale raccolto riguarda infatti solo 32 procedimenti, relativi a morti avvenute nell’arco di ben 10 anni. Ancora minori gli articoli su presunti pestaggi e maltrattamenti subiti da detenuti: quelli rintracciati concernono meno di 20 inchieste e praticamente nessuna è seguita sino alla sentenza definitiva.

Mai come in questo caso si può dire allora che la notizia (inquietante) è proprio la mancanza di notizie, vale a dire della disattenzione dei media, e quindi della pubblica opinione, al rispetto della legalità, della vita, della salute e della sicurezza dei cittadini rinchiusi nelle prigioni.

 

 

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